Soffia il vento della spiritualità

La spiritualità tocca il nucleo centrale dell’esistenza umana: la relazione con l’Assoluto. Per questo da essa non si può prescindere. Lo mostra anche Torino spiritualità, manifestazione che si tiene ogni anno a settembre nel capoluogo piemontese.
30 Luglio 2008 | di

«È meglio vivere una spiritualità che usare il nome di una religione», canticchia Giuseppe Povia, quello de I bambini fanno oh, che si spiega – a suo modo – subito dopo: «Giuro che son più sicuro nell’insicurezza che nella convinzione». Ma che cos’è allora spiritualità? Qualcosa di molto simile al prezzemolo che si sposa con molti cibi, o anche a una turbina che offre al soggetto spumeggiante tensione emotiva a fronte di basso o nullo impegno personale. Praticamente, all’estremo, emozioni contro etica!
Ho tra le mani un recente e ponderoso volume (ben 1152 pagine) scritto dal teologo Kees Waaijman dal titolo La spiritualità. Forme, fondamenti, metodi (2007); le prime righe dicono questo: «La spiritualità tocca il nucleo centrale della nostra esistenza umana: la nostra relazione con l’Assoluto». Si tratta di una definizione pratica, induttiva, che però ha il pregio di mettere in chiaro che con la spiritualità o senza di essa si mette in gioco la vita, perché ne va del rapporto più intimo di ogni uomo e di ogni donna: quello con Dio. Né più né meno.

Sintomi di asfissia spirituale

Eppure, una delle caratteristiche del nostro tempo è quella di vivere una sorta di «asfissia spirituale», che Enzo Bianchi (Ricominciare, nell’anima, nella Chiesa, nel mondo, a cura di Marco Guzzi, 2008: nuova edizione aggiornata) riassume in alcuni elementi di comune evidenza: innanzitutto una sorta di ubriacatura determinata dal benessere diffuso; le troppe cose intontiscono e scoraggiano l’emergere dei bisogni religiosi autentici. Biblicamente questa situazione viene espressa molto bene dal salmo 49, là dove si dice: «L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono». Il secondo dato, che può apparire paradossale, è la presenza sul mercato religioso di una «eccessiva ricchezza spirituale»: la compresenza di innumerevoli tradizioni religiose, a volte la loro contaminazione determinata anche da superficialità e facile resa di fronte al nuovo, creano scenari impensabili fino a qualche decennio fa. Capita che alcuni cristiani lascino la propria religione – magari conosciuta poco e male – per avventure spirituali esotiche o improvvisate, spesso con pessimi risultati. Infine, un terzo elemento è rinvenibile nella percezione che il mondo nel quale viviamo sia in qualche modo in mano di forze superiori e incontrollabili da parte del soggetto. Sono altri o «altro» a determinare il nostro destino, e resta ben poco spazio di manovra per scelte o decisioni personali. Saturazione, sincretismo e spersonalizzazione sono dunque i tre principali avversari di una possibile vita spirituale. Ne scardinano le radici e ne disintegrano i contenuti.

Una spiritualità per atei: possibile?

Mettendo volutamente tra parentesi il grande e attualissimo tema della spiritualità al plurale, vista la sempre maggiore compresenza di diverse religioni, c’è un’ulteriore questione che merita di essere considerata attentamente, cioè l’insorgere di una spiritualità al di fuori del perimetro classico delle religioni. Chi non crede in Dio, questa è la domanda, può avere una spiritualità? Come la mettiamo con gli atei, ad esempio? Il filosofo e accademico francese André Comte-Sponville, che pure diffida di ogni forma di turismo spirituale, del sincretismo e del confusionismo oggi così largamente diffusi, e che non manca di riconoscere la grandezza dell’evento cristiano, si considera un ateo aperto alla spiritualità intesa come tensione all’assoluto e all’infinito. La spiritualità, insomma, è una dimensione costitutiva dell’esistenza umana in quanto tale, ed è possibile anche senza implicare Dio. Si veda il volume Lo spirito dell’ateismo. Introduzione a una spiritualità senza Dio (2007), dove l’autore, quando parla di spiritualità, fa riferimento a quello che i latini chiamavano spiritus e che fa la differenza tra l’uomo e la bestia. Gli atei non ne possiedono di meno di coloro che credono in Dio.

