Una regione orfana e libera

Il Piemonte è oggi esposto a contraddizioni, particolarismi, tentazioni di sfilacciamento, come accade ad altre regioni d’Italia con un importante passato. Ma forte di un’economia della conoscenza che può assicurargli un futuro da protagonista.
22 Febbraio 2008 | di

Il Piemonte di oggi è una regione allo stesso tempo orfana e libera. Si è ritrovato all’improvviso senza capitale, e questo se ha disorientato le sue élites ha fatto ritrovare vitalità – economica e sociale – alle sue piccole patrie.
Rispetto ad altre regioni italiane, prive di un centro, in cui il riferimento è il campanile di ogni comune più che il capoluogo, il Piemonte è sempre stata una regione nel senso proprio del termine, una terra governata da una città egemone e da una struttura amministrativa centralizzata. La Torino di oggi però non assomiglia molto alla Torino capitale del Regno di Sardegna (e per un tempo fugace anche del Regno d’Italia), e neppure alla Torino capitale industriale del Novecento.

Per certi versi, la Torino d’inizio millennio ricorda la città gozzaniana di fine Ottocento, non più capitale politica e non ancora capitale economica. Una città bellissima, elegante, accogliente, dove si aprono mostre sul barolo o sul cioccolato e nella quale signore sempre più belle mangiano le paste nelle confetterie, come nella poesia di Gozzano appunto; in una parola, una città nella quale vivere non è mai stato così dolce, ma che in termini politici ed economici pesa meno – anche sul resto della regione – della Torino aspra, dura e determinante degli Anni Venti, segnati dallo scontro tra Gramsci e il senatore Agnelli, degli Anni Cinquanta di Togliatti e di Valletta, degli Anni Settanta della rivolta di fabbbrica e dell’Avvocato.


Torino, città rinnovata

Certo, Torino resta un grande centro industriale. La Fiat si è salvata, rimane – con Telecom – la più grande azienda privata italiana, e in un sistema produttivo molto frammentato garantisce ancora quel che solo la grande impresa può garantire: ricerca, tecnologia, innovazione, formazione, e un indotto che non si misura soltanto con la rete dei fornitori e delle piccole imprese talora fondate da manager o da capireparto Fiat, ma anche con la ricaduta sull’università – a cominciare ovviamente dal Politecnico –, sulla creazione artistica, sulla comunicazione. Crescono le industrie aeronautica e aerospaziale: Avio ha 5 mila dipendenti (in tutta la regione), Alenia 9 mila. Ma crescono soprattutto i servizi, e pure la burocrazia: ci sono più dipendenti comunali che operai Fiat, e Mirafiori che arrivò a ospitare 57 mila operai ora ne ha 14 mila.

Soprattutto, Torino ha cambiato umore. Il fatalismo ai limiti del pessimismo, che ha scandito gli anni cupi della malattia di Gianni Agnelli e della crisi della Fiat, si è mutato in un’apertura di fiducia. La città ha saputo reagire alla perdita di una figura straordinaria, la famiglia Agnelli ha trovato in John Elkann un continuatore, la Fiat di Marchionne e Montezemolo ha ripreso la sua corsa. Ma è tutta Torino che sembra aver cambiato il suo approccio alla vita, alla produzione, alla socialità. Al punto che non soltanto le Olimpiadi invernali sono state un successo, ma anche eventi come la fusione Intesa-San Paolo o la retrocessione della Juve, che solo qualche anno fa sarebbero stati letti come l’ennesimo scippo di Milano o come un trauma, sono stati considerati come la prova della vitalità anche finanziaria della città o come un incidente passeggero.

Se Torino non è più in crisi, e non è più di malumore, non per questo ha riconquistato la sua centralità nella regione. I torinesi erano più di un milione e 200 mila trent’anni fa, oggi sono meno di 900 mila. Un esodo biblico, come dopo una pestilenza o una catastrofe naturale. Ovviamente, i torinesi non sono scomparsi; sono, in parte, ridiventati piemontesi. Che non è la stessa cosa. Non solo perché politicamente Torino è rossa, mentre il Piemonte è bianco. Non solo perché a Torino le chiese sono a volte vuote, mentre in Piemonte sono spesso piene. Il torinese è abituato, talora affezionato, alle gerarchie, all’ordine militare e di fabbrica, al rigore e all’understatement, che Bobbio traduceva «esageruma nen». Il piemontese è diverso. A Novara senti l’aria di Milano, a Pinerolo – avamposto orientale del Re Sole – della Francia. A Ceva sono quasi liguri, a Domodossola quasi svizzeri. Spesso il piemontese di provincia, ad esempio il langarolo, è un irregolare, un eccentrico, un giocatore d’azzardo, un contadino estroso. È stata proprio questa irregolarità alla base del successo economico di zone tradizionalmente ripiegate sull’agricoltura, come il cuneese.


