Sisma sei mesi dopo. Emilia a testa alta

Alla scoperta di una terra che ce la sta mettendo tutta per ripartire. Storie e volti di gente che sta tirando fuori il meglio di sé per ricominciare. Senza piangersi addosso.
24 Ottobre 2012 | di

Capannoni e laboratori artigianali, chiese e campanili, scuole e palestre, case e palazzi, torri antiche e musei, stalle e cascine in aperta campagna. Il sisma del maggio scorso in Emilia ha sconquassato la terra e le vite di ciascuno, senza distinzione. 5.9 il grado più alto toccato dalla scala Richter, che misura la grandezza di un terremoto. 4.03 l’ora della domenica di maggio, il 20, in cui una scossa, la prima e più forte (un’altra, altrettanto devastante, sarà registrata nove giorni dopo), fa tremare quel territorio e con esso un gran pezzo d’Italia da Nord a Sud. Gli orologi si fermano. L’immagine di quello della Torre dei Modenesi di Finale Emilia, spezzato giusto a metà, fa il giro del mondo. E diventa simbolo di una terra ferita a morte: ventisette le vittime, centinaia i feriti, migliaia gli sfollati, impressionanti i danni. Ma ora anche di un’Emilia che, pur colpita nel suo cuore più profondo, quello del lavoro, della fede semplice delle antiche pievi di campagna, delle fabbriche scenario delle prime lotte operaie, cerca di rialzarsi.

L’Emilia ce la sta mettendo tutta per ricostruire quel cuore colpito a morte. Lo sta facendo da sola, senza piangersi addosso, a testa alta, con un occhio attento alla condivisione e alla solidarietà. Vittorio Zucconi, giornalista e scrittore nato a Bastiglia (Modena), scrive:
«Le crepe nella terra si chiudono. I capannoni si possono sempre ricostruire. Le aziende si rifinanziano. Le rovine si spazzano via e anche il campanile più antico può essere rimesso dritto, mattone dopo mattone. Ma la gente, quella non si ricostruisce. Se c’è, si rialza. Se non c’è, neppure una portaerei piena di soldi serve». Noi siamo andati alla ricerca dell’Emilia che c’è.
 
Ricominciare dai banchi di scuola
Trema ancora la terra, sei mesi dopo. Ripartire non è facile. C’è chi continua ad abitare in prefabbricati e tende. A metà ottobre gli sfollati erano ancora 3.061 in diciotto tendopoli. L’impegno è quello di smantellare questi ripari di emergenza prima dell’inverno, ma per alcuni non sarà così. Gli alloggi alternativi non sono ancora pronti. C’è chi ha trovato ospitalità da parenti e amici; e chi, almeno fino a ottobre, viveva ancora in residence (98) e in alberghi (1.467). Sul sito della Regione Emilia Romagna una finestra dedicata al terremoto aggiorna costantemente i dati. Sempre la Regione ha attivato da ottobre il numero verde 800407407, rivolto a cittadini e imprese, per rispondere a dubbi e necessità legate alla ricostruzione.

Gli enti locali sono in prima linea nel garantire i servizi, a cominciare da quelli scolastici e sanitari. A Reggiolo (RE) il sindaco Barbara Bernardelli riceve i suoi cittadini dentro a un container. Il municipio è inagibile. Maggioranza e opposizione, con votazione unanime, hanno dato priorità alla messa in sicurezza di scuola materna e asilo nido che hanno così potuto riaprire i battenti. Realizzata in tempi record anche la scuola media, inaugurata a ottobre. In quaranta giorni verrà completata quella di Cavezzo, prefabbricata e antisismica: sarà pronta per metà novembre. Intanto i ragazzi fanno lezione in teatri tenda e campi sportivi coperti.
 
«Io non mi muovo da qui»
Strada Statale 12 «per la Mirandola», come dicono da queste parti. Fuori dal finestrino dell’auto, capannoni, vigneti, centri commerciali, frutteti. Fino a che non si schiude la pianura. Distese di campagna tirate quasi col fil di piombo. Sconfinate, piatte, rassicuranti, almeno all’apparenza. È la Bassa modenese, più semplicemente la Basa pronunciata con la «s» sorda. Lungo la strada, dopo Mirandola se si arriva dal Po, deviazione per Medolla, altro centro squassato dal sisma. Qui vive Lorella Ansaloni, tre figli, di 26, 22 e 13 anni, titolare, con il marito Claudio Morselli, di un’azienda agricola con 15 ettari di frutteto, 2 di vigneto, 2 di vivaio a pieno campo e un garden da 10 mila metri quadrati di superficie e 3.500 di serre. Lorella rappresenta le 1.500 imprenditrici che fanno capo a «Donne Impresa» di Coldiretti Emilia Romagna.

