Scegliere l’incontro

La costruzione della pace, cioè la continua riparazione delle fisiologiche micro-fratture che si verificano nelle relazioni, passa per la consapevolezza di ciò che fa bene e di ciò che fa male, ma discende anche da un costante lavoro su se stessi.
20 Ottobre 2023 | di

Vi sarà senz’altro capitato di assistere a diverbi tra automobilisti ed è probabile che tutti, almeno una volta, ci siamo lasciati scappare qualche parola di insulto all’indirizzo di un guidatore davanti a noi, colpevole di aver rallentato la nostra corsa con una manovra particolarmente lenta. Alle volte i meno temperanti abbassano il finestrino e, con ampi gesti e aspre parole, palesano il proprio disappunto. Una piccola storia vera narra di un autista ottantenne che, sentendosi apostrofato in malo modo con una serie di improperi riferiti alla sua evidente veneranda età, replicò sorridente e disarmante al suo detrattore: «Ma lei, come sa tutte queste cose vere di me?». Riprendo spesso questo episodio, non senza annotare la prontezza di spirito del protagonista, che è dovuta in parte al carattere, ma in misura maggiore a un atteggiamento interiore, maturato e coltivato volontariamente nel tempo. 

Battute di questo tipo, capaci di interrompere una potenziale escalation violenta, nascono da una volontà molto determinata ad anteporre l’incontro e il desiderio di reciproca comprensione alla propria autoaffermazione. Impiego la parola «volontà», che forse è un po’ in disuso, ma che rimane molto precisa nel suo significato antropologico, per sottolineare che se il desiderio di pace e di concordia è qualcosa di intuitivamente condiviso, la ferma e libera decisione – la voluntas – di perseguirlo in prima persona, non è qualcosa di così conseguente. Non è fragile il nostro desiderio, ma lo è la nostra capacità di impegnarci per il bene.

La storia dell’anziano signore ci ricorda che la costruzione della pace, cioè la continua riparazione delle fisiologiche micro-fratture che si verificano nelle relazioni, passa attraverso la consapevolezza di quel che fa bene e di quel che fa male alle persone, ma discende anche e soprattutto da un costante lavoro su se stessi, sul proprio modo di reagire a quel che importuna, che scomoda, che avvilisce o che persino ferisce. Si potrebbe dire che consapevolezza e esercizio interiore sono il lato intellettuale e il lato pratico, operativo, della costruzione della pace, a qualsiasi livello. Il lato del riconoscimento delle forme del male è importante, anche socialmente: abbiamo bisogno di ritrovarci nel denunciare ciò che è offesa, mancanza di rispetto, torto, sopruso, violenza. Oggi c’è una sensibilità molto più viva rispetto a epoche passate, almeno da questo punto di vista.

Ma che dire del lato pratico, e perché la chiave «operativa» per la pace risiederebbe anzitutto nel lavoro su se stessi? Possiamo comprenderlo proprio attraverso la lezione dell’anziano automobilista. Il male si propaga nelle relazioni non tanto attraverso le iniziative deliberatamente lesive, perché queste – pur nella loro gravità – sono la minor parte. Il male si propaga molto di più nei nostri tentativi impulsivi di fare giustizia, cioè proprio quando percepiamo il male come vittime e reagiamo, desiderando sì di rimettere le cose a posto, ma imboccando la strada della restituzione del male al male, dell’offesa all’offesa. È lo schema della «giustizia retributiva»: vorremmo ripristinare il bene e l’equilibrio, ma in pratica reagiamo specularmente, introducendo a nostra volta altro male. Non c’è da meravigliarsi che a ogni rispecchiamento tra confliggenti il volume del male aumenti: è il fenomeno che chiamiamo escalation.

Il protagonista dell’apologo non ha fatto come se nulla fosse davanti all’offesa: ha piuttosto cercato di dare il tempo a quella conversazione, potenzialmente esplosiva, di rientrare in un alveo di civiltà. Ha infranto l’immediatezza dello specchio. Per compiere questo gesto è stato capace di trattenere presso di sé il male – in questo caso delle parole, dell’offesa, dell’aggressività – quel tanto che basta per non farlo rimbalzare sull’altro in modo appunto speculare, e magari già amplificato. Trattenere il male presso di sé è molto faticoso: richiede la forza di ospitare in se stessi un vissuto di ingiustizia, senza rimanerne avvelenati, riuscendo a dissiparlo interiormente, se più lieve, o a custodirlo con pazienza, per il tempo che serve per creare le condizioni per riuscire ad affrontarlo con un concorde atteggiamento riparativo. 

Ma come matura questa capacità? Non è qualcosa che si improvvisa: la battuta autoironica è solo uno dei modi in cui può manifestarsi, ma alle spalle c’è un lavoro costante che inizia dalle piccole cose, dall’esercitarsi nell’infrangere l’impulso a reagire specularmente nelle occasioni da poco – continue nella vita – in cui ci si sente offesi, sminuiti, non riconosciuti. Questo esercizio non è passività, non è lasciar correre: è trattenere imparando a dissipare e, dove occorre, dandosi il tempo per individuare e attivare risposte tese a ripristinare la giustizia e non (più immediatamente e solo) l’amor proprio scalfito.

La lotta di reazione al male non è evitabile nell’esperienza umana, ma sta a ciascuno stabilire se il campo di battaglia sarà anzitutto quello delle relazioni con gli altri o non piuttosto quello interiore, contro le spinte che in noi stessi inclinano a replicare al male con il male. È una scelta inevitabile, da cui dipende l’intensità dell’impegno «pratico» di ciascuno per la pace.

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Data di aggiornamento: 24 Ottobre 2023

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