Cuneo la «granda», provincia di grandi

La provincia di Cuneo porta da secoli una sorta di marchio di infamia, reso noto a livello nazionale da una celebre battuta di Totò («sono un uomo di mondo, ho fatto il militare a Cuneo»). I cuneesi sono considerati tonti, imbranati, spenti. Sono i provinciali che preparano le luminarie per la visita notturna del Duce, e le accendono anche se «Lui» (che i piemontesi chiamavano più prosaicamente «Ceruti») ha cambiato programma ed è venuto di giorno. Eppure, la provincia «granda» ha dato alla politica Giovanni Giolitti (di Dronero) e Luigi Einaudi (nato a Carrù ma divenuto doglianese), alla letteratura Cesare Pavese (da Santo Stefano Belbo, anche se in tutto e per tutto torinese) e Beppe Fenoglio (che invece non si è mai mosso dalla sua Alba), al giornalismo il cuneese Giorgio Bocca e il dronerese Ezio Mauro. Oggi la provincia di Cuneo è la zona economicamente più vitale del Piemonte, anche se è difficile considerarla come un sistema, una rete, un tutt’uno. Mondovì, Savigliano, Fossano, Saluzzo, Bra rivendicano la loro specificità municipale, senza riconoscere la primazia del capoluogo. Alba poi fa storia a sé: una città che sembra avere quasi scelto di restare piccola – non più di trentamila abitanti – è la sede della Ferrero, seconda industria dolciaria d’Europa dopo la Nestlè, dell’unico gruppo tessile storico a non essere mai andato in crisi, la Miroglio, e della Mondo Rubber, sconosciuta ai più ma alla quale si devono le piste di atletica delle ultime quattro edizioni dei Giochi olimpici. Ora Alba è diventata anche una capitale del turismo, in particolare straniero, grazie ai suoi prodotti tradizionali, i vini e il tartufo. Un boom che si estende al Monferrato e alla vicina provincia di Asti, ora finalmente collegata ad Alba da un’autostrada che dovrebbe presto arrivare fino a Cuneo. Lo stesso discorso vale per il riso del Vercellese e dell’Alessandrino; mentre l’area turistica per eccellenza del Piemonte, la zona dei laghi, è divisa tra l’atmosfera meravigliosamente fuori dal tempo di Orta e quella un po fané, piacevolmente sorpassata ma un po’ malinconica della sponda sabauda del Lago Maggiore, dal San Carlone di Arona agli alberghi liberty di Stresa.


Le nuove frontiere dello sviluppo

Il Piemonte rovescia i suoi verdetti storici non solo nel turismo, ma anche nella produzione industriale. Economie tradizionalmente forti, zone che furono la fucina della rivoluzione industriale italiana, come il Biellese dei Sella e più tardi il Canavese degli Olivetti, vivono qualche difficoltà. Ma proprio vicende come quella di Ivrea mostrano come il Piemonte abbia le potenzialità per tornare a essere una delle regioni-guida d’Italia. Ivrea pare una metafora del declino: dove avevano l’ufficio Paolo Volponi e Ottiero Ottieri, dove lavoravano Franco Fortini e Franco Ferrarotti, dove tenevano conferenze Moravia e Pasolini, ora ci sono i ragazzi dei call-center Vodafone e Wind. Che però sono grandi lettori di libri, in una città che conta alcune tra le più belle librerie indipendenti d’Italia, e abbonati di teatri, nella città con il più alto rapporto tra abitanti e spettatori teatrali.

Parole come innovazione, nuove tecnologie, ricerca, formazione permanente, parchi culturali a Ivrea non sono formule da convegno o programma elettorale ma fonti di reddito, come un tempo le macchine da scrivere, i calcolatori, i personal computer, le schede dei cellulari. Perché Ivrea è abituata a cambiare: meccanica, elettronica, informatica, telefonia. Tutte cose passate. Finite qui prima che altrove.
Oggi la città potrebbe sembrare un guscio vuoto. Invece è piena di cose già cominciate che presto saranno anche il nostro futuro: piccole aziende nate dai boom dell’informatica e della new economy, le software-house, le società di servizi; la nuova università, con ingegneria, scienze politiche e scienze della comunicazione; le biotecnologie nel Bioindustrypark; il progetto di Mediapolis, la città della comunicazione.
Ivrea in questo è simbolo del Piemonte: una regione che vive di depositi bancari aperti cinquant’anni fa, di pensioni, ma anche di una ricchezza di fondo, dell’abitudine a fare sistema, a innovare, a creare reti, consorzi, alleanze. Qui non è difficile scrivere un progetto Ue, creare i consorzi per l’informatizzazione, e anche distribuire i denari e i saperi. Il Piemonte è un’economia della conoscenza; e questo consente di tenere insieme una società esposta come altrove alla tentazione dello sfilacciamento, del particolarismo, della ritirata dalla vita pubblica.    

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017