03 Luglio 2019

Una risata ci salverà

Un alcolista finito in sedia a rotelle riscopre l’amore per se stesso e per gli altri grazie alla vocazione fumettistica. È la trama di «Don’t worry» (USA 2018), pellicola di Gus Van Sant che parla di disabilità con ironia.
Joaquin Phoenix e Jonah Hill in una scena di «Don’t worry».
Joaquin Phoenix e Jonah Hill in una scena di «Don’t worry».
Courtesy of Amazon Studios

John Callahan (interpretato da Joaquin Phoenix) è un alcolista di Portland (Usa), pesantemente legato al vizio del bere. L’alcol lo aiuta a stordirsi e superare timidezze e inibizioni sociali. Le ragioni sono antiche e risalgono alle difficoltà di bambino adottato: «Mia madre non mi voleva». Ne derivano conseguenze nefaste, non solo sul piano fisico, ma soprattutto sull’autostima: le droghe impediscono al protagonista di percepire desideri originali, di scommettere sui propri talenti, di allacciare relazioni intense, né precipitose né consumistiche. Da un party a un cocktail, da una sbronza a un’incoscienza depressiva, quel corpo squilibrato si spezza nello schianto notturno di una strada solitaria. Alla guida c’era un suo compagno di bevute: «Dexter scambiò un palo della luce per un’uscita e lo prese in pieno a 150 km orari».

Ispirato alla storia del vero John Callahan (1951-2010), questo film biografico (biopic in gergo) ci offre una parabola, prima tragica e poi inaspettatamente felice, dell’odissea di un disadattato, portatore di gravi disabilità. La salvezza viene da incontri bizzarri ed eventi paradossali. John cerca un gruppo di auto-aiuto, diretto da un leader ricco e malinconico, Donnie (Jonah Hill), un guru  omosessuale che propone in maniera sferzante le impegnative regole di recupero per alcolisti anonimi. John non chiede né offre pietismo, commiserazione, consolazione a buon mercato. Odia i luoghi comuni del sentimentalismo, detesta lo stigma di handicappato, urla il suo disagio e lo sublima nelle sue battute sferzanti, urticanti, rabbiosamente ironiche. Scopre così che le sue vignette smuovono i lettori, li lasciano prima interdetti e poi sorpresi, nel senso dell’approvazione o dello scandalo, della risata o del rifiuto imbarazzato. Un giornale locale comincia a interessarsi di quella satira, che diventerà una rubrica di successo e farà di lui uno dei cartoonist più apprezzati d’America.

Alcuni fotogrammi sono separati dagli altri, nel montaggio. Non appaiono quindi figure in movimento continuo, ma inquadrature di fotografie isolate, di quadri staccati tra loro, che si succedono l’uno all’altro attraverso salti, cesure, scarti. Questo blocco motorio (kìnema significa movimento, in greco) corrisponde alla paralisi fisica di John, ma non solo. Corrisponde anche alla frattura della sua vita, allo spezzarsi di quel filo che dà bellezza a un’intera storia, che ne segna il ritmo, che ne dipinge la figura. Il compito morale, che il malato affronta, è appunto quello di ricomporre (o di tessere per la prima volta) l’album di immagini, di ricordi, di passioni, di speranze, di delusioni, che affollano la sua mente in modo confuso, disarticolato, rotto. Il male ha frantumato una biografia, ha ferito un’esistenza e la pellicola ci sbatte negli occhi visioni interrotte, insicure, straniere. A noi il compito di immaginare una sutura, di cucire un ordito verosimile, di calarci in una speranza improbabile, in una vicenda quasi miracolosa.

Colpiscono le riprese della scrittura. La macchina da presa inquadra il foglio bianco, che il pennarello di John poco alla volta riempie di immagini e di parole. Le sue vignette irriverenti, satiriche, politicamente scorrette, sono tracciate dalle due mani congiunte, che si aiutano l’un l’altra nel reggere lo stilo, per rimediare agli spasmi, alla debolezza, al tremolio di quelle braccia ferite. C’è tutto il corpo di John in tensione, come in una preghiera, in un’offerta di sé alla verità della denuncia, sperando di suscitare l’interesse dei lettori, che in effetti reagivano con lodi vivaci oppure con sdegno e irritazione. Il cinema d’emancipazione ci inchioda alle nostre responsabilità, anche se siamo comodamente seduti sulle poltrone di sala. Il gruppo degli spettatori, ovunque si trovi, è una comunità di sostegno, che sperimenta visioni terapeutiche e prepara conversioni felici. La narrazione allarga le nostre capacità d’immaginazione e identificazione con lo straniero, l’alieno, il soggetto disprezzato, reietto, socialmente fragile.

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Data di aggiornamento: 03 Luglio 2019
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