Essere atei nell’Occidente un tempo cristiano non è dunque una buona ragione per perdere del tutto la memoria e tanto meno per passare armi e bagagli a una visione antireligiosa dell’esistenza. Anzi, impegna a ricostruire sulle antiche radici pur con nuovi e diversi significati, con gratitudine anche se dentro l’orizzonte della finitezza. Per fare un esempio, quando Comte-Sponville nel suo libro cerca di ridefinire le tre fondamentali virtù del cristiano secondo una spiritualità per atei, parla di «una spiritualità della fedeltà piuttosto che della fede, dell’azione piuttosto che della speranza (sì, l’azione può diventare un esercizio spirituale: così il lavoro, nei nostri monasteri, o le arti marziali in Oriente), infine dell’amore, evidentemente, piuttosto che del timore e della sottomissione». Ma non si ferma qui, perché non si pensi che in fondo quella che propone sia un’etica o una semplice forma di saggezza, e si spinge a parlare di una mistica come esperienza laica del mistero. Si tratta di pagine pensose, che meritano attenta considerazione.
Tempo fa mi colpivano, nella stessa linea, alcune riflessioni di Vittorino Andreoli, il quale caldeggiava (in «Avvenire», 16 aprile 2008) una maggiore attenzione della Chiesa nei confronti dei non credenti: «Nella mia immaginazione, sono arrivato a ipotizzare persino un monastero dei non credenti, poiché anche i non credenti hanno bisogno di silenzio e di meditazione, e forse del silenzio come disvelatore del senso». E più avanti: «Io non credente ho bisogno di liturgia, ho bisogno anche di ritualità…». Misurava poi l’utilità delle riflessioni delle encicliche di Benedetto XVI (Deus Caritas est e Spe salvi) per coloro che non fanno parte della Chiesa. Questi documenti – scrive – andrebbero indirizzati «anche ai non credenti, poiché questi hanno per lo più un destino identico ai credenti».

Che tutti gli uomini hanno una vita spirituale, cerca di mostrarlo – nella scia della teologia elaborata dal teologo gesuita Karl Rahner e partendo da significativi spunti letterari – Antonio Spadaro nel quaderno di «La Civiltà Cattolica» del 21 giugno di quest’anno. Presupponendo che Dio è all’opera, sia pure in maniera nascosta, nella vita di ogni uomo e di ogni donna, si può ben parlare di una possibile spiritualità di tutti. «Non si intende qui per “vita spirituale” la vita esplicita di preghiera o l’adesione libera della fede, ma il fatto che ogni uomo, in quanto tale, vive sotto l’influsso della chiamata della grazia di Cristo e da essa è incalzato. Per il credente tutti gli uomini hanno una vita spirituale, non solamente chi la vive consapevolmente e ad essa aderisce. È anche vero che, a volte, essa prende forma in una maniera che sembra staccata da un’espressione esplicitamente religiosa e confessionale». Come non riconoscere che nella formulazione delle grandi domande (che cosa voglio da questa vita? che cosa mi fa felice?) è in gioco una grandezza di ordine spirituale? Come non vedere in alcune esperienze di schietto e denso spessore esistenziale vere e proprie intuizioni di eternità? Come non decifrare in chiave di presenza divina lo svolgimento delle molteplici attività che l’uomo mette in atto per forgiare se stesso e il mondo? Così scriveva Teilhard de Chardin nel suo L’ambiente divino: «Dio non è lontano da noi, fuori della sfera tangibile, ma ci aspetta ad ogni istante nell’azione, nell’opera del momento. In qualche maniera, è sulla punta della mia penna, del mio piccone, del mio pennello, del mio ago, del mio cuore, del mio pensiero». Impastato dentro l’umano, secondo la logica dell’incarnazione, Dio ci attende nei crocevia dell’umanità, nei luoghi della sofferenza, nelle estasi dell’amore, negli slanci – come direbbe Emily Dickinson – resi possibili dall’Eternità. Questa prospettiva ci permette di declinare alcuni atteggiamenti del cuore che consentono all’uomo d’oggi di restare aperto alla vita spirituale: «Per essere uomini spirituali – riassume Spadaro – occorre essere aperti alla vita nella sua freschezza originaria, mai essere assuefatti o “abituati” a ciò che invece è sorgivo per natura: la vita, la realtà di ogni giorno, la creazione». Nessuna evasione dalla storia, nessuna fuga o ricerca di stati alterati della coscienza; piuttosto un tuffo nella realtà per viverla appieno, per gustarla meglio. E così il mondo diventa una grande cattedrale per celebrare la solenne, a volte radiosa e a volte mesta, liturgia della vita.

