Progetti Caritas: protagoniste le donne

Promuovere la donna per cambiare il futuro dei bambini e di intere comunità in Tanzania, Eritrea e Burundi. È questo il principio che ispira i tre progetti della Caritas antoniana, in occasione del 13 giugno, festa del Santo.
06 Giugno 2003 | di

Tre progetti in Africa, tutti in favore delle donne. La scelta della Caritas antoniana non è casuale. Lo sviluppo oggi ha sempre più un volto di donna, nonostante proprio questa parte dell`€™umanità  sia la più debole ed emarginata.
828 milioni di donne svolgono nel mondo i due terzi del lavoro ma ricevono in cambio un decimo del reddito e possiedono un centesimo dei beni disponibili (Onu). Il lavoro domestico rappresenta dal 10 al 35 per cento del prodotto interno lordo del mondo, ma non è riconosciuto né pagato. Nel Terzo mondo le donne si fanno carico del 70, 80 per cento dell`€™assistenza sanitaria e della produzione dei tre quarti del cibo disponibile. Da loro dipende la vita e il futuro dei figli e l`€™assistenza degli anziani e degli handicappati. Ciò significa che dare alle donne maggior consapevolezza del loro ruolo sociale e gli strumenti culturali ed economici per migliorare la propria vita, equivale a creare sviluppo per tutta la comunità .
A conferma di ciò, ci sono le esperienze di microcredito, cioè di piccoli prestiti senza garanzia, concessi soprattutto alle donne per finanziare piccole imprese familiari. Il microcredito, lanciato da Muhammad Yunus con la fondazione della Grameen Bank nel 1976, ha dimostrato che le donne sono i migliori debitori (il tasso di restituzione è del 98 per cento) e che il loro successo nel lavoro migliora le condizioni di vita dei famigliari e della comunità 
Queste esperienze internazionali convalidano il lavoro che la Caritas antoniana ha fatto in favore delle donne e dei bambini in questi ultimi anni, seguendo un cammino proprio. I progetti di solidarietà  promossi per la prossima festa del Santo, scegliendo la donna come beneficiaria, confermano i principi di base della solidarietà  antoniana: raggiungere gli ultimi e combattere alla radice le cause di povertà . Due dei tre progetti, quello in Tanzania e in Eritrea, si basano sulle esperienze di microcredito internazionali; il terzo progetto, in Burundi, mira a risollevare le sorti delle vedove di guerra e dei loro figli.
Il testimone ora passa a voi, lettori e amici del «Messaggero»: la vostra solidarietà  potrà  cambiare la vita di 1770 famiglie africane. Un gesto concreto, in nome di Antonio, apostolo della Carità .

 

TANZANIA. Un fondo contro la povertà  per 1060 famiglie

Il contributo dei lettori potenzierà  un`€™esperienza di microcredito interamente gestita dagli africani, con notevole successo.

«Mapato», acronimo della campagna Microcredito contro povertà  e aids in Tanzania (Microcredit against poverty & Aids for Tanzanian opportunities), in lingua kiswahili significa «reddito». La parola ben descrive il fine del progetto che la Caritas antoniana finanzierà  nell`€™arcidiocesi di Dar es Salaam: prestiti modesti per creare piccole imprese a favore di 1000 donne povere e 60 famiglie devastate dall`€™aids. Il promotore del progetto è il Cuamm, medici con l`€™Africa, una ong di medici missionari con 53 anni di esperienza alle spalle.
Dar es Salaam, arcidiocesi particolarmente attiva nella promozione sociale, comprende la regione amministrativa della capitale, e alcune province della costa. Vi risiede una popolazione di 4,5 milioni di abitanti, l`€™80 per cento dei quali vive al di sotto della soglia di povertà . Le politiche di ristrutturazione economica di questi ultimi anni hanno escluso sempre più persone dalla possibilità  di andare a scuola e curarsi. Per alleviare la povertà , le donne e i giovani hanno tentato attività  economiche autonome, senza avere il sostegno di un`€™adeguata preparazione e la possibilità  di accedere al credito.
La Caritas dell`€™arcidiocesi ha colto questo impegno e nel 1999 si è collegata al circuito mondiale del microcredito, importando a Dar es Salaam i Cbscs (Community based Savings & credit schemes), cioè gli schemi di risparmio e credito su base comunitaria. Fondamentale è stato l`€™apporto tecnico dell`€™università  della città  e il finanziamento di 60 mila euro di Misereor (agenzia di sviluppo della Chiesa cattolica tedesca), primo nucleo del fondo.
In tre anni, i primi risultati: 571 prestiti erogati a 324 clienti, in maggioranza donne. Il tasso di restituzione dei prestiti è del 98 per cento e ciascuno dei beneficiari riesce a risparmiare una somma che varia dai 20 ai 1200 euro. L`€™80 per cento delle persone coinvolte ha sperimentato un buon miglioramento del tenore di vita. Molti hanno superato la soglia di povertà .

