Se lo spreco diventa risorsa

Tonnellate di prodotti alimentari ancora buoni vengono buttati come rifiuti, mentre ormai anche in Italia sono tanti gli indigenti che non riescono ad assicurarsi un pasto dignitoso.
25 Settembre 2006 | di

Lo diceva madre Teresa di Calcutta: «Ciò che mi scandalizza non è che esistano poveri e ricchi, ma che esista lo spreco». Eppure, proprio lo spreco, categoria delle società opulente, vera spina nel fianco della modernità, può diventare una risorsa inattesa. Ce lo dimostrano due iniziative efficacissime, che con i prodotti invenduti e le eccedenze alimentari sfamano ogni giorno migliaia di persone. Si tratta del «Last minute market» e della «Fondazione Banco Alimentare». La prima, più recente, è emanazione della società civile ed è strettamente ancorata al territorio e agli enti locali. La seconda, capostipite nel recupero delle eccedenze alimentari, è più strutturata e diramata nel territorio nazionale e ha le sue radici nella Chiesa.


Last minute market
Il rito è collaudato. Almeno una volta alla settimana, infiliamo nell’apposito spazio la nostra ultima moneta da 500 lire, conservata all’uopo e, impugnato il carrello, seguiamo la scia dei «consumatori» fino alle porte scorrevoli dell’iper-mercato. E via per la spesa. La mano dribbla tra i panetti di crescenza e i tetrapak del latte, in cerca della confezione con la data di scadenza più lontana; è la volta delle merendine: il primo pacco è un po’ stropicciato, meglio quello che sta dietro, fresco di fabbricazione. Chi mai si sognerebbe di comprare uno yogurt che scade fra cinque giorni, dei fagiolini dall’aspetto un po’ spento o una lattina di pelati ammaccata? Ma c’è il rovescio della medaglia: che fine fa tutta quella merce ancora buona e perfettamente commestibile che, per qualche ragione, non viene venduta? Se l’è domandato, non senza inquietudine, il professor Andrea Segrè, preside della facoltà di Agraria di Bologna, allorché, nel 1998, un suo ex allievo lo ha portato nel retro del supermercato per il quale lavorava, lì dove si gettavano i rifiuti. «Arance ancora ottime giacevano sugli yogurt in scadenza – ricorda Segrè –; della lattuga con qualche foglia scura era sepolta da confezioni rovinate di alimenti intatti». Una cuccagna, destinata ai termovalorizzatori. Possibile che non ci fosse modo di trasformare questo spreco in una risorsa? Per rispon-dere alla domanda ci sono voluti mesi di osservazione e le tesi di laurea di alcuni giovani «sognatori». Da queste premesse nasceva il «Last minute market», letteralmente «merca-to dell’ultimo minuto», un sistema che permette alla merce invenduta di finire sulle tavole di associazioni benefiche: dalle Caritas alle mense dei poveri, dalle case famiglia agli istituti per persone svantaggiate.
L’iniziativa, molto concreta, ha in realtà un’organizzazione del tutto immateriale. Non ci sono magazzini né celle frigorifero né furgoni per il trasporto. Le associazioni vanno direttamente all’iper-mercato a prelevare i prodotti. Non c’è neppure una sede ufficiale del progetto, né sedi distaccate in altre regioni. Al centro di tutto c’è la cooperativa «Carpe Cibum» (prendi il cibo!), costituita proprio da quei giovani laureandi all’origine del progetto. Sono loro che, su richiesta di una delle parti in causa, in genere un ente locale, riuniscono intorno a un tavolo tutte le realtà interessate, gli stakeholder, come si dice in gergo (imprese di distribuzione, Usl, altri uffici pubblici competenti, enti di smaltimento rifiuti, associazioni no profit, ecc.), offrono il pacchetto di conoscenze e relazioni già collaudato, avviano il progetto, superano gli scogli burocratici e fiscali.