«Ci siamo messi al lavoro senza aspettare. Da queste parti nessuna azienda agricola si è salvata – racconta –. Non c’è stata una cascina che non abbia subito crolli, lesioni o crepe. Il sisma ha danneggiato il 100 per cento delle attività. Un passo decisivo è stato quello di censire i danni. Durante i sopralluoghi è stato trovato più di qualche contadino, spesso anziano, che non si era mai mosso dalla sua azienda. Continuava a ripetere: “Io non mi muovo da qui”, per paura di essere costretto a lasciare la terra che era stata dei suoi padri e dei suoi nonni. E magari aveva già provveduto a riparare il danno da solo, senza chiedere aiuto a nessuno. Oggi il problema maggiore è un altro: a differenza di artigianato e industria, l’agricoltura non può delocalizzare, un vigneto non può essere trapiantato da un’altra parte, un allevamento non può essere traslocato di punto in bianco. Un contadino non abbandona mai la sua terra. L’allevatore non lascia mai la sua stalla. È la natura, non l’uomo, che regola le stagioni, il tempo della semina e della raccolta, i cicli della vita. Il contadino ha il solo compito di custodirla, di vegliarla e continuare a proteggerla qualsiasi tempo ci sia fuori, qualsiasi avversità la sconquassi anche nelle viscere».
 
La carica delle cento
Imprenditrici, negozianti, mogli e mamme. Cento donne unite per continuare a sperare, a lavorare, per promuovere le loro attività e i loro prodotti, per non fermarsi, ma anche per evitare speculazioni e dequalificazioni. Sono le donne che, dalla Bassa Modenese all’Alto Ferrarese, hanno dato vita al marchio «EmiliAmo». L’idea ha la testa e la passione di Claudia Miglia, consulente aziendale, modenese. Non sta mai ferma, le ci vorrebbe una giornata di 48 ore per riuscire a far tutto, continua a ripetere. «Il dopo terremoto ha messo a terra tante delle imprese che seguivo per professione – spiega Claudia –. Non potevo stare a guardare: Modena è la mia città, questi sono i luoghi dove vivo, queste le persone che incontro tutti i giorni. Conosco bene i sacrifici, la dedizione, il sudore che mettono nel loro lavoro. “EmiliAmo” riassume questa sorta di credo: dal nome Emilia e dal verbo amare. Abbiamo voluto creare un marchio per garantire una sorta di certificazione di qualità. Le ragioni sono due: riuscire a vendere i prodotti degli esercizi commerciali oggi chiusi per il terremoto e far pressione sulla politica nazionale e locale perché la ricostruzione avvenga con il recupero dei centri storici, cuore economico e civile delle nostre comunità».
A dirla davvero tutta è un simbolo: un cuore con un tortellino al centro, segno della tradizione, della tipicità, del lavoro ben fatto e della festa, dello stare insieme, come aggiunge Claudia. Con il marchio «EmiliAmo» vengono proposti sul mercato i prodotti di aziende che avrebbero difficoltà a reperire canali di vendita: vestiti, scarpe, profumi, borse, generi agroalimentari. «Un marchio definito consente di evitare eventuali speculazioni dall’esterno, i prezzi saranno giusti, nessuno potrà venire qui a imporre quotazioni ridicole. Un altro obiettivo è trovare dei luoghi, piccoli centri commerciali e capannoni, dove riorganizzare la merce e tornare a incontrare la clientela».

