Una guerra dimenticata

La minoranza tamil, induista, e la singalese, buddista, si scontrano ferocemente da anni. Ma la religione non c’entra; c’entra, invece, il nazionalismo. Tentativi di dialogo. Il fenomeno dei kamikaze.
06 Marzo 2002 | di

 Isola a «forma di perla» `€“ e di smeraldo `€“ «risplendente» (come significa la prima parte del suo nome), riflesso dell`€™Eden dove, secondo una leggenda, si sarebbe rifugiato Adamo per soffrire meno la perdita del Paradiso Terrestre, descritta nel 1293 da Marco Polo quale «l`€™isola delle sue dimensioni più bella al mondo». Parliamo di Sri Lanka, l`€™isola bagnata dall`€™oceano ai piedi del sub-continente indiano, che anche in tempi più recenti ha vantato primati invidiabili: il primo parlamento eletto in Asia, ancora ai tempi dell`€™occupazione inglese, il primo capo di governo donna al mondo, la distribuzione gratuita di riso a tutti gli abitanti.

Si tratta, però, di primati ormai stinti e dimenticati: l`€™attuale realtà  è quella di una guerra fra le «tigri tamil» e l`€™esercito governativo che insanguina il Paese da diciannove anni, rovinando economia, relazioni sociali, turismo.

La nostra guida turistica ci dice: «Siamo quaranta guide per i gruppi italiani, ma solo otto di noi stanno lavorando. Una signora di Padova ha costruito con il marito singalese, un albergo da sogno vicino a pezzi di giungla da cui è stata scavata la prima capitale dell`€™isola, Anuradhapura, ma gli spazi dell`€™albergo arredati in stile sono percorsi da rari clienti occidentali.

Causa dell`€™attacco delle «tigri» due anni fa all`€™aeroporto di Colombo (in cui furono coinvolti anche turisti italiani) e, ancor più, della crisi mondiale generata dall`€™attacco a New York dell`€™11 settembre 2001. Ma, recentemente, s`€™è dischiusa una speranza: ancora tenue, tuttavia reale. Dalla fine di dicembre non si spara più. La L.t.t.e. («Tigri di liberazione dell`€™Eelam tamil») ha dichiarato una tregua, il governo si è detto disposto a trattare.

Girando l`€™isola, si continua a imbattersi ovunque in posti di blocco dell`€™esercito, ma molti ormai, anche all`€™interno delle città , appaiono sguarniti e abbandonati. La scena è ancora all`€™emergenza bellica, ma l`€™atmosfera è già  cambiata. E il turismo comincia a tirare un respiro di sollievo.

 

La religione, un pretesto

Si è detto e scritto che lo scontro avviene tra la maggioranza singalese, di origine indoeuropea e di religione buddista, e la minoranza tamil, di origine dravidica (dall`€™India meridionale) e di religione induista. Però la religione, come sempre in questi casi, c`€™entra ben poco, è solo un pretesto sfruttato dai nazionalisti d`€™ambo le parti.

È vero che i singalesi si sentono come i depositari del buddismo delle origini (o «Theravada») in mezzo a un mare di induisti (della vicina India) ma nelle famose grotte di Dambulla, il sito archeologico forse più suggestivo, accanto a decine di Buddha nelle diverse reincarnazioni, ho visto anche immagini di Vishnu e di altre divinità  induiste, e buddisti e induisti pregare fianco a fianco senza alcun problema.

Esiste anche un motivo sociale perché i tamil, molto laboriosi, sono impegnati nelle attività  produttive dalla base al vertice `€“ alla base, nel duro lavoro delle piantagioni di the, al vertice, il proprietario della lussuosa catena di alberghi del mio tour, è, ad esempio, un capitalista tamil `€“ mentre i singalesi si sono riservati quasi in esclusiva tutte le attività  statali e parastatali oltre, naturalmente, polizia e esercito.

Muovendo dal Centro verso il Nord, si infittiscono i posti di blocco governativi, ma, dopo una «terra di nessuno», appaiono quelli delle «tigri» che controllano la penisola di Jaffna e altre zone del Nord-est dell`€™isola. Non solo guerriglieri e terroristi, ormai anche padroni di un pezzo dell`€™isola, con un mini-esercito e, addirittura, una mini-flotta per rifornirsi d`€™armi. Si è così creata una situazione di stallo, con le «tigri» che non possono vincere l`€™«elefante» (animale simbolo dei singalesi), cioè l`€™esercito governativo, ma sono in grado di infliggere ferite terribili, soprattutto con gli attentati suicidi.

      Verso l`€™accordo?

