Vajont, una ferita ancora aperta

Il 9 ottobre ricorre il cinquantesimo anniversario del disastro del Vajont. Quasi duemila morti, interi paesi spazzati via. E una memoria difficile da ricostruire. Soprattutto per i superstiti.
27 Settembre 2013 | di

Il tuono. Prima il tuono. Come di un temporale estivo fuori stagione. Poi l’aria. Prima ancora dell’acqua, tanta aria. Uno spostamento due volte più grande di quello della bomba atomica di Hiroshima. Non dimenticherà mai Micaela. Non dimenticherà mai Renato. Non dimenticheranno mai i pochi superstiti, all’epoca bambini, di un cataclisma che ha cancellato via tutto: chiese, case, scuole, strade... le vite di ognuno insomma. Non passa giorno, da cinquant’anni, che il pensiero non torni lì. Ogni sacrosanto giorno. Sono le 22.39 del 9 ottobre 1963. Una frana rocciosa, pari a circa 270 milioni di metri cubi di rocce e detriti, inizia a scivolare dal monte Toc precipitando nel lago artificiale del Vajont.

Solleva, oltre la diga, una massa d’acqua di 70 milioni di metri cubi, alta più di cento metri, contenente massi del peso di diverse tonnellate. «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi» scriverà nelle pagine del «Corriere della Sera», con un indimenticabile incipit, il giornalista e scrittore Dino Buzzati, bellunese.

La costa del Toc (non a caso chiamato così: da sempre, si racconta, quel monte si sentiva rumoreggiare), quasi tre chilometri di boschi, campi coltivati e abitazioni, affonda nel bacino sottostante. La forza d’urto di quella massa di detriti finiti nel bacino artificiale, e poi volati fuori assieme all’acqua, spazza via, in due ondate, l’intero paese di Longarone. Risparmia, per pochi metri, l’abitato di Erto, lambisce le case più basse di Casso, raschiando via le frazioni più a valle come Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino. La grande onda si infrange sulla montagna. Ma non si ferma. Inizia un lento reflusso, opposto alla direzione di spinta, altrettanto potente. Rivalta, Faè e Villanova, Codissago nel comune di Castellavazzo vengono, in parte o del tutto, distrutte. A Pirago rimane in piedi solo il campanile. Quell’immagine farà il giro del mondo. Villa Malcom, con le sue segherie, viene trascinata via. Sparisce la strada statale 51 Alemagna, quella che ancora oggi, nel fine settimana, viene invasa dai turisti diretti in Cadore e a Cortina.

«La storia del “Grande Vajont”, durata vent’anni, si conclude in tre minuti di apocalisse, con l’olocausto di duemila vittime» scriverà Tina Merlin, donna nata e cresciuta tra quelle montagne, corrispondente de «L’Unità». E proprio sulle pagine de «L’Unità» aveva denunciato i pericoli che quei luoghi avrebbero corso con la diga in funzione. Inascoltata dalle istituzioni, fu addirittura querelata per «diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico», processata e assolta dal Tribunale di Milano. 1.910 (ma il numero esatto non si saprà mai) i morti ufficiali, di cui solo 726 con un nome, circa 800 i dispersi e una storia giudiziaria infinita che continua a porre interrogativi senza risposta. Non rimarrà niente. Se non paesi da ricostruire da zero. E ferite che molti, a distanza di mezzo secolo, non hanno ancora rimarginato.
 
Il resto? Niente resto
«Qui c’era la piazza». «No, era più in là». «E qui?» «Qui c’era la chiesa». «E la scuola? E la posta? La mia casa? Dov’era la mia casa? E la tua? E il resto?». Niente resto. Non c’è più. Non c’è più nulla. «Crollata la diga del Vajont» è il primo lancio dei notiziari radiofonici. All’epoca era la più alta del mondo tra quelle a doppio arco. Il lancio giornalistico è, però, sbagliato. La diga, infatti, non è crollata. Ancora oggi, cinquant’anni dopo, è lì, quasi come uno sberleffo a tutto il resto. 

«È come se ci fossero due Vajont: quello del disastro e quello del dopo» spiega l’architetto Renato Migotti, uno dei sopravvissuti, presidente dell’Associazione dei superstiti del Vajont che ha organizzato, per il 6 ottobre, la Giornata del superstite. Con alcuni volontari sta stilando un elenco di tutti i sopravvissuti e dei loro famigliari. Un’opera imponente e certosina che si concluderà il prossimo anno: «È un tassello minuscolo nella difficile ricostruzione di una memoria collettiva», dice. Una ricomposizione necessaria a cui ha sempre creduto anche Mario Fabbri. All’epoca dei fatti era un giovane giudice istruttore. Arrivò a Belluno dalla natale Macerata. Il suo nome resterà per sempre legato alla tragedia del Vajont. «Non c’erano solo duemila morti da seppellire. C’era da seppellire, prima di tutto, la catastrofe della memoria. Così come si seppelliscono tutti quegli eventi che disturbano». Fu lui, solo contro tutti, a istrui­re una delle cause giudiziarie più scomode e difficili della recente storia italiana. Mandò a processo otto persone ritenute responsabili della tragedia. Disastro colposo, frana, disastro colposo d’inondazione, aggravati dalla previsione dell’evento, e omicidio colposo plurimo aggravato i reati contestati.

II processo Vajont si chiuse con pene irrisorie rispetto ai fatti che Fabbri documentò in 458 pagine chiedendo giustizia per i duemila morti. Dopo la pensione, il giudice è rimasto a vivere a Belluno. «Il Vajont è occultato nella coscienza degli italiani. I testi scolastici non ne parlano. È triste che un Paese non sappia tramandare la propria storia alle giovani generazioni».