Alcune negozianti della rete «EmiliAmo» hanno trovato «casa» nei grandi spazi de «Il Borgo» a Mirandola. Altre saranno presenti, dal 6 al 9 dicembre, a Modena per la fiera delle idee regalo «Curiosa». «Le nostre forze stanno convergendo, inoltre, su “5.9” (dal grado Richter più alto raggiunto dal sisma), – prosegue Claudia – il grande centro commerciale che sta per nascere a Cavezzo.
Un cuore nuovo che torna a pulsare, questa volta non dentro a capannoni, bensì all’interno di container riciclati. Sarà il quarto al mondo».
Da metà ottobre è divenuto operativo anche il portale www.emiliamo.it
 
I ragazzi di Sant’Anna
Mattina di fine ottobre. Sono da poco passate le 7. Una donna aspetta, fuori dal cancello. L’uscio si apre. Escono degli uomini. Prima che salgano sul furgoncino che li porterà sui luoghi del sisma, lei li saluta uno a uno: Mohamed, Nabil, Antonio, Evans, Pellegrino, Ivan, Titel, Sanaa e Repetta. Un cous-cous di etnie, lingue, religioni e culture messe insieme grazie a questa donna. Il cancello è quello della casa circondariale «Sant’Anna» di Modena. Loro sono i detenuti che hanno aderito al progetto voluto dal ministro della Giustizia Paola Severino e attuato grazie a Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Tribunale di Sorveglianza, Regione Emilia-Romagna, amministrazioni comunali delle città sedi di carceri, associazioni di base. Tra quelli che rispondono ai requisiti previsti dall’ordinamento, sono una quarantina quanti hanno dato la loro disponibilità. Si tratta di «lavoro esterno» – questa la formula tecnica corretta – assicurato, non retribuito. Hanno iniziato tre mesi fa, a rotazione. Andranno avanti almeno fino a dicembre, ma la speranza è di proseguire anche nel 2013. Il merito è, prima di tutto, dei tanti volontari.

Tra loro Paola Cigarini del gruppo «Carcere Città», la donna che li aspetta tutte le mattine per un saluto. È stata lei, insieme con gli altri volontari, a darsi da fare per stringere un patto non facile col territorio. Ha cercato i «datori di lavoro», Comuni, istituzioni e associazioni, e li ha convinti che valeva la pena tentare. «L’accoglienza è stata buona e i timori sono caduti in fretta – spiega Paola –. Tre detenuti hanno lavorato, sino a fine ottobre, al magazzino comunale di San Felice sul Panaro dove si concentrano le merci da smistare. Altri quattro sono al magazzino comunale di Mirandola. Ogni giorno, insieme ai tecnici comunali, sono al lavoro per rimuovere transenne, spostare cartelli e quanto la situazione richiede. Mangiano alla mensa comunale insieme al resto del personale. A Novi di Modena, l’esperienza di due detenuti è terminata a fine settembre. A uno, in particolare, è piaciuta molto: inserire i dati delle case distrutte, misurare, quantificare i danni, riportare numeri su numeri gli è risultato facile visto che, prima di finire in carcere, era geometra. Ha lavorato in una scuola d’infanzia, con cavetti volanti, scrivanie addossate le une alle altre, fianco a fianco con gli impiegati del servizio sociale, i tecnici, il sindaco. Fuori dalla porta, i cittadini che chiedono, aspettano, sperano. Un altro ha lavorato al canile di Mirandola. Due detenute sono ancora in forza, come cuoche, al centro provinciale della Protezione civile a Modena». Anche questo è uno dei volti di una terra che non si ferma. Grazie alle istituzioni, ai volontari e ai cittadini che garantiscono il trasporto. E, prima ancora, grazie a persone come Paola, convinte che ripartire sia un’occasione per provare a chiudere le crepe. Tutte le crepe.
 
Capannoni, si riparte
Anche in fabbrica e nei laboratori artigianali, anima forte di questo territorio, niente è più come prima. Una realtà tra tante: San Felice sul Panaro, Meta srl, azienda produttrice di macchine utensili. Il capannone crollato è ancora lì, da quel 29 maggio. Sotto alle macerie sono morti in tre: due operai e un ingegnere che stava effettuando i controlli sulla staticità. Ferito pure il titolare, Paolo Preti, artigiano, conosciutissimo in paese, sposato, cinque figli, due dei quali lavorano con lui. «Sarà impossibile ricostruire quei mille metri quadrati di capannone, la metà dell’intero stabilimento – afferma Preti con la voce rotta dall’emozione –. Ho cercato di ripartire subito, di continuare a dare lavoro ai miei operai. Ne avevo trentacinque, oggi sono venticinque. Qualcuno non ha retto allo stress psicologico. Mi hanno detto: “Paolo, non è per te. Qui mi trovavo bene, ma non ce la faccio più. Non dormo da mesi. Ho bisogno di cambiare”». Per continuare a garantire il prodotto, l’azienda ha spostato parte della produzione e dei macchinari in uno stabilimento in affitto, a 20 chilometri di distanza. «L’intero capannone dovrà essere demolito e rifatto. Il mio sogno è di riportare tutto qui».
 
