Risorsa welfare

La famiglia non riesce più a sostenere da sola l’assistenza agli anziani, ai bambini e ai disabili, neppure facendo ricorso a colf e badanti immigrate. Oggi l’Italia rischia di rimanere senza reti di assistenza.
26 Settembre 2013 | di

Maria, 56 anni, è un’insegnante di un paesino del Sud. Un marito con lavori precari, due figli che ancora studiano e una casa piccola e piena di scale. Una vita decorosa, senza molti lussi. Poi la mamma si ammala di Parkinson – un decorso più rapido del previsto – e Maria è costretta a trasferirla nel suo appartamento: «Ho preparato un letto di fortuna nel soggiorno, perché era al pianoterra e vicino all’unico bagno di casa. Poi, vedendo che non riuscivo da sola a gestire la situazione, tramite conoscenze, ho trovato una signora romena. Cinquecento euro al mese in nero, per noi un vero salasso, ma non volevo rinchiudere mia madre in un ospizio. Ora che è morta, ho il rammarico di non aver fatto abbastanza; la vita in quel periodo è stata difficile per tutti, se non avessi avuto l’aiuto di Irina non ce l’avrei fatta».

Dietro ognuna delle nostre «colf» e «badanti» c’è una storia che ci riguarda. Una storia che rimane nell’ombra. Che ci dice come il welfare alla persona in Italia – quello, cioè, dei servizi ai bambini, agli anziani, ai disabili e, più in generale, ai nuclei familiari – sia ancora, appunto, solo un «affare di famiglia». Sì, perché lo Stato su questo tema è sempre stato assente e attualmente latita in modo ancor più colpevole, poiché sa che una nube minacciosa sta per abbattersi proprio sugli italiani più deboli.

La «nube» in questione è il rischio concreto di rimanere in pochi anni senza reti di assistenza, soprattutto per le persone non autosufficienti, anziani in prima fila. Complici l’allungamento dell’età media e il progressivo invecchiamento della popolazione. Non è un semplice timore, ma un rischio prevedibile, visto che nuovi strumenti di ricerca sono oggi in grado di dirci con un buon livello di precisione quanto minacciosa sia questa «nube» o – volendo vedere il bicchiere mezzo pieno – di rivelarci che cosa bisognerebbe fare per scongiurarla. Il boom di richieste di servizi alla persona non sta investendo solo l’Italia ma è un fenomeno europeo. Il vero problema è che mentre alcuni Paesi lo hanno affrontato e anzi trasformato in un’occasione di crescita sociale ed economica, altri, tra i quali l’Italia purtroppo, sono rimasti a guardare, e lo hanno lasciato nel limbo dell’iniziativa fai da te. E ora il tempo stringe.
 
I perché della crisi
«Fino a oggi – spiega Natale Forlani, direttore generale dell’immigrazione e delle politiche di integrazione del ministero del Lavoro e delle politiche sociali – la famiglia è stata in grado di reggere alle carenze dei servizi pubblici di welfare grazie all’impegno di familiari (soprattutto donne, che rinunciavano in tutto o in parte al lavoro fuori casa) e al mercato sommerso dei collaboratori immigrati. Oggi la situazione sta rapidamente degenerando a causa della crisi ma anche di alcuni cambiamenti sociali e legislativi». Il primo di questi cambiamenti è il progressivo sbriciolamento delle reti familiari, alla base del welfare attuale: «Per diversi motivi – continua Forlani –, le nuove famiglie sono costrette a vivere lontane dal nucleo d’origine e a non poter più contare sull’appoggio dei familiari». A questa tendenza si aggiungono le ricadute delle ultime riforme pensionistiche: «Nei prossimi cinque anni, l’allungamento dell’età pensionabile sottrarrà alle famiglie l’aiuto di circa 600 mila “nonni”».

