Pinocchio, favola o parabola?

Libro per bambini nella forma, si rivolge, nella sostanza, a un pubblico adulto. La vicenda del burattino di legno, nato dalla penna di Carlo Collodi, nasconde in realtà una feroce critica della società italiana post-risorgimentale.
20 Luglio 2012 | di
«C’era una volta...». Le favole d’un tempo cominciavano tutte così. Ma Carlo Lorenzini, in arte Collodi, quando ricevette l’incarico di scrivere la sua favola mise le cose in chiaro sin dall’inizio: «C’era una volta un pezzo di legno». Questa, dunque, non sarebbe stata una favola come tutte le altre. Fin dall’incipit non ci promette la solita folla di principi e principesse, re, cavalieri e fanciulle rapite da draghi, ma un’idea molto più intrigante e attuale, addirittura avveniristica per i tempi: una storia che nasce da un pezzo di legno. È un’idea che ci fa esclamare: questo non è un semplice libro per ragazzi!

L’umiltà della materia, che è da subito protagonista, già fa presagire che ci troveremo di fronte a qualcosa di nuovo: un libro che, al di là delle apparenze, non è destinato soltanto ai bambini, ma ha molto da dire anche agli adulti.
Sfogliamo le pagine iniziali, e scopriamo qual è la prima decisione presa da Pinocchio mentre ancora Geppetto gli insegna a camminare tenendolo per mano: «Infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare (...) e battendo i suoi piedi di legno sul lastrico, faceva un fracasso come venti paia di zoccoli di contadini».
Tutta l’avventura di Pinocchio nasce dunque da una fuga: quella da suo padre, dal suo creatore. E questa trovata narrativa sembra messa lì per far riflettere, e non soltanto i lettori ragazzi.
Il calpestio secco dei piedi di Pinocchio incominciò a echeggiare sugli acciottolati di villaggi, paesi e città d’Italia sin da quel lontano luglio del 1881. Proprio allora Carlo Lorenzini, che da poco aveva assunto il nome d’arte di Collodi in omaggio al paese natale della madre, aveva ricevuto l’incarico di scrivere una storiella a puntate che divertisse i piccoli lettori del «Giornale per i bambini». Incarico certamente gradito al povero scrittore, il quale era, come spesso capitava nella sua vita, ossessionato dai debiti di gioco. Ma, come accade a molti padri, anche Collodi non capì dall’inizio la grandezza della sua creatura. Inviando la storia al caporedattore del giornaletto, la definiva «una bambinata», ed esprimeva la sua unica preoccupazione: che fosse ben pagata. Così, settimana dopo settimana, prendeva forma quello che sarebbe diventato uno dei libri più diffusi nel mondo. E uno dei più amati. Il titolo era Storia di un burattino, e fu pubblicato a puntate, con qualche interruzione, tra il 1881 e il 1883. Proprio nel 1883 l’editore fiorentino Felice Paggi pubblicò la prima edizione in volume, con il titolo Le avventure di Pinocchio.
 