Un «Borgo» per rinascere
È la prima opera post sisma, ossia la prima in muratura inaugurata nell’area dell’epicentro del terremoto. Siamo a Mirandola, via Gramsci, ex cantina sociale. Tanti piccoli edifici in pietra richiamano, anche nella tipologia architettonica, il centro storico. Prima del terremoto solo erba alta e il cartello «Vendesi». Poche ore dopo la scossa del 29 maggio, Antonella Ferraresi, di professione camiciaia, con negozio nel cuore di Mirandola, zona ancora oggi accessibile solo ai Vigili del fuoco, non ci pensa due volte. Lavora giorno e notte per convincere gli altri commercianti a non rimanere fermi, a riprendere l’attività, ma da un’altra parte. «Avevo molte commesse. L’80 per cento dei miei clienti viene da fuori Mirandola. Faccio camicie da uomo su misura, in un laboratorio annesso alla bottega – spiega Antonella –. Ho pensato subito all’ex cantina. Il lavoro è ripartito. I miei clienti hanno saputo aspettarci. Gli stessi istituti di credito ci stanno dando una mano». «Il Borgo», così è stato chiamato, si riempie di gente soprattutto nel week end. E così i commercianti – abbigliamento, panetteria, oreficeria, ottica, pelletteria, profumeria, illuminazione – hanno formato un Comitato e designato un presidente «senza portafoglio», Antonio Alfredo Ibelli, orafo. «Il legame con i luoghi è fondamentale – sottolinea Ibelli –. Abbiamo cercato di “ricostruire” il centro storico con i suoi negozi, ma anche con la vita, le relazioni, il calore che sempre si vivono nel cuore di un paese. Il centro di Mirandola è, e sarà sempre, dove noi vorremo che sia».

Per due settimane ha girato in bicicletta senza meta. Non solo non aveva più la sua vecchia bottega, che prima di lui era stata di suo padre, ubicata all’ombra del duomo di Mirandola, ma nemmeno la casa. In un attimo si è trovato senza niente. Senza i suoi fiori, una passione che coltiva, è proprio il caso di dirlo, sin da quando era piccolo. «Avevo 5 anni quando andavo a sbirciare il lavoro di papà – racconta Franco Morselli, di professione fioraio insieme con il fratello Antenore –. Per giorni, dopo il sisma, non sapevo cosa fare. Ho sperimentato la vicinanza dei clienti e dei fornitori e, parlando con mio fratello, ci siamo persuasi a ricominciare. La cosa peggiore è stata rimanere fermo, senza le mie piante, per la prima volta dopo cinquantadue anni. Non posso andare in un container: fiori e piante hanno bisogno di spazi e di luce». Franco non si è arreso. Nel suo negozio, in queste settimane, ci sono i muratori. «Voglio riaprire, là dove ho imparato ad amare le piante. Non so quando sarà, ma nulla al mondo mi farà rinunciare».

Uno sforzo che vede in prima linea le associazioni di categoria. Confesercenti è stata capofila nel monitorare la situazione delle imprese del commercio, dei servizi e della ristorazione nell’area nord della provincia. Su un totale di 1.714 imprese, 940 (54 per cento) risultano in attività nella sede abituale; 612 hanno delocalizzato o sono in procinto di farlo in strutture alternative: in particolare 464 (27 per cento) in container e 148 (9 per cento) in negozi sfitti. Le restanti sono tuttora ferme. A Mirandola e dintorni Mauro Bega, il vulcanico direttore della Confesercenti, è volto noto. Vive e lavora in questa zona. In meno di due mesi, all’indomani del terremoto, in sella al suo scooter ha percorso quasi 10 mila chilometri, ha convocato riunioni all’aperto, nei giardini pubblici, sotto le tensostrutture. Non si è fermato un attimo. «Il terremoto cambia tutto, anche a livello interiore – racconta –. Si prova paura, impossibile negarlo. Ma dopo pochi secondi ti rendi conto che l’unica via d’uscita è agire, non lasciarsi sopraffare, rimboccarsi le maniche. Questa gente si è messa in gioco, conscia dei rischi, con coraggio. Noi continueremo a sostenerli, perché i miracoli accadono solo se ci si crede».
Ha fatto in tempo Roberto Roversi, poeta e scrittore bo­lognese, morto due mesi fa, a vivere il terremoto. Alla sua terra e alla sua gente ha affidato parole che rappresentano una sorta di testa­mento: «Quello che serve è una visione, larga, del futuro. Che riconosca il passato e quel che è successo. Che ce lo faccia leggere, finalmente, e che lo voglia cam­biare».
 