La crisi del welfare familiare inizia a delinearsi anche dal punto di vista della disponibilità, finora considerata sicura, di lavoratori immigrati nel settore: «Per la prima volta – spiega Forlani – stiamo registrando un rallentamento dei flussi migratori, che fino a oggi alimentavano il mercato dei servizi alla persona, proprio in anni in cui invece comincia a impennarsi la domanda». Insomma, la necessità sarà sempre più grande, mentre la capacità di risposta, soprattutto da parte delle famiglie, sarà sempre più debole. La situazione è di emergenza, eppure poco se ne parla. Al contrario, ciò che più si sente in questi tempi di crisi è che il welfare è un lusso che non possiamo più permetterci, mentre la scure dei tagli continua a colpire il poco che c’è. Quasi nessuno sa che i Paesi che hanno «investito in welfare», come Francia, Belgio, Germania, oggi cominciano a raccoglierne i frutti in termini sociali, certo, ma anche economici e occupazionali. Secondo quanto riporta la rete Cresce il Welfare, cresce l’Italia, promossa dalle quaranta associazioni sociali più rappresentative del Paese, nell’Europa a 15, tra il 2008 e il 2012, cioè negli anni della crisi, mentre il settore manifatturiero perdeva 3 milioni e 123 mila unità, il settore dei servizi alla persona ne guadagnava 1 milione e 623 mila, registrando un più 7,8 per cento, impensabile in tempi di magra. Può l’Italia colmare il vuoto prima che sia troppo tardi?
 
Radiografia del welfare fai da te
Il più recente strumento che fotografa emergenze e potenzialità dei servizi alla persona in Italia è una ricerca, elaborata dalla fondazione Ismu e dal Censis per conto del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali. Essa rileva che circa una famiglia su dieci si avvale di un collaboratore domestico e che in questi ultimi anni una consistente parte del mercato del lavoro, nonostante l’immobilismo della politica, si è spostato in questo settore. Il primo motivo che spinge le famiglie a cercare un aiuto è la presenza tra i suoi membri di una persona anziana. I costi di tale welfare informale sono quasi interamente sulle spalle delle famiglie, che per esso sborsano una media di 667 euro al mese, equivalente più o meno al 30 per cento del reddito. Un onere reso sempre più proibitivo dalla crisi, tanto che la maggioranza, vale a dire il 56,4 per cento dei nuclei, afferma che non riesce più a farvi fronte e già oggi è costretta a drastici tagli su altre spese o a intaccare i risparmi. Eppure, l’84,4 per cento delle famiglie dichiara di non poter fare a meno di questo aiuto e il 44,4 per cento afferma che nel futuro avrà bisogno di incrementare il numero di collaboratori o di ore di servizio.

Quello che sembra un cumulo di brutte notizie ha però in sé anche un grande potenziale, il bicchiere mezzo pieno di cui si parlava prima. «Il mercato dell’assistenza, così com’è, quindi con tutte le sue lacune, già oggi vale 20 miliardi di euro – afferma Giuseppe Roma, direttore generale del Censis –; bisogna cercare di farlo diventare un modello economico perché è un pezzo importante di economia, un serbatoio di posti di lavoro e un grande sollievo per le famiglie». A tutt’oggi, però, il mercato dei servizi alla persona è per lo più relegato alla sfera dell’informalità, disorganizzato, poco efficiente.

Le famiglie, che faticano a cercare il collaboratore perché mancano sportelli d’informazione, si affidano alla rete delle conoscenze, trascurando per forza di cose le competenze e la qualità del servizio. I collaboratori sono in netta maggioranza donne, hanno un’età compresa tra i 36 e i 50 anni e sono, nel 77,3 per cento dei casi, di origine immigrata, soprattutto provenienti dai Paesi dell’Est Europa. Il loro ruolo sociale è importantissimo: «Il 60 per cento – continua Roma – assiste persone con necessità di cura, il 51 per cento persone che vivono sole». Molto ampia l’area del lavoro nero (27,7 per cento) e grigio (37,8 per cento), anche se i rapporti tra famiglie e lavoratori sono molto buoni e spesso addirittura parentali. Poco professionalizzato, tutelato e organizzato, il settore dei servizi alla persona ha sempre attratto poco gli italiani, «ma in realtà è un bacino molto ampio che richiederebbe figure specializzate e qualificate, come succede in altri Paesi» spiega Roma.
 
Un’occasione perduta?
L’Italia paga lo scotto di averlo sempre considerato «un lavoro da immigrati», di non aver mai puntato sulla professionalizzazione di questi lavoratori e soprattutto di aver sempre eluso la riforma del sistema per paura dei costi e di qualche scelta impopolare che all’inizio la riforma avrebbe potuto richiedere.