Sul nostro tema vale la pena di ricordare un vibrante intervento (La spiritualità degli atei, in «la Repubblica», 28 febbraio 2007) del già citato priore di Bose. Egli sostiene che se «ogni religione si nutre di spiritualità, c’è posto anche per una spiritualità senza religione, senza Dio». In che senso? «Credo ci sia posto per una spiritualità degli agnostici e dei non credenti, di coloro che sono in cerca della verità perché non soddisfatti di risposte prefabbricate, di verità definite una volta per tutte. È una spiritualità che si nutre dell’esperienza dell’interiorità, della ricerca del senso e del senso dei sensi, del confronto con la realtà della morte come parola originaria e con l’esperienza del limite; una spiritualità che conosce l’importanza anche della solitudine, del silenzio, del pensare, del meditare. È una spiritualità che si alimenta dell’alterità: va incontro agli altri, all’altro e resta aperta all’Altro se mai si rivelasse». Interessante è anche il contesto nel quale Enzo Bianchi sviluppa il suo ragionamento, vale a dire quella conflittualità che si è creata in Italia negli ultimi tempi soprattutto tra un certo cattolicesimo che, sentendosi attaccato, reagisce con atteggiamenti di chiusura e di sfiducia preventiva nei confronti della società e un anticristianesimo rozzo e pesantemente aggressivo. La soluzione non può che essere la decisione, di entrambi, di andare oltre la scomunica reciproca ridando fiato al dialogo, riattivando la stima nei confronti dell’interlocutore. Dal punto di vista cristiano un interlocutore ritenuto capace, anche se non propriamente nel senso religioso, di spiritualità, cioè di vita interiore, di fedeltà nelle vicende umane, di dono di sé, di sensibilità etica.

A Torino con speranza

Un momento significativo di questo confronto alto tra credenti e non credenti (sarebbe meglio dire «diversamente credenti»), ma anche tra credenti di fedi diverse, sarà vissuto a Torino spiritualità 2008 intorno al tema Speranze. Quello della speranza, per molti motivi, è un sentiero impervio, che da sempre è percorso da uomini e donne, gruppi, comunità piccole e grandi, intere generazioni. La particolare prospettiva in cui si pone l’articolata edizione 2008 di Torino spiritualità (dal 24 al 28 settembre, programma sul sito www.torinospiritualita.org) è data dall’intendere la speranza come «indagine responsabile del presente, come speranza attiva, immanente, concreta», e dalle tre sezioni nelle quali il tema sarà sviluppato: le speranze dell’individuo, vale a dire la dimensione esistenziale e privata, per quanto questo sia possibile, della speranza; le speranze dell’Italia (cosa sperano, in verità, gli italiani); le speranze del mondo, con un evidente allargamento degli orizzonti al futuro che attende tutti e uno sguardo a mondi vitali quali la Cina e l’Africa. E leggendo il grande orizzonte che apre verso il futuro personale e collettivo e viene riempito di desideri, costruito con tenacia, allacciato alle sue radici passate, verranno declinati i tempi della vita e del mondo di oggi. Il tutto vivacizzato da un pullulare di iniziative che coinvolgeranno ogni angolo del centro città. Nel 2007 si sono contati novanta appuntamenti tra conferenze, dibattiti, spettacoli e lezioni. A fare da richiamo, per più di 30 mila persone provenienti da tutta Italia, un tema tutt’altro che facile: Corpo e Spirito, con un no-stop dalle 6.30 del mattino con i vari workshop fino alle serate dedicate alla lettura di testi di varie tradizioni.