Giovani di San Carlo (Ferrara)
La crepa «verde»
 
Il 4 giugno, mentre si trovavano nel campo-tenda, si sono guardati con coraggio e hanno deciso di rimboccarsi le maniche. Passata la paura più grande, occorreva fare qualcosa per San Carlo, il loro paese in provincia di Ferrara martoriato dal sisma. Così un gruppo di giovani, prevalentemente tra i 20 e i 30 anni, ha fondato l’associazione «Pro-Civ Arci San Carlo». Lo scopo è quello di raccogliere fondi per la ricostruzione di infrastrutture rovinate. «Abbiamo organizzato eventi sportivi, musicali, teatrali, raccogliendo sino a oggi circa 40 mila euro – spiega il presidente Mattia Campana –. Vorremmo arrivare a quota 50 mila per risistemare il parco urbano, da sempre punto di riferimento per la nostra comunità». L’associazione ha ideato un progetto, seguendo proprio la linea della crepa del terremoto, che ha creato un solco nel parco dividendolo in due parti. «Il tutto sarà arricchito da nuovi arredi e da un chiosco, posto al centro del parco, che fungerà da punto di ritrovo per i cittadini di San Carlo – aggiunge Campana –. Materiale e disegno della recinzione verranno ripresi per la nuova scuola elementare, creando così un elemento di unione tra le due strutture». Al progetto l’Unione europea ha attribuito un premio, consegnato il 19 ottobre. La ricostruzione vera e propria avrà inizio a febbraio 2013.
C.A.
 
Pieve di Cento
La città che ha messo in salvo i suoi tesori
 
«Terremoto dei campanili» è stato definito quello dell’Emilia, che in realtà è stato molto più esteso, tanto da provocare danni anche nella Basilica del Santo, a Padova. Diocesi intere, come quella di Carpi (Modena) sono state messe in ginocchio: qui solo cinque chiese delle quarantanove presenti sul territorio sono «agibili». Qui è morto don Ivan Martini, mentre stava verificando lo stato di alcune opere d’arte della sua chiesa, Santa Caterina d’Alessandria, a Rovereto di Novi.

I campanili, punti di riferimento di tanti piccoli borghi disseminati su una campagna operosa, sono diventati i simboli da cui ripartire: il logo del Festivaletteratura di Mantova di quest’anno era un palloncino che riportava al suo posto il cupolino del campanile della Basilica di Santa Barbara (nel Palazzo Ducale), «ferito» dal sisma.
Anche la Collegiata di Santa Maria Maggiore di Pieve di Cento, in provincia di Bologna, è stata gravemente danneggiata: cupola e lucernario sono crollati con la scossa del 29 maggio. «La gente – dice il parroco don Paolo Rossi (nella foto) – ha pianto quando ha visto crollare la cupola della Collegiata e magari non lo aveva fatto per i danni subiti nelle case. Anche a me è venuto un grosso nodo alla gola e qualche lacrima furtiva».

L’edificio è stato dichiarato inagibile e occorreva mettere al riparo dalle intemperie le pale d’altare dei secoli scorsi. La comunità di Pieve di Cento, una piccola cittadina ricca di storia e di bellezza, ha trovato subito una soluzione permettendo così a opere d’arte che hanno contribuito alla definizione dell’identitità culturale della città, di restare vicine alla loro «casa».
Un’efficace sinergia tra Comune, Parrocchia e Soprintendenza ha consentito, a fine giugno, di collocare nel locale museo Magi ‘900 le preziose opere d’arte della Collegiata: l’Assunzione della Vergine (1600) di Guido Reni, l’Assunzione della Vergine di Lavinia Fontana (1593), l’Annunciazione (1646) del Guercino, la Nascita della Vergine dello Scarsellino... Anche il bellissimo Crocifisso ligneo, ritenuto miracoloso, il 25 giugno è stato portato lì a spalle dai confratelli della Compagnia del Santissimo, con migliaia di persone, commosse, al seguito.