Oggi il «Last minute market» è presente in tredici città, dall’Emilia Romagna alla Sicilia, dal Veneto alla Sardegna. È un progetto sul territorio, che, una volta avviato, vive di vita propria e si adatta alle esigenze locali. Da ogni supermercato di dimensioni medio-grandi (10 mila metri quadri) coinvolto, si ricavano 170 tonnellate di prodotto all’an-no, sufficienti ad as-sistere giornalmente, dalla colazione alla cena, circa 300-350 persone.
Sulla carta l’idea è semplice, ma all’inizio è stato difficilissimo applicarla. «Si trattava di incrociare una “non offerta” (l’invenduto viene gettato) con una “non domanda” (gli indigenti non si sognano neppure di chiedere perché non hanno peso contrattuale), e di creare un circolo virtuoso di relazioni. Ma, si sa, i sistemi funzionano solo se tutte le parti in causa trovano convenienza». Ed ecco le diatribe con le Usl, che faticavano a considerare ancora commestibile ciò che era ormai bollato come rifiuto, e che erano rigidissime sulle regole igienico-sanitarie, o quelle per ottenere il recupero dell’Iva sui prodotti donati o gli sconti sulla tassa dei rifiuti. Pian piano ogni tessera tornava al suo posto: «La diffidenza degli ipermercati – racconta Segrè – si è sciolta progressivamente quando le aziende hanno potuto constatare che non solo ci potevano essere dei risparmi, ma anche che l’applicazione del progetto permetteva loro di oliare la macchina organizzativa e diminuire la quota d’invenduto. Ciò che, però, ha fatto la differenza è stato il ritorno d’immagine».
Il processo di affinamento dell’iniziativa è ancora in corso. «Ci piacerebbe poter recuperare anche i prodotti invenduti non alimentari – afferma Segrè –. Ma per ora su questi le aziende non possono recuperare l’Iva». Su burocrazia, difficoltà legislative e fiscali, sta pian piano avendo la meglio il vantaggio sociale: gente disagiata ha i pasti assicurati, si nutre meglio, si ammala di meno. E, cosa da non trascurare, i rifiuti diminuiscono considerevolmente.
Le associazioni, dal canto loro, non solo ricevono la spesa a costo zero ma possono reinvestire per la comunità quanto risparmiato. E così oggi la cooperativa di Verona «La genovesa», che accoglie giovani con dipendenze da alcol e droga, riesce a seguire un terzo di ragazzi in più; l’associazione del bolognese «Arca Arcobaleno» per bambini con problemi psichici, riesce a portare in vacanza i suoi piccoli; la «Consulta del volontariato» di Bologna ha invece deciso di adottare due bambini a distanza.
L’iniziativa ora si sta diffondendo ai piccoli dettaglianti. Ferrara è la prima città che ha creato una rete di raccolta citta-dina. Un’esperienza particolarissima, che ci resti-tuisce il concetto di città so-lidale di un tempo. Segrè ce ne fa un esempio. In centro c’è la famosa pasticceria Orsatti, «gemellata» con la mensa dei poveri dell’associazione «Viale K». A volte è proprio l’animatore di questa mensa, don Domenico Bedin, che fa il giro per raccogliere gli alimenti e per ultimo si ferma da Orsatti. «Non va dietro le quinte, ma dritto alla cassa, prende i suoi due o tre cabaret di paste, e quando arriva in mensa è una festa. Apre i pacchi, assaggia di gusto – la sua “forma” generosa lo dimostra – e, l’ambiente, per la verità non dei più allegri, si rianima». La solidarietà, qui, «profuma di buono».