Sintesi tra guadagno e solidarietà 

Il metodo, ormai collaudato, dei Cbscs prevede una serie di fasi: in un primo momento, si organizzano riunioni di informazione aperte a tutti. Chi è interessato, è tenuto a frequentare un corso residenziale di sei settimane su tecniche gestionali e tenuta della contabilità , che serve anche da base per la selezione dei più motivati. In un terzo momento, si costruiscono i gruppi di base (tra le 5 e le 10 persone) con una responsabile eletta, che tiene il rapporto diretto con i gestori del fondo e risponde per il gruppo. I gruppi, che si incontrano settimanalmente, si basano su un forte legame solidale: i singoli membri s`€™impegnano a dare garanzie reciproche, a controllare la sostenibilità  delle iniziative economiche proposte, ad accantonare un risparmio e a onorare le scadenze del debito.
A questo punto viene erogato il prestito a ciascun membro: si parte da piccole somme (20-175 euro) e si arriva, se i precedenti debiti sono stati puntualmente restituiti, fino al massimo prestito erogabile di 1200 euro, restituibile in 26 o 52 settimane. «Questo metodo funziona `€“ spiega il dottor Leopoldo Salmaso, curatore del progetto `€“ perché recupera l`€™usanza africana del clan, al cui interno c`€™è una forte componente solidale. In Tanzania se una persona ha un debito che non riesce a pagare, la famiglia è chiamata a saldarlo». Quest`€™attitudine garantisce il ritorno del capitale e il controllo sull`€™impiego del denaro. Ma non solo: «Le riunioni settimanali del gruppo diventano anche un momento di condivisione dei problemi. I soldi gestiti e guadagnati dalle donne avvantaggiano di fatto figli e parenti». C`€™è poi anche una ricaduta in termini di dialogo interreligioso: «Donne musulmane (il 50 per cento circa), cristiane e animiste riescono a lavorare in armonia e ad aiutarsi reciprocamente».
L`€™esperienza di microcredito della Caritas di Dar es Salaam è, però, una goccia in un mare di bisogno. Nessuna banca fa prestito a chi non ha nulla da offrire in garanzia. Poche sono le ong in grado di gestire il microcredito e quelle poche sono in una fase di studio-pilota. Il bisogno è invece inversamente proporzionale: i prestiti della Caritas diocesana coprono solo il 5 per cento delle richieste. Mancano risorse finanziarie, pare per più di 10 mila clienti in grave stato di povertà .
La richiesta alla Caritas antoniana è dunque quella di alimentare il fondo di 200 mila euro per far accedere ai prestiti almeno mille donne nei prossimi tre anni e per avviare un esperienza pilota di microcredito per le famiglie degli ammalati di aids.

 

ERITREA. Una nuova vita per 360 piccole imprenditrici

Donne povere, vittime insieme ai figli della violenza della guerra e della grave carestia in corso. Nel momento del massimo dolore, l`€™aiuto dei lettori diventerà  speranza di futuro.