«Fin dall’origine – scrivono gli organizzatori – il nucleo centrale della rassegna è rappresentato dalle religioni viste e discusse in un’ottica laica, o meglio parlare di religione per affrontare grandi temi come la pace, la tolleranza e la convivenza civile dei popoli. Un luogo che non propone solo percorsi di confronto e di discussione di carattere culturale, ma anche momenti di crescita individuale e di intensità introspettiva, nella convinzione che esista una spazio per la spiritualità anche in quelli che non credono».
La domanda su Dio rimbalza e si riformula come domanda rivolta all’uomo, come invito a rivisitare i propri limiti, a sondare le proprie possibilità, a riaccendere il desiderio di ulteriorità, a rimettersi in cammino seguendo il vento dello spirito, con speranza.    

i libri

– Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità. Per un lessico della vita interiore

Rizzoli, € 28,00

– André Comte-Sponville, Lo spirito dell’ateismo. Introduzione a una spiritualità senza Dio

Ponte alle Grazie, € 13,00

– Didier Long, la sopravvivenza spirituale nell’era della globalizzazione

Excelsior 1881, € 17,50

Torino Spiritualità 2008. Domande a Dio. Domande agli uomini

Le speranze dell’individuo

Lettura e commento. Il tramonto dell’amore Jean-Luc Nancy

Lezione. Speranze e rimpianti Eugenio Borgna

Lezione. L’Arte di ascoltare l’altro Francesco Torralba

Dialogo. Fede e fiducia Enzo Bianchi

– Le speranze dell’Italia

Lezione. Le speranze della Repubblica Eugenio Scalfari

Lezione. ’68 Marcello Flores

Lezione. ’78 Miguel Gotor

– Le speranze del mondo

Lezione. Prendersi cura del mondo Leonardo Boff

Dialogo. Global Peace Initiative for women Testimonianze

Dialogo. Le speranze dell’Islam nel mondo contemporaneo Abdennour Bidar dialoga con Renzo Guolo

Dialogo. Teologia della speranza Jürgen Moltmann dialoga con Ugo Perone

Lezione. La speranza nel Corano Lectio magistralis di Mohammed Arkoun

Lezione. Il disincanto del mondo Marcel Gauchet

Dialogo. Ripensare i consumi, i desideri, le necessità Gilles Lipovetsky dialoga
con Remo Bassetti

– Incontri a cura di Reset

Speranza e psicologia. Carattere e orientamento al futuro intervengono Marco Lodoli e Silvia Vegetti Finzi

Il dubbio come maestro

La fede? Ha bisogno di un’intelligenza critica

A colloquio con Gabriella Caramore, scrittrice, giornalista, conduttrice della trasmissione «Uomini e Profeti» su RadioRaiTre, che da anni si occupa di temi legati alla spiritualità.

Msa. Dottoressa Caramore, vista la sua attenzione anche «professionale» al tema della spiritualità, che spazio valuta ci sia per la spiritualità verso la fine di questo primo decennio del XXI secolo?

Caramore. Molto e poco nello stesso tempo. Lo stesso spazio consentito all’amore, al dono, alla libertà. Dobbiamo fare attenzione, credo, a non confondere gli spazi «istituzionali» o «mediatici» concessi alle espressioni del religioso con il varco, non necessariamente garantito, che la spiritualità riesce ad aprirsi. Lo spirito – lo sappiamo – «soffia dove vuole» (Gv 3,8), è inquietudine e movimento, chiede all’essere umano di staccarsi dall’orizzonte conosciuto e familiare, di fare esodo verso l’ignoto. Sulla soglia del XXI secolo ci sentiamo certamente smarriti dentro un mondo che si è fatto troppo grande, senza confini certi, e dunque, in qualche modo, immisurabile. Siamo spaventati dal fatto di avere troppe domande e forse poche risposte, e la paura distoglie, semplifica, produce ossessioni, contrae lo spazio della ricerca. La spiritualità del XXI secolo, se è tale, deve ritrovare, credo, la passione della ricerca e della scoperta, l’amore per l’inquietudine e per il dubitare, il respiro dell’aperto.

Torino spiritualità è un evento di grande richiamo nel contesto italiano. Quali sono i punti forza di questa manifestazione per certi versi insolita?

Direi che Torino spiritualità esprime bene la dimensione «plurale» dell’esperienza spirituale. Proponendo differenti percorsi, esperienze, linguaggi della dimensione dello spirito: non soltanto delle diverse tradizioni religiose, ma proprio di quel «soffio» che percorre diverse culture e momenti dell’esperienza umana, individuale e collettiva. Certo, in ogni manifestazione pubblica vi è il rischio di introdurre una sorta di regime confusivo. Ogni spazio pubblico può essere un luogo di attenzione o di distrazione, un’opportunità o un’occasione mancata. Ma non bisogna confondere l’esperienza dello «spirituale» con le possibilità di conoscenza e di incontro. Per questo ritengo che Torino spiritualità sia anche uno spazio di «libertà». Perché ciascuno è tenuto a rielaborare criticamente ciò che incontra e a scegliere la dimensione e il linguaggio che sente propri.

