Terrorismo: la difficile sfida

La rivolta dei no global di Genova, l’incattivirsi dell’annosa questione mediorientale, poi l’assalto alle Torri Gemelle e la conseguente guerra contro i talebani: l’anno che stiamo per lasciarci alle spalle sta veramente cambiando qualcosa nel mondo. In
05 Dicembre 2001 | di

Se l`€™anno 2000, come quasi tutti gli inizi di secolo, si è dipanato sotto il segno dell`€™ottimismo `€“ intrattenuto anche dal boom economico statunitense che durava da otto anni e sembrava non aver fine `€“ il 2001 ha avviato una svolta in senso opposto ed è poi precipitato in tragedia. I primi segni di rallentamento delle economie occidentali, non più trainate dalla «locomotiva statunitense», hanno introdotto continue limature al ribasso delle previsioni di crescita, infine il timore della recessione. Sulle piazze dell`€™Occidente cresceva intanto la contestazione di gruppi, certo minoritari, ma importanti dei giovani e della società  verso un «mercato globale» che, anche questo, ci era stato troppo spesso descritto da parte dei governanti, come l`€™ottimo cui mirare, che avrebbe assicurato automaticamente crescita e benessere illimitati (mentre invece escludeva dallo sviluppo parti consistenti del mondo e introduceva nuove disuguaglianze). A Genova, in luglio, ci sono stati scontri fra dimostranti e polizia `€“ con la morte del giovane Carlo Giuliani `€“ cui, nel nostro paese, non si assisteva da almeno vent`€™anni.

Medio Oriente senza pace

In Medio Oriente, peggiorava a vista d`€™occhio la precaria convivenza tra israeliani e palestinesi per la mancata soluzione di uno stato palestinese: e così da un lato i palestinesi trasformavano la «seconda Intifada Al Aksa» (dal nome di una famosa moschea di Gerusalemme) in veri atti di guerriglia, dall`€™altro gli israeliani rafforzavano la repressione con il «falco» Ariel Sharon, eletto in febbraio. Con tutti questi elementi, si restava però nell`€™ambito di un «peggioramento» di tipo congiunturale o razionalmente prevedibile. L`€™irruzione dell`€™irrazionale nella storia è avvenuto con l`€™attacco del terrorismo agli Stati Uniti d`€™America, l`€™11 settembre, un evento che solo film di fantapolitica ritenuti inverosimili avevano prefigurato. Da quel momento, si è detto, nulla sarà  più uguale non solo per gli statunitensi, ma per tutti noi. Di fronte all`€™enormità  dell`€™evento è difficile tentare di scorgere cosa ci aspetterà  nel prossimo anno, ma occorre pazientemente riprendere il filo della razionalità  pur sapendo che, nella storia, operano non solo forze razionali e gli esiti non sono sempre razionali, a differenza di quanto pensavano i filosofi di matrice hegheliana e il nostro Benedetto Croce.

Guerre giuste

Con gli attacchi aerei anglo-statunitensi all`€™Afghanistan del 7 ottobre si è aperto, anche qui da noi, un serrato dibattito, una polemica sulla liceità  dell`€™azione militare, autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell`€™Onu ma non condotta sotto l`€™egida dell`€™Onu.

Sono a confronto due princìpi, in sé ugualmente validi, la pace e l`€™ingerenza umanitaria, come legittima difesa o come difesa di un popolo assassinato dai suoi stessi governanti, mediante l`€™uso della forza quando tutti gli strumenti diplomatici si siano rivelati impotenti.

Giovanni Paolo II che ha sempre levato la sua voce a favore della pace durante tutte le crisi internazionali, ha accolto però il principio di «ingerenza o intervento umanitario» sin dal 1992-93, di fronte ai massacri in Bosnia. È però necessario che l`€™intervento sia limitato nel tempo e non provochi danni più gravi (per la popolazione civile colpita) di quelli che intende sanare (l`€™oppressione di regimi assassini e protettori del terrorismo).

Chi dice (ad esempio fra i no global) che l`€™uso della forza non darà  risultati, anzi provocherà  reazioni peggiori, chiude gli occhi davanti alla storia più recente. Nei Balcani, l`€™intervento della Nato ha restaurato la pace nel Kosovo, favorito indirettamente la caduta del regime di Milosevic a Belgrado e, ancor più recentemente, bloccato nuovi focolai di scontri in Macedonia, favorendo il dialogo fra la maggioranza slava e la minoranza albanese che, lasciate sole senza forze armate esterne di interposizione, si sarebbero fatte guerra fino all`€™ultimo sangue.

Anche se si dovrà  continuare a vigilare contro altre possibili disgregazioni: a marzo 2002 si terrà  un referendum in Montenegro sull`€™indipendenza o su un nuovo tipo di associazione con la nuova Serbia democratica.