Il progetto di microcredito della Caritas antoniana in Eritrea si presenta più complesso per almeno tre ragioni: il Paese, uscito nel 1991 da una guerra trentennale con l`€™Etiopia, ha di fatto ripreso le ostilità  nel 1998: è dunque un Paese molto provato, senza infrastrutture e poverissimo; la mancanza di piogge ha causato una grave carestia che rischia di mietere 2 milioni di vittime (su tre milioni e trecentomila eritrei) in quest`€™anno; nella zona individuata per il progetto, le esperienze di microcredito sono a livello embrionale.
C`€™è però un punto di forza: la grande esperienza e amicizia con il popolo eritreo del curatore del progetto, il Gruppo missioni Asmara (Gma) di Montagnana (Pd). La ong, che ha sedi in 32 città  italiane, opera in Eritrea dal 1972 e gestisce progetti solo attraverso personale locale.
Il Gma ha individuato quattro villaggi rurali: il primo, Adi Teclai, 2500 abitanti, si trova nella regione centrale del Maekel; il secondo, Afelba, 3500 abitanti, e il terzo Acrur, 3200 abitanti si trovano nel Debub, regione Sud del Paese; il quarto, Laiten, 3000 abitanti, si trova a Sud Est di Asmara nella regione del Mar Rosso Nord.
«Abbiamo selezionato questi villaggi `€“ spiega il presidente del Gma, padre Vitali Vitale `€“ perché con essi collaboriamo da molti anni. Ci sono poi altri fattori: la popolazione non ha accesso al credito e le donne del villaggio hanno manifestato l`€™interesse di avviare piccole attività  produttive. Ci aiuta, inoltre, il fatto che l`€™anno scorso nei villaggi sono stati costruiti i centri comunitari di promozione della donna, che potrebbero diventare il cuore della formazione sul progetto».

La formazione, cuore del progetto

La formazione, prima ancora dello schema di risparmio e credito, è il fine del progetto: «Nostro intento `€“ afferma Vitali `€“ è rafforzare le capacità  individuali delle donne e dar loro una costante assistenza tecnica, in modo che le attività  che inizieranno abbiano solide basi e migliorino in modo definitivo la situazione economica delle famiglie».
Perché scegliere un progetto a lunga durata quando il problema della fame rischia di mietere migliaia di vittime ora? «Quando la fame è scoppiata, l`€™idea di avviare progetti di sviluppo per le donne era ormai maturata, dopo anni di preparazione `€“ risponde Vitali `€“. Interromperla voleva dire tagliare la speranza per il futuro. Per cui abbiamo deciso, insieme agli eritrei, di portare avanti due fronti, quello dell`€™urgenza, finanziando aiuti alimentari attraverso la Caritas locale e quello della promozione, cercando aiuti esterni». La Caritas antoniana ha raccolto il testimone: «Il progetto che noi finanziamo `€“ afferma padre Luciano Massarotto, direttore della Caritas antoniana `€“ può non avere ricadute in questa emergenza ma sarà  fondamentale per prevenirne altre. Dare alle donne e alle famiglie un reddito che non viene solo dall`€™agricoltura, significa sganciarle per sempre dal rischio di morire per un raccolto andato male».
Il progetto è rivolto alle donne, non solo perché gli uomini sono al fronte, ma anche perché esse operano nei gangli vitali delle società  rurali: «Oltre all`€™attività  di semina e raccolta dei frutti `€“ afferma Vitali `€“, provvedono alla trasformazione dei prodotti, alla preparazione del cibo, alla ricerca dell`€™acqua e della legna, alla cura dei figli`€¦».
L`€™organizzazione del progetto segue lo schema collaudato del risparmio-credito, descritto nel progetto precedente. «La cosa più importante è far capire alle donne che il fondo rotativo è della loro comunità  `€“ conclude Vitali `€“. Non restituire il denaro o non usarlo correttamente è un danno per tutti. In più, il gruppo è organizzato in modo che l`€™insolvenza di un membro sia coperta dagli altri, pena la chiusura dell`€™accesso al credito. Chi invece paga è premiato dalla possibilità  di prestiti sempre maggiori».
Le attività  proposte dalle donne sono vagliate da un ufficio tecnico che fa capo al Gma. Esso ha una visione più vasta delle attività  più necessarie che sono avicoltura, apicoltura, allevamento ovini, piccolo commercio, coltivazione ortaggi, artigianato, taglio e cucito.
Ogni villaggio dovrà  fornirsi di un ufficio e di uno staff specializzato (coordinatore di villaggio, responsabile dell`€™animazione, amministratore). Il progetto durerà  tre anni e beneficerà  almeno 360 donne: dopo questo periodo di assestamento è previsto che ogni villaggio autogestisca il suo fondo, sotto la supervisione del Gma, per almeno altri sei-dieci anni.
Il finanziamento richiesto alla Caritas antoniana per avviare il progetto (personale, formazione, costi gestione) e per il primo nucleo del fondo rotativo è di 120 mila euro.