La scarsa lungimiranza della politica è sottolineata anche da un articolo apparso nel maggio scorso su «La voce.info» e che significativamente s’intitola Un welfare che non sa scegliere. Analizzando le modalità di spesa di alcuni sistemi europei, gli autori rilevavano che l’Italia spende molto meno degli altri Paesi per il welfare, e la somma stanziata va in maggioranza a pensioni e solo in minima parte alle politiche familiari e ai servizi alla persona. E se si prende come metro il welfare per gli anziani, si rileva che l’Italia non investe in servizi come altri Paesi dal welfare più evoluto, ma in benefit monetari, come l’indennità di accompagnamento. Insomma, un po’ di soldi a tutti e poi ognuno per sé, senza potersi comunque concedere l’accesso a servizi adeguati.

«In una situazione di crisi come questa – afferma invece Roma – investire nel welfare è come restituire mille Imu».
I Paesi che l’hanno fatto oggi ne traggono vantaggi inequivocabili: la Francia, per esempio, ha puntato proprio sulla crescita di domanda di servizi, che veniva dal basso, e ha creato strumenti per permettere alle famiglie di accedervi con sgravi contributivi, voucher, titoli d’acquisto. Risultato? Nel 2011 le famiglie che hanno usufruito dei servizi di cura sono state 3,4 milioni, il 13 per cento del totale, l’8 per cento in più rispetto al 2005; tra le ricadute si è registrata una significativa emersione dal lavoro nero e un notevole incremento dell’occupazione che ha portato a 1,8 milioni i lavoratori salariati in questo settore.
 
Un nuovo sistema per l’Italia
Su questa falsa riga dovrebbe muoversi anche l’Italia. Per Paolo Reboani, presidente di Italia Lavoro, l’agenzia tecnica del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, la prima sfida è legare le politiche di welfare a quelle dell’occupazione, progettando cioè un sistema che offra servizi alla persona di qualità ma alla portata delle famiglie. Proprio Italia Lavoro sta conducendo una sperimentazione in quattro regioni del Sud Italia per cercare di promuovere, attraverso le agenzie di intermediazione aderenti al progetto, la qualificazione professionale dei lavoratori e iniziare a costruire reti di servizi sul territorio.

Un’analoga sperimentazione è iniziata anche in tredici regioni del Centro Nord, sempre a opera del Ministero, grazie a finanziamenti messi a disposizione dalle Regioni e ad accordi di programma. Il sistema ideale, almeno stando alle esperienze di punta europee, dovrebbe per esempio incaricarsi di creare sportelli per l’incontro di domanda e offerta; sostituirsi alla famiglia come gestore del contratto di lavoro, sbrigando tutta la burocrazia e assicurando la continuità del servizio; preoc­cuparsi della formazione professionale dei collaboratori, gestire gli eventuali sussidi alle famiglie, decisi dagli enti pubblici. «La strada delle detrazioni potrebbe essere tra le più promettenti – aggiunge Reboani – e farebbe riemergere molto lavoro nero».

E mentre si aspetta il futuro che verrà, qualche avvisaglia di evoluzione è già presente nel mercato dei servizi alla persona nel nostro Pae­se. «Ma non viene dai lavoratori italiani – avverte il direttore del Censis –, bensì dagli stranieri, i primi a fare di questo lavoro una professione. C’è un gruppo minoritario, ma consistente, di lavoratori immigrati, molto più qualificato, legato ad agenzie intermediarie, che ha curato la propria professionalità e lavora con contratti in regola. Sono una piccola avanguardia di quello che potrebbe essere il lavoro in questo settore».

L’attuale modello di previsione, elaborato dalla ricerca Ismu Censis, permetterebbe già oggi di quantificare la domanda di servizi per i prossimi anni anche rispetto all’andamento dei flussi migratori e addirittura di diversificarla per regione. Come dire che ci sono ormai tutti gli elementi per mettere insieme il motore di un nuovo welfare per l’Italia, ma le chiavi le ha in mano la politica. Che è ora di fronte a un bivio: da un lato c’è un futuro che potrebbe valere, secondo le previsioni, 500 mila nuovi posti di lavoro in vent’anni, dall’altro c’è la scelta di attendere ancora, rischiando di venire travolti dagli eventi.     
 

