Tutti invocano l'Onu per ricostruire l'Iraq

Pur continuando a sostenere le ragioni morali e politiche di una scelta diversa dalla guerra, dobbiamo tutti cercare la via per dare uno sbocco positivo alla questione irachena: c'è in campo il futuro di un popolo. E non solo.
31 Ottobre 2003 | di

Durante la campagna elettorale che lo ha portato alla presidenza della potenza statunitense, in un dibattito televisivo, Gorge W. Bush alla domanda del conduttore-giornalista su come intendesse il nation building, dimostrò di non aver affatto le idee chiare, anzi di non intendere bene neppure il concetto enunciato. Ora, nation building nella terminologia politica anglosassone significa la ricostruzione materiale e morale di un Paese distrutto dalla guerra o da una guerra civile, come la Bosnia e il Kosovo. Bush si sarebbe presto dovuto cimentare con altri casi del genere, in Afghanistan e in Iraq, con strumenti, ahimé, inadeguati. Oggi sarebbe facile per noi, come per molti altri, dire che siamo stati facili profeti nel prevedere che era più facile vincere la guerra che la pace, e che una guerra rischiava di sollevare più problemi di quanti non ne risolvesse. Ma, a questo punto, pur continuando a sostenere le ragioni morali e politiche di una scelta diversa da quella avvenuta nella realtà , dobbiamo tutti cimentarci con questa realtà  e vedere qual è la via per dare uno sbocco positivo, visto che c'è in campo il futuro di un popolo e anche di una regione vitale e decisiva per l'avvenire del mondo come il Medio Oriente.
La coalizione che ha vinto la guerra - Usa e Gran Bretagna, in pratica - si dimostra incapace di costruire la pace. Quindi è necessario passare da un tipo di intervento unilaterale a uno multilaterale, ridare spazio all'iniziativa dell'unica istituzione legittima a condurre l'ordine internazionale, le Nazioni Unite. L'Onu deve assumere la guida della fase di transizione dell'Iraq verso la democrazia, sia come forze militari di peace-kipping, di mantenimento della pace, sia e ancor più come accompagno dell'auto-governo degli stessi iracheni. Le attuali forze militari della coalizione anglo-americana sono percepite, dalla popolazione, come forze di occupazione, e ciò dà  fiato alla guerriglia. Sono poi insufficienti a mantenere l'ordine in un Paese grande più dell'Italia dove, dopo lo sfacelo del regime, moltissimi sono armati e regnano disordine, trialismi, criminalità , insorgenze etniche.
L'esempio del piccolo contingente italiano, ben tollerato dalla popolazione, dimostra che un altro approccio è possibile. Devono arrivare altre forze, non considerate alla stregua di conquistatori, possibilmente da Paesi musulmani non confinanti con l'Iraq (perché altrimenti risorgerebbero i timori di mire egemoniche).

Ridare il potere agli iracheni

È importante, soprattutto, attribuire poteri agli stessi iracheni, e stabilire un calendario preciso di passaggio delle consegne a un governo civile locale, come è avvenuto sin dall'inizio o sta avvenendo in Afghanistan, a differenza dell'Iraq.
Vediamo di discernere, dall'attuale situazione non certo sostenibile e che va dunque modificata, i pochi segni positivi, i molti interrogativi, le possibili vie d'uscita. La formazione di una polizia locale, alla quale affidare l'ordine pubblico, incontra difficoltà  (si teme di dover ricorrere a persone coinvolte nelle sanguinose repressioni del regime di Saddam) e va avanti a rilento: si parla di ventimila uomini mal addestrati e mal motivati da raddoppiare almeno entro la fine dell'anno.
Sul piano delle istituzioni civili, esiste una sovrapposizione fra il consiglio governativo di venticinque membri e il governo, anch'esso di venticinque membri, in rappresentanza di tutti i gruppi etnici e religiosi del Paese. È fondamentale rendere più visibile agli occhi degli iracheni il governo provvisorio, attribuendogli poteri e responsabilità  specifiche. Per esempio, l'amministrazione del bilancio statale, ora gestito dal proconsole civile statunitense Paul Bremer.
Se gli Usa vogliono essere aiutati dal resto del mondo a uscire dal rischio iracheno, devono abbandonare l'atteggiamento padronale sulle risorse economiche del Paese. Più importante di tutto, si deve stabilire un calendario che scandisca, in tempi che non possono essere brevissimi ma ragionevolmente brevi, la preparazione della nuova costituzione, la sua approvazione per referendum, il passaggio a un governo più rappresentativo, infine le elezioni politiche come coronamento del processo.
I punti deboli sono molti. La lunga dittatura del partito Baas ha prodotto una situazione per cui mancano alla scena politica partiti democratici con un minimo d'organizzazione, mentre gli esiliati ritornati in patria dopo molti anni sono sovente personaggi invecchiati o più giovani però senza contatto con la realtà  del Paese. Mancano figure-guida di prestigio.
Un segno positivo è invece la tumultuosa crescita prodotta dalla libertà  di stampa, con la nascita di centossessanta testate fra quotidiani, riviste e fogli vari. Alle quali seguiranno certamente radio libere e televisioni non propagandistiche. Anche gli interrogativi sono numerosi. In un Paese frammentato dove gli organi provvisori sono ferreamente contingentati, come si farà  a creare un esecutivo che funzioni veramente? L'esempio del Libano, dove tutte le istituzioni sono suddivise fra i vari gruppi religiosi, sta a dimostrare la difficoltà  di creare istituzioni efficienti e democratiche.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017