 

BURUNDI. Per 350 vedove una casa per ricominciare

Massacri, violenza, fame, aids, emarginazione. La sorte di molte vedove di guerra e dei loro figli è segnata. Il sostegno dei lettori proteggerà  il loro futuro.

Vedove senza casa e senza lavoro, spesso sieropositive o mutilate di guerra, con tre, quattro, cinque bambini. Figli propri od orfani di altri membri della famiglia. È la situazione di moltissime donne in Burundi, un Paese martoriato da genocidi e guerre tribali, iniziate nel 1993. Uno dei tanti conflitti invisibili, che ha causato e causa centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi, in maggioranza appunto donne e bambini. È a loro che la Caritas antoniana ha pensato quando ha accettato di finanziare un progetto per risollevare le sorti di 350 vedove con figli nella diocesi di Bubanza nel Nord-Ovest del Paese.
«In un contesto difficile come quello del Burundi `€“ afferma padre Luciano Massarotto, direttore della Caritas antoniana `€“, non è pensabile avviare un progetto di microcredito perché non ci sono i presupposti, ma dare alle vedove una casa per sé e per i figli e i mezzi minimi per sopravvivere è la base da cui partire per progettare uno sviluppo sostenibile». Ogni vedova riceverà  una casa di mattoni, due parei per vestirsi e una capra da latte per uso familiare, ma anche per garantire un piccolo reddito.
Un progetto semplice che però cambierà  la vita delle persone coinvolte, perché le vedove e i loro figli sono oggi i soggetti più esposti alla povertà , alla violenza e al pregiudizio.

Quando la vedovanza  è una condanna

Una donna senza marito non ha diritti; se in più non ha casa, rimane completamente senza protezione per sé e per i propri figli. «Molte vedove vivono in capanni di frasche e fango, in balia delle intemperie e delle violenze sociali `€“ spiega Bucumi Conrad, segretario generale della diocesi di Bubanza e curatore del progetto `€“.
L`€™emarginazione e la perdita di dignità  non danno loro la forza di difendersi, neppure quando possiedono un fazzoletto di terra: i vicini si sentono in diritto di impadronirsene. Il possesso di una casa darebbe alle donne più forza contrattuale, sicurezza e coscienza di sé, anche nei confronti dei familiari». Non sono rari, infatti, i casi in cui la vedova è costretta dalla famiglia del marito a un nuovo matrimonio per toglierle la proprietà  della terra. Altre volte la donna stessa, incapace di costruirsi un riparo da sola, cede il poco che ha in cambio di protezione, diventando insieme ai figli schiava di un altro nucleo familiare. Con tutte le conseguenze: i bambini della famiglia ospitante van-no a scuola, mentre i suoi figli svolgono servizi domestici, condannandosi a una vita senza futuro. Sulle vedove incombe anche lo stigma dell`€™aids, diffusissimo nel Paese. Uno stigma che diventa una condanna, quando il marito è morto a causa della malattia o c`€™è il sospetto che esse abbiano contratto il virus prostituendosi per sopravvivere.
Per aiutare le vedove, la diocesi di Bubanza ha iniziato a cercare finanziamenti per conto proprio: «La povera gente non può avere un rapporto diretto con chi gestisce gli aiuti umanitari `€“afferma Bucu-mi`€“. La burocrazia mangia metà  dei soldi ed è lenta rispetto ai bisogni. Quindi la diocesi si è assunta il compito di cercare i finanziamenti e di costruire senza intermediari le case per le vedove. Ma l`€™aiuto che vogliamo dare a queste donne è anche quello di accompagnarle giorno per giorno in modo che imparino a difendere i propri diritti, gestire i loro beni, curare i propri figli, recuperare la loro dignità ».
Una casa, la capra e due parei costeranno alla Caritas antoniana circa 600 euro a donna. Il costo totale per 350 donne è di circa 210 mila euro.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017