Rincorrere la conoscenza

Il fulcro della relazione sta nel fare esperienza dell’altro come «diverso» da noi. In un percorso che permette alle persone di avvicinarsi, che è stimolo al desiderio di modificare e modificarsi continuamente.
26 Maggio 2008 | di

Nella relazione con persone disabili la reazione più immediata è un senso di disorientamento. Una reazione ben presto superata però: l’essere umano, infatti, facilmente si abitua a contesti differenti, per renderli più accettabili e gestibili. Questa capacità ci consente di vivere agevolmente nel mondo. Ma è sufficiente affinché noi riusciamo a vivere anche con il mondo? Perché ciò possa accadere non possiamo prescindere da un coinvolgimento diretto in quello che viviamo. Solo così potrà avvenire quel reciproco mutamento – nostro e di ciò che sta fuori di noi – che indica un’azione da parte nostra sul mondo e del mondo su di noi. Questo vuol dire stabilire una relazione con le cose, essere aperti alla novità, anche di noi stessi. Ho sempre pensato che se non si mantiene un’apertura al mondo non si può diventare esperti: delle cose, ma anche delle persone. Superare il disorientamento, allora, non è sufficiente. Diciamo così: senza andare oltre non possiamo tentare neppure di avere una coscienza più piena. Ne avremo solo una falsata, mancante, come se la nostra capacità di vedere fosse limitata, se potessimo guardare ma senza poter alzare lo sguardo, abbassarlo o voltarci indietro.

Mi colpisce la testimonianza di Anna Pazzaglia, tratta da Storie di calamai e di altre creature straordinarie (Edizioni Erickson): «Quando nel settembre del 2006 entrai a fare parte del gruppo Calamaio, il sentimento che provai, e che ora riesco a riconoscere e a mettere sulla carta, fu di completo disorientamento. Mi aspettavo di trovare un ambiente di lavoro e nient’altro. Invece quello che mi sembrava di poter cogliere, sebbene in maniera confusa, erano delle relazioni che non riuscivo a discriminare e a decodificare». Di solito nelle relazioni con il mondo delle diversabilità tende a prevalere la dimensione del «fare», piuttosto che quella dello «stare con». Infatti, Anna continua affermando l’importanza dello «stare nella relazione»: «Fino ad allora per me quelle tre parole non avevano nessun significato, non le legavo né a un’esigenza, né a un’esperienza precedente». Personalmente credo che il fulcro della relazione stia nel fare esperienza dell’altro, e dell’altro come «diverso». Solo così si può mettere in atto una logica dell’accoglienza. Infatti, sempre secondo la testimonianza di Anna, «accoglienza significa che partendo dall’osservazione dell’altro, e dalla sintonizzazione emotiva, si agisce come casse di risonanza, e si crea uno spazio di comunicazione e ascolto». E di azione. Perché senza relazionarci risulta difficile la realizzazione delle nostre stesse azioni.

Ma a questo punto vi starete domandando: «Che cos’è il “Gruppo del Calamaio”?». Da oltre vent’anni il Progetto Calamaio promuove nelle scuole di tutta Italia percorsi formativi ed educativi sulla cultura delle abilità diverse. Esso è caratterizzato dalle persone che lo animano, lo vivono, lo pensano, lo realizzano, lo adattano ai diversi contesti, lo condividono con i vari gruppi che lo ospitano. Ogni persona che compone il gruppo diventa protagonista con la sua storia. L’intrecciarsi di tutte queste relazioni – quelle che si instaurano fra gli educatori e i ragazzi, gli insegnanti, i genitori che si conoscono a ogni incontro – permette di toccare con mano la cultura dell’integrazione. Anche questo è il Calamaio: l’incontro e lo scambio con altre parti di umanità che talvolta capita di incrociare, condividendone un tratto di strada. Una conoscenza che permette alle persone di avvicinarsi, che è stimolo al desiderio di modificare e modificarsi continuamente.

Perché la conoscenza, per definizione, non è mai definitiva, ma sempre «da raggiungere», continuamente mobile, sempre davanti a noi.

E qual è il vostro modo di conoscere?

Scrivetelo a: claudio@accaparlante.it

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017