Ora quel Crocifisso, opera di un artista anonimo del XIV-XV secolo, osserva dal fondo la grande sala museale e forse «dialoga» con La deposizione di Aligi Sassu e con gli altri quadri, posti nell’altra metà della sala, dei grandi maestri del Novecento: Vedova, Guidi, Campigli, Modigliani, Severini, De Chirico, Ligabue fino ai piccoli quadri della collezione di Cesare Zavattini. Il Crocifisso sembra dire che i linguaggi dell’arte nei secoli sono diversi ma i capolavori sono capaci di «parlarsi», come ha immaginato Giulio Bargellini, fondatore di questo museo straordinario. Bargellini, imprenditore, mecenate ma soprattutto uomo che sogna un mondo più pacifico e umano e che i sogni sa farli diventare realtà, ha riunito qui eccellenze artistiche e creazioni dei più geniali talenti contemporanei. Egli ha anche messo a disposizione il museo Magi ‘900 per le funzioni religiose, in questi primi freddi e in una fase di transizione verso altre soluzioni. In questi mesi la vita parrocchiale è andata avanti, nonostante il sisma, con dignità e speranza: ci sono state le comunioni il 29 giugno, le cresime il 30 settembre, nel cortile adiacente la canonica, e ora ci si prepara per le Novene di Natale. «La nostra gente – dice don Paolo – ha una grande forza di ripresa». Il terremoto ha portato, secondo alcuni, anche una riscoperta della fede e della consapevolezza di avere un patrimonio artistico, che si è fatto – se possibile – ancora più vicino. «Verremo a riprenderTi per riportarTi in piedi, nella tua stupenda Collegiata rimessa a nuovo, “pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (Ap. 21,2)» ha promesso don Paolo al Crocifisso.
Non si sa ancora quando questo potrà accadere, ma c’è comunque la certezza che Pieve e i suoi tesori torneranno più amabili di prima.
Laura Pisanello
 
Volontariato
Quelle mani che non fanno rumore
 
Il terremoto in Emilia non ha fermato l’organizzazione e la praticità dei volontari, singoli o associati, provenienti da tutta Italia come dalle stesse aree colpite dal sisma. Ne sa qualcosa Stefania Michelini, operatrice del Centro Servizio per il volontariato di Modena nord, che ha vissuto in prima linea la gestione degli aiuti. «Ho visto associazioni con sedi inagibili continuare a fornire sostegno alla popolazione – spiega –. Penso alla Croce Rossa di Finale Emilia, i cui volontari hanno animato i bambini nei campi, o all’Auser di Mirandola che ha continuato il trasporto degli anziani nelle diverse aree della città, oltre a quello dei pasti per conto del Comune. Solo dalla nostra regione sono stati circa 7 mila i volontari, disponibili a qualsiasi servizio: dall’inventariare e distribuire vestiti nei magazzini alla raccolta e smistamento di alimentari, alla gestione completa delle cucine fino all’animazione nei centri estivi».
 
Attenzione alle mamme
«Finale Emilia, il mio paese, è stato l’epicentro del primo sisma – racconta Antonella Diegoli, responsabile regionale del Movimento per la vita e volontaria del Centro Aiuto alla Vita (Cav) del suo comune –, ma due giorni dopo tutti i nostri volontari erano già attivi nei campi e si è subito creata una bella intesa con i capi-campo, che si rivolgevano a noi in caso di necessità. In quanto Cav, all’inizio ci siamo occupati delle mamme, poi, in collaborazione con la Caritas, abbiamo cercato di rispondere alle richieste di ciascuno. È stato attivato un servizio di sostegno alle donne in gravidanza e aperto un punto ginecologico in un ambulatorio privato concesso gratuitamente». Le mamme che ora si avvicinano al Cav sono numerose, molte nuove, non solo le «abituali» frequentatrici. «Dobbiamo riconoscere – conclude Diegoli – che i nostri amministratori sono stati lungimiranti: certi della preparazione, dell’esperienza pratica e della conoscenza del territorio di noi volontari, si sono fidati al 100 per cento».
 