Il racconto è quello della tragedia, ma non solo. Il Vajont è la prima grande storia di solidarietà del nostro Paese. Forze dell’ordine, gruppi di soccorritori, semplici cittadini giunsero da tutta Italia per dare una mano. Così come sarebbe accaduto, anni dopo, a Stava (TN), a L’ Aquila o in Emilia. Tra i volontari c’è Mercedes Genova, capitano della Croce Rossa, oggi 94enne. «Mi chiamarono in piena notte. “È saltata la diga del Vajont”, furono le uniche parole. Dovevo correre a organizzare l’ospedale di Pieve di Cadore (BL), come dopo una battaglia. Ho soccorso bambini, anziani, ho tenute strette le loro mani, a lungo, fino all’ultimo». E poi ha fatto quello che nessuno voleva fare. Ha lavato le salme, oltre duecento, giunte a Pieve. «Quando pensavi di aver finito, ricompariva la sabbia. Sabbia e ancora sabbia. Ci sono dettagli che non è giusto raccontare e non racconterò mai».
 
Guardare avanti per costruire il futuro
Ogni anno, il 9 ottobre, i comuni raschiati via dal disastro si fermano. A Longarone, e nei paesi della zona, è giornata di lutto cittadino: fabbriche, uffici, scuole, negozi, rimangono chiusi. È il tempo della preghiera, del ricordo, della riflessione. Dopo le commemorazioni civili, si tiene la celebrazione conclusiva, di notte, nella chiesa di Longarone: la cerimonia religiosa si svolge ogni anno con modalità diverse, ma si conclude sempre con il suono della campana alle 22.39, ora del disastro, e con la lettura dei nomi delle 1.910 vittime. Sarà così anche per il cinquantesimo anniversario che richiamerà nella valle le più alte autorità, oltre ai superstiti e alla popolazione.

Per la speciale occasione è stato anche istituito il comitato «Vajont 50», voluto dai Comuni colpiti. «L’unico modo per guardare avanti è cercare di ricucire quello strappo e rielaborare il dolore – spiega il sindaco di Longarone, Roberto Padrin –. In tanti non ci sono ancora riusciti. Non c’è via di scampo se si vuole progettare su fondamenta solide un nuovo futuro per questo paese e questa valle. Perdono? Parola grossa, che non spetta a noi. Ma, quando penso agli errori macroscopici compiuti, a uomini di scienza che potevano vedere e non hanno visto, quasi non oso immaginare che non abbiano voluto vedere».
 
Quell’orologio fermo
Nonostante la solennità delle celebrazioni di quest’anno, lei non ci andrà. Non è mai riu­scita a partecipare ad alcuna manifestazione il 9 ottobre. Mai una volta in cinquant’anni. Micae­la Coletti aveva 12 anni nel 1963. Nel disastro ha perso genitori, nonna e sorella. I soccorritori si accorsero di lei perché dal fango spuntavano una mano e un piede. «Quando mi tirarono fuori pensavano fossi una vecchia. Fui catapultata con la mia casa a 350 metri di distanza. Non ricordo l’acqua, ma solo lo spostamento d’aria, lo stare sospesi nel vuoto» racconta Micaela che a Longarone comunque è rimasta e presiede il Comitato dei sopravvissuti del Vajont.

«È come se il mio orologio si fosse fermato a quel giorno. Giro nelle scuole per portare la mia testimonianza. Ho raccontato al mio nipotino la storia del Toc e di quell’inferno di acqua, ma ogni 9 ottobre non riesco a uscire né, tanto meno, a parlare». Micaela non ha mai superato il trauma. «Per anni ho bevuto l’acqua solo di notte, in bottiglie colorate. Stavo male a vedere un bicchiere pieno. Spesso mi manca l’aria. E poi son sempre pronta a scappare, come se stesse continuamente per capitarmi qualcosa di grave».
 
Le vere responsabilità
A tradire non fu la montagna: già prima una frana era stata individuata dal geologo austriaco Müller (al quale scherzosamente l’attore e scrittore Marco Paolini nel suo spettacolo sul Vajont fa dire: «Una frana a forma di M, ma non l’ho fatta io!»): parole inascoltate. Edoardo Semenza, figlio di Carlo, il progettista della diga, disse che la valle si era formata su un’antica frana che si sarebbe potuta rimettere in moto con l’acqua del bacino. Paolini, nel monologo che ha contribuito  a far conoscere la tragedia del Vajont, racconta: «Potrebbe anche star ferma lì per altre migliaia di anni. A meno che... qualcuno con un bacino artificiale non cominci a bagnarle i piedi, poi le ginocchia... Dai oggi, dai domani... Un domani questa frana benedetta potrebbe anche stufarsi di star ferma e buona coi piedi a mollo, e decidere di andare a vedere com’ è fatto il mondo». Ma prima ancora dei geologi, era la gente della valle che sapeva della frana. La mamma di Renato Migotti, originaria di Codissago, ogni volta che guardava la diga, si lasciava scappare: «Quel mostro ci seppellirà tutti».

Non è un caso, allora, se molto tempo dopo, siamo ormai nel 2008, l’Onu ha collocato la famigerata diga al primo posto tra i cinque peggiori esempi di gestione del territorio e dell’ambiente con la seguente motivazione: «Il Vajont è un classico esempio del fallimento di ingegneri e geologi nel comprendere il problema che tentavano di risolvere». Un monito a governi ed esperti perché certi errori non si ripetano.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017