I numeri
1 su 10 le famiglie che hanno un aiuto in casa

80% recluta il collaboratore attraverso conoscenze

27,7% lo paga in nero

37,8% il lavoro grigio, in parte, cioè, in regola

34% delle famiglie chiede di essere aiutata nella regolarizzazione

667 gli euro spesi in media per famiglia

30% del reddito familiare è in media impiegato per pagare il servizio

56,4% dei nuclei fatica a sostenere le spese

84,4% dichiara di averne assoluto bisogno

25% le famiglie con una persona da assistere in cui c’è una giovane donna che ha rinunciato al lavoro

500.000 i nuovi posti di lavoro nel settore, stimati per il 2030
 
 

Maria Cecilia Guerra, viceministro welfare
Miopia politica e piccoli passi

 
Msa. L’Italia, ritenuta il Paese della famiglia, è rimasta al palo sui temi della cura e dell’armonizzazione tra tempi di vita e di lavoro. Cosa che non è avvenuta in Paesi ben più «laici». Come se lo spiega?
Guerra. Credo che il nostro Paese abbia spesso evocato la famiglia, lasciando però sulle sue spalle tutto il peso della cura, non considerando che è proprio la cura delle persone a cui vogliamo bene il nodo cruciale della vita di tutti noi. Di conseguenza, sono stati fatti degli errori. Il primo è l’aver puntato solo sui trasferimenti monetari e non sulla costruzione di servizi, incentivando il fai da te assistenziale.

Questo welfare, però, non è solo aiuto alle famiglie, ma un pezzo di economia e un serbatoio di posti di lavoro. Come può un Paese come il nostro, che ha una disoccupazione giovanile e femminile alle stelle, ignorare un mercato in cui la domanda è in costante crescita?
Questo punto è importantissimo. Credo che ci sia una difficoltà culturale in Italia a considerare il welfare come un investimento sia per la qualità di vita delle persone che per la crescita economica. Ciò è ancora più grave perché la ripresa che ci si profila davanti rischia di essere una ripresa senza lavoro, perché trainata da settori a bassa intensità di manodopera. Eppure, se si proponesse oggi alla classe politica una misura di welfare come stimolo all’occupazione, una buona parte dei suoi esponenti risponderebbe che i posti di lavoro si creano soprattutto con il sostegno alle imprese, con la cassa integrazione, ecc… Non voglio con questo mettere in concorrenza gli obiettivi, che sono tutti importanti, ma c’è anche una questione culturale di fondo. C’è poi un problema economico, perché le politiche di welfare hanno dei grossi costi iniziali e noi siamo in una fase di forti vincoli di bilancio. Scarsa convinzione e scarsi soldi non giocano a favore, e ottenere un consenso su questi temi in un governo di coalizione è ancora più difficile.

Se l’occupazione non è uno stimolo sufficiente, rimane sul tappeto il problema che le famiglie non ce la fanno più, che la nostra popolazione sta invecchiando e che a breve rischiamo uno shock dell’assistenza. Chi pagherà il conto?
È una battaglia che io condivido. Questi temi, però, sono per ora maturi solo nella società civile, nel volontariato e, in genere, nelle persone che operano nel terzo settore, a cui lo Stato troppe volte ha delegato le sue responsabilità in materia di cura e assistenza. Tuttavia, nel programma del governo ci sono segni di inversione di tendenza. Il primo è l’attenzione a riaffrontare il tema dell’integrazione tra filiera sociale e filiera sanitaria, per promuovere, per esempio, la cura a domicilio delle persone anziane non autosufficienti e fare meno ricorso all’intervento residenziale e al ricovero ospedaliero. L’altra attenzione è, appunto, sulla costruzione di servizi per l’infanzia, per i disabili, per gli anziani.