Volontariato gourmet
«La sera precedente la prima scossa, a Mirandola si era conclusa la fiera paesana, per cui in piazza erano ancora allestite le strutture della festa – osserva Tiziano Aleotti, socio dell’associazione culturale Società del Principato di Francia Corta, nata per valorizzare le tradizioni e le feste popolari locali –. La gente vi si è riversata e noi, abituati a organizzare pasti per tante persone, abbiamo cominciato a preparare colazione e pranzo per tutti. Quando poi sono stati allestiti i campi, abbiamo gestito una cucina volante per le persone che vivevano nelle tendopoli spontanee; grazie all’arrivo di aiuti esterni, abbiamo garantito quotidianamente almeno 15-18 volontari, con turni di una settimana. Abbiamo preparato circa 250 pasti tre volte al giorno, aiutati dagli chef della Federazione italiana dei cuochi, giunti da tutta Italia. Essi si alternavano usando i prodotti portati dai volontari, arrivati con le donazioni, raccolti da noi stessi nelle campagne; senza sprecare nulla, ci hanno fatto gustare vere specialità. Ricordo con piacere uno chef di Napoli che ha invitato in cucina i bambini con disabilità di un centro cittadino e con loro ha preparato e cotto la pizza. Il terremoto, nella sua tragicità, ci ha spinti a cambiare la nostra visione della vita, a scoprire amicizie che non sapevamo di avere, ad aprirci maggiormente agli altri e a sentirci “corpo unico”».
Cinzia Agostini
 
La testimonianza di un giornalista
«Non lasciateci soli»
 
Dalla finestra all’ultimo piano di casa mia, a Finale Emilia, vedevo la Torre dei Modenesi e sentivo i rintocchi della campana di San Zenone. Era lì da otto secoli, e un tempo osservava il fiume che le scorreva accanto. L’ho vista anche quella terribile notte del 20 maggio, quando, alle 4.03, la casa ha tremato come una scatola di caramelle scossa da un gigante. Io e mia mamma ci siamo abbracciati nel buio, siamo fuggiti con il cuore in gola e la preghiera nel cuore. E l’ho vista squarciata a metà, la torre: nel fumo e nella polvere ho scorto il suo orologio spezzato, ho sentito che il tempo non sarebbe stato più lo stesso.
Sono quasi sei mesi. La casa, che era stata del nonno e dello zio, gente schietta di ferramenta, è in piedi ma malconcia: in più di un secolo aveva resistito a due guerre, ma è stata vinta dal mostro. Non abbiamo ancora potuto tornare nelle nostre stanze.
L’orizzonte che conoscevo non c’è più, la torre si è sbriciolata come il mastio del castello estense: le chiese, bellissime, sono devastate, il viale è un universo di container. 

Puntelli e impalcature avvolgono molti edifici: qualcuno ha già iniziato i lavori, non ha aspettato di sapere se e quando vedrà qualche soldo dallo Stato, ma qualcun altro non sa se riuscirà a sostenere gli impegni economici della ricostruzione. Al massimo verrà rimborsato l’80 per cento dei danni e i risarcimenti, si teme, saranno limitati. «Tanto gli emiliani si rimboccano le maniche», dicono. È vero ma (dopo la grande solidarietà di questi mesi) non deve diventare un alibi. Il contributo di 100 euro al mese per chi si era trovato una sistemazione autonoma è stato promesso tre giorni dopo il terremoto ma a settembre non si era ancora visto. Già in giugno abbiamo pagato le bollette, anche se una norma le avrebbe sospese: la società acqua e gas ci ha fatto sapere che le addebitava «per non creare disagio». Pagheremo le tasse: non hanno concesso una proroga ma la possibilità... di chiedere un prestito. E andremo avanti a compilare carte su carte. Continueremo comunque a rimboccarci le maniche, come hanno fatto i ragazzi che sotto un sole impietoso hanno raccolto tutte le pietre dell’antica torre, pronte a essere usate per ricostruire (speriamo presto) un incredibile puzzle. Anche in questo c’è l’orgoglio di un «mondo piccolo» alla Guareschi che vuole essere più grande e più forte che mai. Ma non vuol essere lasciato solo.
Stefano Marchetti
 
Il racconto di una scrittrice
«Caro Ettore, nato il 30 maggio»
 
Qui dove è cresciuta la tua mamma non ci sono salite né discese, non ci sono montagne, non ci sono sorgenti, caprioli, forre, burroni, non ci sono castagni e non ci sono alberelli di rosa canina con le bacche tutte rosse, la terra è piatta come un foglio di carta, come la pagina di un libro o di un quaderno e ci puoi scrivere sopra con i piedi,

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017