Ripartire dal primo annuncio

Come dire oggi la «buona notizia» del Vangelo? La sfida si ripropone in ogni epoca, sempre più decisiva.
23 Gennaio 2008 | di

La situazione del cristianesimo non è rosea. Nel documento La Chiesa in Europa, del 2003, Giovanni Paolo II richiamava la necessità, per la situazione attuale del nostro Continente, di un primo annuncio del Vangelo. Tale prospettiva era motivata dall’accrescersi del numero delle persone non battezzate, dalla presenza sempre più massiccia di immigrati di altre religioni, ma soprattutto dal consolidarsi di un’indifferenza generalizzata e tranquilla, cioè senza inquietudini di sorta. Dunque, accanto alla catechesi, che è un percorso interno alla Chiesa per «apprendere e vivere» la dottrina cristiana, veniva a collocarsi e quasi a imporsi la figura – non nuova, ma certo non abituale nei Paesi di antica cristianità – di un annuncio di prima evangelizzazione. Ma che cosa si intende dicendo «prima evangelizzazione»? Precisamente viene evocata una forma di annuncio originaria, che ha cioè la precedenza sulle altre, poiché è protesa essenzialmente a suscitare la fede, a «trafiggere il cuore» (Atti 2,37) provocando così la vita a conversione. Non è quindi in causa l’accompagnamento della fede, un suo specifico approfondimento, quanto piuttosto il suscitamento o quantomeno il risveglio della stessa.


A ben considerare, l’ateismo ideologico – quello di chi si sentiva in dovere di motivare il perché del proprio non-credere – è fenomeno d’altri tempi. Qualche rigurgito in questo senso c’è ancora, ma si tratta per lo più di una ripresa di vecchie argomentazioni contro il cristianesimo. Riverniciate, a volte in maniera dilettantesca, queste vengono rivendute come scintillanti novità sul libero mercato di una cultura dalla memoria corta. Più problematico risulta essere il fenomeno sopra accennato dell’indifferenza religiosa, difficilmente intercettabile attraverso ragionamenti o confronti mirati. L’indifferente dal punto di vista religioso vive bene nella sua nicchia e vuole essere lasciato in pace; egli è in-differente perché le varie posizioni religiose non fanno per lui differenza alcuna. Tutte sono legittime, nel recinto della sfera privata, e comunque nessuna di esse è vera e merita qualche attenzione. La situazione più difficile da recuperare, però, è quella dei non-più-cristiani, di coloro cioè che hanno prima allentato e poi interrotto il proprio legame con il cristianesimo come evento della fede all’interno di una comunità credente. È anche vero che questi spesso non hanno conosciuto un volto credibile di Chiesa; sono lontani perché un po’ si sentono anche «allontanati»; o hanno da smaltire qualche diffidenza. La loro distanza dalla Chiesa non è molta, ma di fatto non facilmente colmabile. C’è tanto da ascoltare!


Ricolleghiamoci ora al nostro discorso sul primo annuncio. È necessario ritornare al cuore del Vangelo: «Gesù Cristo, crocifisso e risorto, è il Signore e l’unico salvatore del mondo». Si tratta di una verità da ricomprendere sempre più in profondità e da ritradurre nei codici comunicativi della cultura d’oggi. L’annuncio sarà compito, poi, di tutta la comunità, senza privilegi ma anche senza deleghe, poiché per comunicare il Vangelo nelle situazioni ordinarie della vita non si richiedono competenze speciali: è sufficiente (e comunque non è cosa da poco!) credere e non vergognarsi del Vangelo. I tempi, i contenuti e i modi dell’annuncio, infine, andranno studiati con attenzione, a partire dall’interazione tra annunciatore e destinatario, quest’ultimo da accogliere sempre come persona amata e cercata da Dio. Partire dal primo annuncio significa, allora, ripartire dalle relazioni, reimparare a tessere la trama tra il Vangelo e la vita. Antonio di Padova, che la festa della lingua del 15 febbraio ci presenta come grande predicatore e formatore di predicatori, trovò un modo di annunciare il Vangelo adatto al suo tempo. A quanto pare, la sfida si ripropone in ogni epoca, sempre più decisiva.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017