Sono tornate le «ruote» ora sono le «culle per la vita»

«Neonato gettato nel cassonetto» e la notizia ci strappa un brivido di raccapriccio. Perché non si giunga a questi gesti estremi, ecco un'iniziativa che rilancia un'antica ed efficace tradizione.
19 Gennaio 2006 | di

Ospedale di Pisa, 16 marzo 1896: una giovane donna dà  alla luce una bimbetta, ma non la vuole vedere. Da tempo ha deciso di non tenerla e quando la affida ai sanitari fa scrivere in calce al foglio di rinuncia: «madre che desidera restare sconosciuta». Una delle suore che si prendono cura dei bimbi abbandonati, le dà  il nome: Ida. La piccola crescerà  in un orfanotrofio sino a quando non verrà  adottata, ma non saprà  mai il nome di chi l'ha messa al mondo. A suo tempo Ida avrà  figli e nipoti. Una di questi ultimi è chi scrive.
È una delle tante storie di bambini nati e abbandonati, comunque finita bene. La  mamma di Ida sapeva di poter partorire in ospedale, rinunciare al figlio lasciandolo in mani sicure, mantenendo l'anonimato e senza conseguenze legali o morali. Accadeva più di un secolo fa.
È notte. Irina sta male. Sono iniziate le doglie. È sola, non ha nessuno su cui contare. Immigrata clandestina, sa bene che se va a partorire in ospedale rischia l'espulsione.  Ma non è solo questo il problema: come potrà  mantenere il bambino che sta per nascere? Per badare a lui dovrà  rinunciare ai lavori saltuari che  le consentono di raggranellare qualche soldo. Piange: per i dolori e perché non vede vie d'uscita. Possiamo solo indovinare il dramma che si scatena in lei quando il piccolo nasce. Alla fine la paura ha il sopravvento. Irina si sente in trappola: chiude la creaturina in un sacchetto nero - nero come la sua disperazione - e la getta tra i rifiuti. Aspetta la notte, la strada è deserta... Tanti drammi si concludono così, con l'inevitabile brivido di raccapriccio quando la notizia appare sui giornali.
Per impedire scelte così tragiche - non basta una vita per smaltire la montagna di rimorsi che queste esperienze provocano - qualcuno di recente ha pensato di rispolverare l'antica istituzione delle «ruote degli esposti», esistenti un tempo in ogni città , di solito presso i conventi. Una mamma che non voleva tenersi il bambino appena dato alla luce, lo poteva depositare lì. Qualcuno lo avrebbe raccolto e si sarebbe preso cura di lui, affidandolo poi alle istituzioni preposte. Alla «povera» mamma restava solo il rimorso dell'abbandono, mitigato dalla certezza che il piccolo avrebbe avuto la possibilità  di vivere, anche senza di lei.
Se Irina, e tante altre come lei, l'avessero saputo...
Oggi la vecchia «ruota degli esposti» si chiama «culla per la vita». L'iniziativa è stata lanciata dal Movimento per la Vita che in pochi anni ha predisposto queste culle in alcune città  italiane, da Aosta a Casale Monferrato a Civitavecchia, da Palermo a Padova, ultima in ordine di tempo ad attivarne una. Disponibili ventiquattr'ore su ventiquattro, le culle sono in grado di soccorrere immediatamente i piccoli abbandonati. L'iniziativa è un tentativo di risposta al fenomeno dell'abbandono e dell'infanticidio.
«Le ruote sono uno strumento di accoglienza antichissimo - spiega l'onorevole Carlo Casini , presidente nazionale del Movimento per la Vita -; ce n'erano in tutte le città  d'Italia; la più famosa a Firenze, collocata nell'Ospedale degli Innocenti, che, nella sua lunga storia, ha salvato dalla morte più di cinquecentomila bambini». Esiste un archivio di questa istituzione (poi soppressa perché ritenuta «medievale»), che conserva gli effetti personali lasciati dalle mamme nelle culle assieme ai loro bambini: indumenti, santini, anelli spezzati, piccoli messaggi, posti come probabili segni di riconoscimento in futuro.
«Negli anni Settanta - continua Casini - si ritenne che l'aborto avrebbe fatto scomparire l'infanticidio. Ma i fatti recenti smentiscono la previsione. Accade che le donne in difficoltà  si rivolgano alle strutture preposte quando è troppo tardi per abortire. La società  di oggi sembra avere così scarsa considerazione della vita che potrebbe portare le donne a credere che se è lecito scegliere di uccidere il loro bambino prima del parto, lo si possa fare anche subito dopo». La possibilità  di partorire in ospedale, e poi lasciarvi il figlio senza che il nome della madre sia menzionato nel suo certificato di nascita, come prevede la legge (DPR 396 art. 30, primo comma), a volte non offre sufficienti garanzie, specialmente se le partorienti sono immigrate clandestine.
«L'iniziativa delle culle per la vita ha suscitato molte perplessità  perché ritenuta quasi un passo indietro - spiega ancora Casini -. Credo però che trovare un bambino abbandonato nel cassonetto, o peggio, sia più traumatizzante che creare uno strumento moderno, anche se usato in passato, in grado di dire a una mamma: Se proprio non ce la fai a tenere tuo figlio, affidalo a noi! Nessuno lo saprà  e nessuno ti giudicherà . La culla, quindi, ci è sembrata uno strumento civile e adeguato, pur con tutti i suoi limiti».
«Quello che desideriamo soprattutto far capire - dice Antonietta Dan , presidente del Movimento per la Vita di Padova - è che la culla non è assolutamente la soluzione. Ci preme, invece, far sapere alle donne in difficoltà  che possiamo offrire loro aiuto e sostegno psicologico, morale e materiale, prima che arrivino al gesto estremo. Ma se la disperazione le portasse a concepire l'idea dell'abbandono, la culla per la vita rappresenta pur sempre un'alternativa accettabile rispetto ad altre tragiche soluzioni.
Afferma Ubaldo Camillotti del direttivo padovano del medesimo movimento: «Il servizio culle, offerto dai nostri Centri di aiuto alla vita (Cav), sparsi in tutto il territorio nazionale, è in grado di accogliere il bambino ma anche, e soprattutto, la mamma».
«La culla - sostiene l'onorevole Casini - anche se resta vuota, è comunque un inno  alla vita, per ricordare che i figli non si buttano, ma si accolgono. Le future mamme che si rivolgono ai Cav per avere un aiuto psicologico, o anche materiale, finiscono quasi sempre, e con grande gioia, per tenere con sé il figlio. Una donna in difficoltà  che, con il cuore in subbuglio, lascia il figlio perché sia affidato a una famiglia in grado di accudirlo, è mamma due volte. Essere madre significa dare la vita, certo, ma anche sapersi distaccare dal proprio figlio nel momento di maggiore difficoltà , perché questo bimbo viva».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017