Attenzione però, mi permetta, non significa provvedimenti in via di realizzazione.
Mi piacerebbe poterle dire che ho fondi significativi da investire nel welfare, ma non è così. Per ora ci siamo concentrati concretamente su due fronti: il primo è l’intervento urgente sulla povertà, che non è solo trasferimento di denaro alle famiglie povere, ma costruzione di servizi territoriali, per esempio insieme alle Usl o alle scuole, per un’inclusione attiva di queste famiglie. Il secondo intervento riguarda la possibilità di consolidare il finanziamento dei fondi sociali, cioè il Fondo nazionale politiche sociali e il Fondo per la non autosufficienza che, dopo anni di azzeramento, sono stati rifinanziati per il 2013. Non è una cosa da poco, perché attraverso tali fondi lo Stato centrale può aiutare le Regioni, che hanno la competenza sulle politiche sociali, a consolidare obiettivi di servizio secondo una direzione che abbiamo delineato e che, se portata avanti anche dai governi successivi, a piccoli passi, potrà portare alla costruzione di quelli che noi chiamiamo «livelli essenziali delle prestazioni», che dovranno essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Un impegno che richiederà anni.
 

Esperienze - Belgio
Se lo Stato ti dà la colf
 
Che cosa significa in concreto creare un sistema integrato di servizi alla persona? Giusto chiederlo a chi ha le mani in pasta, come Jan Vanthuyne, direttore generale per l’Occupazione e il mercato del lavoro del Belgio, incontrato nel maggio scorso a Roma in occasione del convegno «Servizi alla persona e occupazione nel welfare che cambia».

L’esperienza belga si limita ai collaboratori domestici, ma è comunque rivelatrice. È iniziata nel 2003-’4, spinta dalla crescente domanda delle famiglie. «Prima del 2003 – spiega Vanthuyne – i lavori domestici erano appannaggio del mercato nero, perché in regola costavano troppo. Così, come primo provvedimento, abbiamo creato un sistema che adottasse prezzi simili al lavoro nero e poi abbiamo attuato una sorta di sanatoria, spiegando alle famiglie che mettere in regola le colf rivolgendosi al servizio pubblico non avrebbe comportato alcun aggravio». Allo stesso tempo sono stati applicati a tutti i lavoratori un contratto collettivo e salari fissi. Al nuovo servizio possono oggi accedere famiglie o altri tipi di utenti, i lavoratori che offrono il loro servizio e le aziende intermediarie. Queste ultime possono essere pubbliche o private, ma devono comunque essere certificate. I lavoratori possono sbrigare tutte le incombenze domestiche, incluso cucinare e fare qualche lavoro esterno come la spesa o l’accompagnamento di persone che hanno difficoltà a muoversi. Ma come funziona il servizio? «Un lavoratore può lavorare per più utenti, per esempio per un’azienda e per le famiglie A, B e C. Le famiglie richiedenti il servizio entrano in contatto con un sistema di capitolato che elenca tutti i servizi possibili attraverso un’azienda specializzata e comprano i voucher che costano 8,50 euro all’ora, con i quali pagano i lavoratori». 8,50 euro in chiaro e senza altri oneri sarebbe un prezzo competitivo anche in Italia. Com’è possibile? «Le imprese che gestiscono i lavoratori in realtà ricevono 22,04 euro all’ora, di cui le famiglie pagano 8,50 euro (al netto sono 5,95 euro all’ora), mentre lo Stato versa i 13,54 euro mancanti». A questo punto ai più scettici scapperà un sorriso.

Come rendere sostenibile un sistema così? I costi sono certamente elevati, ma nelle politiche sociali devono essere rapportati ai benefici: «Il sistema costa al Belgio 1 miliardo e 655 milioni di euro. 655 milioni ritornano nelle casse dello Stato sotto forma di tasse e risparmi. Ci sono poi altri ritorni, stimabili ma non direttamente calcolabili, che ridurrebbero il costo del sistema ad appena il 30 per cento della spesa totale». Ma soprattutto ci sono i benefici sociali: «Oggi un belga ogni dieci può avvalersi di questo servizio, gli utenti sono passati dai circa 98.800 del 2004 ai quasi 835 mila del 2011 e ciò ha aiutato le famiglie ad armonizzare i tempi di vita e di lavoro. Il sistema ha creato 150 mila posti di lavoro in sette anni, nel pieno della crisi e spesso proprio a favore delle categorie più svantaggiate. Oggi il 70 per cento dei lavoratori è belga e sono molti quelli che fanno di questo lavoro una professione. Il 26 per cento degli utenti ha più di 65 anni e, grazie a questi servizi, può evitare o rimandare il trasferimento in una struttura per anziani».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017