Un figlio che muore e la vita che continua

Dietro il bollettino di guerra di ogni sabato sera ci sono drammi inconsolabili, che si possono però condividere.
20 Agosto 2007 | di

LETTERA DEL MESE

«Sono una delle tante mamme a cui la sorte ha riservato il più atroce dei dolori che possa subire l’animo umano. La perdita di un figlio, sia che giunga all’improvviso o dopo lente sofferenze, ti fa sentire l’unico superstite di un mondo devastato da una catastrofe atomica. Anche se sei vivo, sei un essere morto perché fuori, nel mondo, è come se ci fosse il più terrificante dei deserti. La morte di un figlio per un genitore equivale ad essere condannati a vivere al pari di alcuni ergastolani. Solo che al nostro cuore è stato riservato un carcere ben più duro. Anche il ricordo, che dovrebbe addolcire l’immensa pena, alle volte diventa un nemico e non riesci più a fare nemmeno le piccole cose che facevi insieme. E allora un oggetto, un profumo, un gesto diventano una palude da cui non sei capace di uscire. Poi cominci a chiederti: perché? Ti accorgi che, spesso, sono i dettagli più banali a determinare la vita o la morte di una persona. Dettagli come un limite non rispettato, una disattenzione alla guida, un segnale che si vede poco, uno spartitraffico inesistente o semplicemente una condotta non corretta per le strade, anche quelle più periferiche, come se si fosse completamente ignari delle conseguenze».

Paola Gallo - Padova



Ogni anno, secondo stime dell’Istituto Superiore della Sanità, sulle strade italiane si contano circa ottomila morti, quasi 22 al giorno, sei volte più dei caduti sul lavoro, quarantacinque più delle vittime delle stragi di Bologna e Ustica messe insieme, più del doppio di quelle dell’attentato alle Torri gemelle. Il costo economico dell’incidentalità stradale supera in Italia i 30 miliardi di euro.

Dietro le cifre, incalcolabile, c’è poi tutto il dolore di chi ha perso un figlio, un famigliare, un amico. Si tratta di un dolore che non si vede e non si ascolta mai a sufficienza, di una sorta di nemico implacabile che resta nascosto nell’ombra, oltre le immagini, i dati, le parole, la tragicità degli eventi.

Cos’è veramente la morte di un figlio? «Equivale a essere condannati a vivere come degli ergastolani» ci dice questa mamma. E quelli come suo figlio sono tanti tra le vittime di cui parlano le statistiche. Aggiungendo il fatto che, soprattutto quando a morire è un giovane, sentiamo che l’ingiustizia è più grande, che il sangue ci ribolle nelle vene. Non è facile accettare che la vita dei nostri giovani si fermi nelle ultime ore della notte o alle prime luci dell’alba. Non è per niente facile, per chi è genitore, gestire l’angoscia che stringe il cuore finché i figli sono in giro, nella notte, per strade insicure.

Ciò che rende bella la vita è anche saperla amare senza metterla a rischio. Facciamo in modo che ci sia sempre una ragione d’amore per non rischiare, per non esagerare, per non eccedere nella trasgressione. Stiamo pagando un prezzo troppo alto alla logica del divertimento, dello «sballo» a ogni costo. I giovani ci chiedono libertà, ma hanno anche bisogno di verità. Diciamo loro tutta la verità: ad esempio che vivere non significa essere sempre i più forti, sempre svegli, sempre carichi. La vita è fatta anche di limiti e di regole. Queste vanno rispettate, meglio se per amore.

Quando però purtroppo accade l’irreparabile, non dobbiamo permettere al dolore di paralizzarci. Ricordiamoci che la vita, la nostra e quella di chi ci sta a fianco, va avanti. Lo sappiamo, le reazioni di fronte alla perdita di un figlio sono personalissime, insondabili; è come se la vita si spezzasse, e ognuno ha i suoi tempi di reazione. Una risposta può venire dalla fede, alla quale il credente si aggrappa come a mano sicura, ma è anche importante l’apporto di solidarietà che altri possono darci. Hanno scelto questa strada alcuni genitori, implicati nello stesso dramma, dando vita ad associazioni di «famigliari delle vittime della strada». A queste ci si può rivolgere anche semplicemente per essere ascoltati e scambiare le proprie esperienze. Cercare di andare oltre l’immenso dolore della perdita di un figlio è in fondo una scelta d’amore nei confronti di noi stessi e anche di chi non c’è più.



Riscopre il silenzio e ringrazia

«Ho letto attentamente l’editoriale della sua rivista “La ricetta del silenzio” e tra le righe ho trovato tanta verità. Si tratta di una buona medicina che tutti dovrebbero prendere, ogni giorno in piccola dose. Allora saremmo più buoni, meno invidiosi e aiuteremmo di più il nostro prossimo quando è debole. Per una ragione che non le sto a dire mi trovo presso un pensionato femminile. Si starebbe bene se non ci fossero delle ospiti che si ritengono altolocate, creando scompiglio a motivo della loro vanità. Per questo, leggere la sua pagina mi ha fatto entrare nell’anima una grande pace; desidero imparare a tacere e non parlare più del necessario. Le dico grazie e le chiedo un favore: una preghiera al Santo».