Paradossalmente, ma forse non troppo, fra i singalesi hanno cavalcato di più il nazionalismo il centro-sinistra e la sinistra che non il centro-destra. A dicembre ha vinto le elezioni legislative il centro-destra e si è avviata così, come in Francia, la coabitazione fra un primo ministro di questa tendenza, Ranil Wickremesinghe, e un presidente di centro-sinistra, la signora Chandriga Kumaratunga, figlia `€“ come sovente succede in Asia `€“ di una «dinastia politica», discendendo da uno dei padri della patria, Salomon Bandaranaike. Una delle prime decisioni del premier di centro-destra è stata riaprire le trattative con le «tigri», chiedendo anche la mediazione della solita Norvegia, specialista di questi difficili incontri. Infatti, si rischia l`€™incomunicabilità . Velupillai Prabhakaran, è condannato a morte in contumacia in India, come mandante morale (e forse più che morale) dell`€™assassinio di Rajiv Gandhi (avvenuto nel 1991, in India), ucciso perché considerato responsabile di un intervento `€“ fallito `€“ dell`€™esercito indiano in Sri Lanka per porre fine alla lunga guerra civile.

      Votati al suicidio

Le «tigri nere» sono un corpo votato al suicidio terroristico; hanno dato proporzionalmente il maggior numero di kamikaze.

La figura del kamikaze non trova alcuna radice né nell`€™induismo né nel buddismo, e quindi è legata, almeno qui, solo a una forma di nazionalismo estremo. Anche le «tigri» più politicizzate chiedono però l`€™autodeterminazione, la creazione di uno staterello tamil indipendente, una vera incongruità  per un pezzo di terra che non supera le dimensioni di una provincia italiana.

Dall`€™altro lato, i singalesi sono invece gli autori di una costituzione unitaria, nella quale al buddismo viene riconosciuta una «posizione predominante» ed è «dovere dello stato proteggerlo e svilupparlo». Nei luoghi pubblici, si trovano sedie e poltrone «riservate al clero».

La volontà  di trattare forse si è chiusa, ma le posizioni continuano ad apparire inconciliabili. La «parola magica» potrebbe essere devolution. Già  Leonard Woolf, negli anni `€™30 preconizzava per quella che allora si chiamava Ceylon una soluzione simile ai cantoni svizzeri. Quindi, una larghissima autonomia e forme di auto-governo alle zone tamil, restando nelle mani di Colombo solo i grandi indirizzi di politica interna ed estera.

Il premier Wickremesinghe ha detto che, al momento dell`€™investitura, più che «mazzi di fiori» ha ricevuto una «corona di spine». Talvolta, se prevale la buona volontà , anche le spine si possono trasformare in rose.

 

 Sri Lanka, l`€™isola «risplendente»

Grande due volte e mezza la Sardegna, ma molto più popolata, con oltre 18 milioni di abitanti. I singalesi, di origine indoeuropea e buddisti sono il 74 per cento, i tamil di origine dravidica e induisti, il 18 per cento, i musulmani il 7 per cento. Pochi i cattolici, sovente originari dai coloni portoghesi che hanno dominato l`€™isola per 150 anni, a partire dal 1505.

Politicamente il paese è stato uno dei fondatori del «movimento dei non allineati» e ancor oggi si definisce «repubblica democratico-socialista».

L`€™economia è condizionata dalla guerra e da un esercito di 143 mila uomini, contro i 10 mila dell`€™L.t.t.e. («tigri tamil»). Rimane il secondo esportatore al mondo di the, mentre i tessili hanno soppiantato un`€™altra tradizionale esportazione, quella del caucciù. Il Paese non è più auto-sufficiente per il riso e ha dovuto chiedere aiuto all`€™India per importare frumento a condizioni agevolate.

 

Luci e ombre dell`€™intervento Usa

Il vittorioso intervento statunitense in Afghanistan (ma, non dobbiamo dimenticarlo, perché sostenuto sul terreno dai mujahiddin anti-talebani) ha dato fiato e slancio ai fautori dell`€™uso della forza per risolvere i problemi internazionali. Qui bisogna, però, distinguere. È indubbio che molti governi (da quello delle Filippine all`€™Indonesia allo stesso Pakistan) si troveranno rafforzati nella loro lotta contro il fondamentalismo islamico e i suoi militanti e terroristi. Altri governi più incerti perché deboli o quasi inesistenti (parliamo dello Yemen, del Sudan, della Somalia) si vedranno costretti ad agire e a chiedere aiuto. Sin qui la parte positiva. Ma cè anche un grosso rischio, da evitare e da controcombattere. Il rischio che, dopo l`€™11 settembre 2001 e l`€™intervento in Afghanistan, si pensi di poter risolvere con la forza problemi che invece richiedono strumenti politici e negoziato. Lo vediamo in Israele `€“ dove il premier Sharon è tentato di «farla finita» con Arafat e il gruppo dirigente palestinese `€“ lo vediamo negli scontri di frontiera tra India e Pakistan, e altrove. L`€™uso della forza deve essere un momento ben circoscritto, altrimenti provoca, ad imitazione, un diffondersi della violenza bellica. In questa prospettiva, non appare giustificato l`€™articolo di Henry Kissinger che invita a «farla finita» con Saddam Hussein. Che è certo uno dei peggiori dittatori viventi, ma non dobbiamo dimenticare che un intervento contro il governo irakeno, oltre a non essere legittimo in questo momento, acuirebbe il malessere degli stati arabi e di molti islamici verso l`€™Occidente.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017