Fondazione Banco Alimentare onlus

La «parolina magica» è sempre la stessa: spreco. Anche la Fondazione «Banco Alimentare» onlus (www.bancoalimentare.it tel. 02 67100410), come il «Last minute market», nasce infatti dal desiderio di trasformare lo spreco, eticamente inaccettabile, in risorsa. Lo spreco in questione, però, è creato soprattutto dalle aziende agroalimentari che si vedono costrette da un’intricata selva di norme legislative a eliminare prodotti prima di distribuirli ai supermercati solo perché l’etichetta è illeggibile, la confezione un po’ deteriorata o la data di scadenza troppo ravvicinata. Sono oltre un milione e duecentomila le persone che ogni giorno mangiano grazie all’opera del «Banco Alimentare», il quale porta sulle loro tavole ciò che la filiera agroalimentare elimina. Cinquantatremila tonnellate di alimenti destinati al macero (solo nel 2005) che, se non fosse per un manipolo di persone (circa un migliaio di volontari e una cinquantina di dipendenti), finirebbero davvero in discarica invece che sui piatti di oltre 7 mila 700 associazioni le quali, anche grazie a questo aiuto, riescono a tirare avanti.
La Fondazione «Banco Alimentare» onlus è nata nel 1989 in Italia per l’intuizione di Danilo Fossati, allora presidente della Star, e di don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione. «L’esperienza italiana si è ispirata anche a quella americana – spiega don Mauro Inzoli, presidente della Fondazione “Banco Alimentare” – avviata alla fine degli anni Sessanta a Phoenix (Arizona) da John Van Hengel, con il nome di “St. Mary’s Food Bank”. Ma l’idea concreta del Banco è venuta al cavalier Fossati dopo aver visto un’analoga iniziativa in Spagna».
Il «Banco alimentare» è diffuso oggi su tutto il territorio nazionale: 20 sedi regionali (due in Piemonte e in Sicilia), oltre 400 imprese coinvolte. Fino a qualche anno fa lavorava solo con le aziende del settore agroalimentare (e questo inizialmente lo differenziava dal «Last minute market», oltre al fatto di avere magazzini di stoccaggio della merce e una chiara matrice cattolica), ma da qualche anno ha esteso la sua opera anche alla media e grande distribuzione.
Ma com’è organizzata una giornata tipo in uno dei magazzini della rete? «Tutti i giorni, al mattino presto, si va presso la catena della grande distribuzione a ritirare i prodotti freschi – spiega Marco Lucchini, direttore del “Banco Alimentare” –. Più tardi, si preparano i pacchi con i prodotti per le associazioni, mentre altri volontari vanno, con auto o furgoni, a ritirare nelle aziende il cibo. Allo stesso tempo c’è chi si occupa di mantenere i contatti con le imprese; chi segue la contabilità, sia di magazzino che amministrativa; chi mantiene i rapporti con l’Unione europea per riuscire a recuperare anche le sue eccedenze alimentari. Poi, nel pomeriggio, i lavori proseguono con le consegne alle associazioni».
Momento clou dell’intera attività del Banco è la «Giornata nazionale della colletta alimentare», che, da dieci anni, si tiene ogni ultimo sabato di novembre (quest’anno sarà il giorno 25). Si tratta di un’iniziativa capillare che coinvolge i principali supermercati italiani, dove i consumatori stessi acquistano alimenti per il Banco e li consegnano direttamente ai volontari (oltre 100 mila) impegnati nella raccolta.
Tutto questo non esisterebbe se l’esperienza non si fondasse su solide radici. «L’esperienza del “Banco” si basa su due capisaldi – confida don Mauro Inzoli –. Il primo è essenzialmente educativo, legato al clima e ai valori che si respirano sin da piccoli, in famiglia. Don Giussa-ni, infatti, ripeteva sempre che sua madre lo faceva pregare ogni giorno per chi non aveva da mangiare, e quando Fossati gli confidò la sua intenzione di creare quest’opera di carità lui rispose: “Io nei tuoi occhi vedo la carità di mia madre”. Il secondo sta invece in un’esperienza profonda di fede: un’opera di carità per sua natura porta sempre a un rapporto più profondo con l’origine di tutto, con la persona stessa di Cristo. Non è possibile guardare un uomo, immedesimarsi nel suo bisogno, servirlo e non arrivare a condividere con lui il bisogno estremo: quello di salvezza».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017