Nel suo ultimo libro (La fatica della luce. Confini del religioso, Morcelliana) lei scrive che la parola «ateo» è una parola «piena di Dio» e che il credente non può non confrontarsi con l’ateo, non fosse altro per il fatto che questo confronto lo aiuta a smascherare le tentazioni idolatriche e a evitare ogni pigrizia dell’intelligenza. Ci può spiegare meglio questo punto?

«Ateo» (a-theòs, letteralmente «senza dio») è una parola che pone Dio al suo centro: sia pure per negarlo o per contestarlo, ma comunque si muove intorno a quell’oggetto – misterioso, sfuggente, in ogni caso ingombrante – che molti esseri umani chiamano Dio. L’ateo (il non credente, l’agnostico) non crede che esista un Dio, o non crede che Dio possa salvare le creature, o non crede nel suo intervento nella vita di uomini e donne. Ma in ogni caso su di lui si interroga. Semplicemente, credo che molte di quelle domande intercettino anche la coscienza dei credenti. E sono convinta che sia salutare anche per il credente far emergere i dubbi, le esitazioni, le «miscredenze», piuttosto che metterle a tacere. La fede ha bisogno di un’intelligenza critica, come generazioni di grandi fedeli «dubitanti» hanno testimoniato (da Giobbe a Pascal a Simone Weil, a mille altri), non di una falsa coscienza. Sulla base di una falsa coscienza si finisce con il credere più a se stessi che a Dio.

Ancora nel suo libro lei tratta a lungo della speranza, sollevando la domanda delle domande: «Ma come chiedere di sperare a chi affonda nel grembo buio del dolore?».

Spero, su questo punto, di essere stata sufficientemente chiara. A chi è travolto dalla disperazione – nella sventura, in un grave lutto, nell’abbandono e nella miseria – non possiamo chiedere di sperare comunque. Possiamo però, silenziosamente, stargli accanto e sperare noi, per lui o per lei, che quel dolore senza riparo non sia l’ultima parola sulla sua vita.

L’intervista

I perché di un evento

Abbiamo incontrato Antonella Parigi, presidente del Comitato organizzatore di Torino spiritualità.

Msa. Perché, in un tempo nel quale la speranza è più difficile, avete scelto di parlarne?

Parigi. Il tema di quest’anno, Speranze, ci è stato suggerito inizialmente dal passo conclusivo de Le città invisibili di Italo Calvino, che recita: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni (...). Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
Come dice Calvino, quando sperare sembra più difficile, come in questo momento storico, occorre uno sforzo di riflessione per vivere in modo responsabile il presente, elaborare attentamente la memoria, trarne insegnamento per poi proiettarsi con fiducia nel futuro. Ma il messaggio più intenso è forse quello di condividere le speranze con gli altri. L’idea è quella di una speranza attiva, immanente, che tocchi i nodi cruciali della riflessione esistenziale. Naturalmente altro punto di partenza, analisi e ispirazione è stata l’enciclica Spe Salvi di Papa Benedetto XVI.

Che cosa sta all’origine di Torino spiritualità?

Torino spiritualità rappresenta l’evoluzione del progetto culturale Domande a Dio. Domande agli uomini, inaugurato nel 2002 dal Teatro Stabile di Torino in occasione del primo anniversario dell’undici settembre, ideato e curato da Gabriele Vacis, Roberto Tarasco e Francesco Micheli.
Torino spiritualità, attraverso la vocazione al dialogo interreligioso e interculturale e la riflessione sulle tematiche attinenti la dimensione etica e spirituale dell’essere umano, vuole essere un incontro tra idee, parole, voci e religioni provenienti da ogni parte del mondo. Vuole, insomma, porre a confronto le varie forme di pensiero che la spiritualità assume nelle diverse culture e orientamenti religiosi, per discutere i grandi temi etici che il mutamento del mondo ci pone e per affrontare le complesse problematiche delle società multiculturali.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017