Il rischio Afghanistan

In Afghanistan la soluzione è più complessa, e un intervento prolungato `€“ o che dovesse estendersi a stati arabi come l`€™Irak `€“ aumenterebbe il malessere delle masse musulmane, che rischierebbe di travalicare dai gruppi fondamentalisti all`€™intera società , provocando sollevazioni popolari in più Paesi. Ma non bisogna dimenticare che all`€™interno dell`€™Afghanistan esistono consistenti forze antitalebane che possono portare un minimo di riorganizzazione e di pacificazione nel Paese: i mujaheddin che sono stati i veri vincitori dell`€™Armata Rossa (non i talebani che sono arrivati dopo), l`€™ex re Zahir, da decenni esule in Italia, che può giocare un ruolo da mediatore, la «Loya Jirga», il consiglio tradizionale dei notabili afgani.

Più lunga, invece, sarà  la lotta al terrorismo fondamentalista, ramificato in tanti gruppi organizzati, con o senza Bin Laden. Il terrorismo è in definitiva il segno di una impotenza politica, e infatti la sua «eruzione» corrisponde ai primi segni di declino. Uno studioso francese, Gilles Kepel, in Guerra santa, espansione e declino dell`€™islamismo (edito recentemente dall`€™editore Carocci) indica il fallimento delle «ricette fondamentaliste» nei Paesi dove erano state applicate. In molti di essi, dall`€™Iran al Sudan, è in atto un ripensamento, un allontanamento delle forme più estreme. Quindi dobbiamo distinguere fra terrorismo e fondamentalismo, se non vogliamo attizzare noi una fiamma che già  iniziava ad affievolirsi. E continuare l`€™alleanza con i Paesi islamici moderati.

L`€™intervento militare deve apparire come una eccezione mentre la lotta, di lunga durata, va combattuta con altri mezzi e strumenti.

Per motivi di giustizia, e per togliere di mano dai terroristi il pretesto della «bandiera palestinese», si dovrà  risolvere il problema di uno stato palestinese, probabilmente con forze di interposizione internazionali che garantiscano la sicurezza di entrambi i popoli, israeliano e palestinese.

Pace e giustizia

La pace legata alla giustizia. Quindi alla cattura e alla punizione dei terroristi. Ma anche a quel «nuovo ordine mondiale», di cui si parla molto ma poco si realizza. Ci sono dei segnali da dare che la globalizzazione non può identificarsi con il liberismo economico, cioè la legge del più ricco, quindi dell`€™Occidente. Occorre passare dalle denunce ai fatti, alle riforme. Non è vero che non esistono proposte concrete. Già  da troppo tempo si parla della famosa «tassa Tobin» `€“ dal nome di un economista statunitense premio Nobel `€“ che lui stesso ha definito come un «granellino di sabbia da introdurre nella ruota della speculazione dei mercati finanziari». Che renderebbe i nostri stessi mercati più stabili e permetterebbe di destinare i proventi ai Paesi in via di sviluppo. Si ribatte che è di difficile applicazione, perché i capitali si rivolgerebbero ai «paradisi fiscali». Allora perché non pensare a quel Consiglio di sicurezza economica collegato all`€™Onu per affrontare le crisi economiche internazionali `€“ come quella che stiamo cominciando a vivere e che se per noi può significare meno benessere, per altri popoli può voler dire scendere oltre la soglia di sopravvivenza `€“ proposta dall`€™ex presidente della Commissione europea Jacques Delors? Si annuncia un anno difficile con sfide molto impegnative: soprattutto appare una risposta razionale alla irrazionalità  inumana e omicida del terrorismo.

Intervista a Scalfaro

Sant`€™Egidio: no allo scontro di religioni e civiltà 

C`€™è chi, come lo statunitense Samuel Huntigton, ha teorizzato come prospettiva futura uno «scontro tra civiltà » (il suo libro è del 1996). Contro questa profezia di sventura si moltiplicano le iniziative di dialogo: in prima fila, come sempre, la Comunità  di Sant`€™Egidio, che ha organizzato a Roma, dal 3 al 4 ottobre, un vertice islamico cristiano da cui è uscita la proposta di un comitato permanente tra teologi e intellettuali musulmani e cristiani. In questa occasione, abbiamo rivolto tre domande all`€™ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro.

Lei pensa possibile la diffusione di nuove forme di Jihad, di guerre sante o di crociate?

Lo scontro tra religioni e civiltà  sarebbe la più nefasta e incivile sciagura: occorre sempre tener distinto il piano della religione da quello della politica. Penso che dietro le cosiddette guerre di religione ci siano stati interessi ben diversi, quasi sempre interessi economici. La religione è solo usata come paravento di interessi altrimenti inconfessabili.

Quali le radici degli attuali sconvolgimenti?

Quando la povertà  in tanta parte del mondo diventa miseria, allora si tramuta in una sorta di nuova bomba atomica. Le religioni hanno un dovere in più di andare nel profondo, perché sanno guardare oltre il contingente, all`€™essenziale. Tutti dobbiamo praticare il dialogo: nei miei numerosi viaggi ricordo come momenti indimenticabili le soste in alcune moschee, dove mi sono raccolto in meditazione. Dobbiamo curare le menti e curare i cuori, per raggiungere la vera pace.

L`€™uso della forza è lecito in situazioni estreme di autodifesa?

La forza può essere un fatto necessario, ma se diventa violenza si trasforma in patologia. Intervengono i muscoli, quando manca lo spazio alla ragione. E non dimentichiamo che il nome di Dio è la pace.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017