Un’abbonata


Le sue parole discrete e misurate, l’accenno sfumato alla vicenda personale e quel firmarsi «in fede, un’abbonata», hanno attirato la mia attenzione. Ho cercato di immaginare quale volto ci possa essere dietro un biglietto di ringraziamenti, di pura gratuità, e mi sono immaginato una signora distinta e di vivace intelligenza.

Con il passare degli anni il clamore e il chiasso della vita decantano, e chi ha acquistato un po’ di sapienza sa che molte cose vanno sfrondate, che si è incamminati verso l’essenziale. Il silenzio, quello buono e fruttuoso (non quello opaco o tanto meno ostile), aiuta in questa operazione non facile. Toglie subito dalla circolazione le molte parole inutili che sono soltanto chiacchiera e apparenza, esibizione vanesia (come dice lei), e appesantiscono la mente e il cuore. Dio benedica il suo desiderio

e proposito, e la aiuti a ricentrarsi su ciò che davvero vale la pena. I tentativi di mettere a fuoco l’obiettivo saranno comunque più di uno.

Grazie per avermi comunicato anche solo un frammento della sua gioia e del suo disagio. Non mancherò di pregare sant’Antonio per le sue necessità.



Superstizione: non ci credo ma non si sa mai

«Meno male che è passato anche il 7-7-07, cioè il settimo giorno del settimo mese del nuovo millennio. Qualcuno parlava, a motivo del ripetersi del numero sette (indicatore di positività e pienezza), di un’esplosione di fortuna per tutti o giù di lì, tanto che a Las Vegas – come hanno scritto i giornali – è stata giornata di matrimoni a raffica, anche sette al colpo. Non so capire come ancora oggi siano molte le persone disposte a credere a tali sciocchezze. Non si tratta di superstizione bella e buona?».

Lettera firmata


Cominciamo col capire cosa sia la superstizione. Nello Zingarelli leggiamo: «Credenza irrazionale nell’influenza positiva o negativa di determinati fattori sulle vicende umane: la superstizione del gatto nero». Come il gatto nero, per qualcuno, porta decisamente sfortuna, così il numero sette (meglio se ripetuto) è considerato un porta fortuna, naturalmente in una visione deformata della realtà, nella quale vengono proiettate le proprie paure e i propri desideri. La superstizione è sostanzialmente una forma di religiosità degradata, strumentale e scaramantica, che non si limita purtroppo, come in passato, ai ceti poco colti, ma è largamente diffusa anche dove vi è un alto livello di istruzione. Va anche sottolineato il fatto che si può essere intelligenti e vantare titoli di studio, ma possedere tutto sommato una fede infantile, dai risvolti magici e fatalisti.

Il Catechismo della Chiesa cattolica (cf. nn. 2110-2117) menziona la superstizione come contraria al primo dei dieci comandamenti: «Non avrai altri dèi di fronte a me», e la definisce precisamente come «deviazione del sentimento religioso e delle pratiche che esso impone». L’esempio portato è quello dei sacramenti, quando la loro efficacia è fatta dipendere dalla sola materialità delle preghiere o dei segni sacramentali, totalmente a prescindere dalle disposizioni interiori: in tal caso il rischio di cadere nella superstizione è dietro l’angolo. Scendendo nei dettagli, il Catechismo parla di divinazione e magia: «La consultazione degli oroscopi, l’astrologia, la chiromanzia, l’interpretazione dei presagi e delle sorti, i fenomeni di veggenza, il ricorso ai medium…», contraddicono la professione della fede cristiana. Se ci guardiamo un po’ intorno, accanto alla desolazione di un mondo secolarizzato che non crede più o che ha ridotto il riferimento a Dio a pura formalità che non coinvolge l’esistenza, è impossibile non notare il pullulare di credenze di piccolo calibro ma di grande presa, forse potenziate dal clima di grande incertezza e di timore nei confronti del futuro che tutti sperimentiamo. Nel 1990 monsignor Ennio Antonelli, allora arcivescovo di Perugia, indirizzava ai fedeli una breve lettera intitolata Contro la superstizione, nella quale ricordava, tra l’altro, che si tratta di «una reazione sbagliata alla precarietà della vita, alle sofferenze, alle ansie e alle paure». Aggiungeva che «essa cerca sicurezza tentando di controllare le forze ignote, reali e immaginarie, oppure tentando di assicurarsi l’intervento di Dio e dei santi secondo i propri bisogni e desideri». L’inconciliabilità con la fede, ricerca incondizionata della volontà di Dio e abbandono totale ad essa, è più che evidente. La differenza sta qui: non manipolazione ma affidamento, non autosuggestione ma autentico ascolto, non paura ma libertà. Dio non va confuso con un concetto più o meno vago e disponibile di divino, perché il suo volto di misericordia ci è stato rivelato pienamente in Gesù Cristo. È solo tempo perso e creduloneria affidarsi ad apprendisti stregoni che campano e rimpinguano le loro tasche vendendo fumo, a volgari imbonitori che non hanno né arte né parte.

Avanzo, a questo punto, una considerazione finale, che facilita la lettura a largo raggio del fenomeno «superstizione». Non è poi così vero che gli uomini che non credono in Dio non credono a nulla. Molti di essi sono disposti – a quanto pare – a credere a tutto.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017