28 Novembre 2023

Amare come siamo amati

La relazione di coppia non è mai il fine ultimo, bensì solo un mezzo per camminare verso il fine ultimo: realizzare pienamente la nostra condizione di figli di Dio.
Amare come siamo amati

© Giuliano Dinon / Archivio MSA

«In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: “Maestro, Mosè ci ha prescritto: ‘Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello’. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie”.
Gesù rispose loro: “I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: ‘Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe’. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui”» (Lc 20, 27-38).


Se non scrivessimo sul «Messaggero di sant’Antonio», un po’ di ironia su questo brano sarebbe facile farla. Fortunatamente scriviamo per questa rivista e quindi «ci tocca» fare i seri. Venendo al brano del Vangelo, dunque, ci sembra che quello che Gesù ci dice rispetto alla realtà della vita oltre la morte possa essere una chiave di lettura anche per la nostra relazione di coppia terrena. Egli ci sta indicando il fine ultimo della nostra esistenza e, come sempre accade, guardando alle cose dalla fine, capiamo meglio anche l’inizio. In giro è pieno di gente che brancola nel buio, non sapendo dare un significato profondo, una direzione alla propria esistenza, percependo la propria vita solo come un insieme di faccende spesso faticose e stressanti. Anche il matrimonio stesso, se non è illuminato da una finalità ultima, rischia di essere vissuto solo come un’inutile amputazione della propria libertà personale.

Da adolescente mi innamorai di un film che, all’epoca, guardai almeno una trentina di volte: La leggenda del re pescatore. A un certo punto, in questo magnifico film denso di simbolismi e messaggi di valore, uno dei due protagonisti (interpretato da Jeff Bridges) soccorre un «barbone» un po’ pazzo ed eccentrico, che voleva morire immerso nel letame di cavallo a Central Park (New York). Nella scena successiva i due si trovano seduti nella sala d’attesa di un ospedale, che assomiglia più a un manicomio a dire il vero, e il «barbone» è disteso in grembo al suo soccorritore (con un forte richiamo visivo alla pietà di Michelangelo). I due cominciano un dialogo in cui il protagonista chiede all’uomo senza fissa dimora che cosa lo abbia condotto a vivere per strada, e questi, cambiando il tono della propria voce, comincia a raccontargli che un tempo era stato un cantante che si esibiva nei locali alla moda di New York, ottenendo un discreto successo, finché un giorno, durante una esibizione, gli si era affacciata nella mente una domanda: «Ma che senso ha tutto questo?». Non riuscendo a dare una risposta al quesito, tutto cominciò a perdere senso e sopraggiunse la follia. 

Gesù, nel brano del Vangelo citato all’inizio, ci dice dunque che il matrimonio, la relazione di coppia (e qualsiasi altra situazione della nostra esistenza), non è mai il fine ultimo, bensì solo un mezzo per camminare verso il fine ultimo, che è quello di realizzare pienamente la nostra condizione di figli di Dio. Tutto assume un senso solo se siamo rivolti a questo fine. La nostra vita è orientata a compiere, in modo proprio e originale, la potenzialità insita nell’essere figli di un Padre che ci ama alla follia, che ci ha donato suo figlio per mostrare quanto sia innamorato di noi, sue creature. 

Il fine ultimo di un figlio di Dio, il nostro fine ultimo, non è fare buone azioni, perdonare, comportarsi bene. E non è neppure diffondere la buona notizia, bensì lasciarsi amare dal Padre, abbandonandosi tra le sue amorose braccia. Tutto il resto è solo una conseguenza di questo rapporto tra il nostro Dio-Amore e noi esseri amati. Allora, anche la nostra vita all’interno di una relazione di coppia è una magnifica occasione per vivere questa esperienza d’amore: al suo interno siamo dunque chiamati a «travasare» l’amore che continuiamo a ricevere dal Padre nel nostro coniuge e nelle altre persone della famiglia. Perché l’amore del Padre ci è donato affinché noi lo ridoniamo.

Questo non significa che nell’aldilà non avremo più rapporti con le persone che ci sono state care nella vita terrena, ma che in paradiso vi sarà il pieno compimento di questo fine ultimo, quello di essere figli abbondantemente amati di un amore traboccante. Questo fine ultimo illumina anche la nostra quotidianità, le cose che viviamo, le fatiche che facciamo, i dolori che sopportiamo, i quali possono diventare mezzo per incontrare il Padre e camminare, anche se in modo imperfetto, verso la meta finale. Al cospetto del Padre potremo vivere questa realtà di figli amati nel suo pieno compimento e così anche le relazioni d’amore con le persone care potranno godere della piena beatitudine di questa esperienza amorosa, privata, finalmente, degli ostacoli legati alla paura, all’egoismo e alla condizione di peccato, che oggi ci impediscono di assaporarla in pienezza. Buon cammino a tutti, nella bellezza di un amore sponsale che trae forza e origine da una sorgente d’amore eterna e inesauribile.

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Data di aggiornamento: 28 Novembre 2023

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