La ribellione al creatore
Nel 1891, poco dopo la morte di Collodi, Pinocchio viene tradotto in inglese. È la prima traduzione in una lingua straniera. Ne seguiranno centinaia, nell’arco di un secolo, in tutte le lingue del mondo. Nel 2007 è stato tradotto anche in cinese. C’è persino una versione in latino. Alcuni esperti sostengono che nel XX secolo, quello di Pinocchio sia stato il libro più venduto in Italia dopo la Divina Commedia. Per non parlare delle versioni cinematografiche di Walt Disney e Benigni, di quella televisiva di Comencini e di innumerevoli spettacoli teatrali, tra cui quello di Carmelo Bene. Perché la storia di Pinocchio ha raggiunto questo successo universale andando ben oltre i limiti del libro per ragazzi? Forse una chiave per rispondere a questa domanda la troviamo proprio in quell’inizio sorprendente e drammatico: appena ricevuta la vita da papà Geppetto, Pinocchio scappa. «Infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare». Vuol correre da solo incontro all’esistenza. Pinocchio è, dunque, immagine di ciascuno di noi quando decide di fare da sé, e non dare ascolto ai consigli di chi è più esperto. Noi da bambini, sì; da ragazzi pure, ma certamente anche da adulti. Quante volte ci è successo? E, forse, ci è lecito approfondire il discorso persino da un punto di vista religioso, sulle orme di illustri critici come Piero Bargellini, o il cardinale Giacomo Biffi. La fuga di Pinocchio, che sottraendosi al padre si tuffa in tutte le sue avventure e disavventure, può essere letta come una figura del peccato originale, cioè della ribellione originaria dell’uomo al suo creatore, quando appunto decise di «fare da sé». E, infatti, cosa succede a Pinocchio dopo essere fuggito? Per liberarsi dai rimproveri della coscienza, uccide il Grillo Parlante: il male è entrato nella sua storia. D’ora in poi, qualsiasi conseguenza sarà possibile. Abbandonato a se stesso e all’arbitrio della propria «libertà», Pinocchio sarà facile preda del Gatto e della Volpe. Di disavventura in disavventura finirà nel Paese dei Balocchi, e sarà trasformato in un ciuco, in compagnia dell’amico Lucignolo. Ora, chi di noi non ha mai incontrato nella propria esperienza di vita un Gatto e una Volpe? Amici troppo amici, pronti a carpire la nostra simpatia, la nostra fiducia, a volte i nostri soldi, facendoci intravvedere la manna di qualche «albero degli zecchini». Il Gatto e la Volpe non sono soltanto figurette variopinte di una favola per bambini; sono la personificazione tragicomica della frode, una grande creazione della fantasia che un lettore adulto, a volte per dolorosa esperienza, può apprezzare ancora meglio.
 
Salvato dai bambini
Può sembrare incredibile, eppure tutta questa affascinante storia ha corso il rischio di non venire mai alla luce, e di essere sottratta ai suoi lettori, e non per qualche fatale incidente, ma per la stanchezza o la svogliatezza dell’autore. Arrivato alla quindicesima puntata, infatti, Collodi pensò bene di porre fine alle avventure del suo burattino: «Gli assassini inseguono Pinocchio; e dopo averlo raggiunto, lo impiccano a un ramo della Quercia grande»: questo il titolo del capitolo quindicesimo. È una fine drammatica.

Ma l’autore non ne poteva più di ideare avventure e personaggi; o forse quel finale era più consono alla sua amara visione dell’esistenza. A quel ramo della quercia grande, Pinocchio rimarrà appeso per quasi tre mesi. Ma a seguito delle lettere dei piccoli lettori che invocavano nuove avventure della storia, l’autore fu convinto a farla ripartire. Pinocchio viene salvato dall’amore dei bambini. È ormai entrato nei loro sogni. E nei nostri.
La composizione dell’opera, dunque, riparte. Ci offre altre idee geniali e personaggi memorabili: Lucignolo, il compagno cattivo, il Paese dei Balocchi, la trasformazione in ciuco, il circo, il pescecane. E quando, infine, con un atto di pura generosità, Pinocchio riuscirà a salvare suo padre, oltre che se stesso, dal pescecane, si meriterà la sospirata trasformazione in ragazzo. È la conclusione di una storia fantastica, ma anche di una complessa parabola morale che porta al riscatto e alla speranza.
 
Carlo Collodi
Il patriota e l’intellettuale
Carlo Lorenzini, fiorentino, primo dei dieci figli di un cuoco e di una maestra, fu un patriota. Uno di quei giovani che, a 20 anni, erano partiti volontari per la prima guerra d’Indipendenza, e avevano combattuto con entusiasmo a Curtatone e a Montanara. Poi, da scrittore e giornalista militante, aveva partecipato a tutti i momenti fondamentali della corsa all’unità d’Italia. Ma quando il sogno risorgimentale diventò realtà, quando cioè l’Italia divenne finalmente unita, egli si guardò intorno, e vide uno Stato dall’orizzonte angusto. Le speranze e le grandi aspettative della lotta risorgimentale vennero deluse dall’Italietta sabauda. Anche Dostoevskij, in Diario di uno scrittore, paragonando l’Italia di allora alle sue glorie passate, espresse la propria delusione definendo il nostro Paese «un piccolo regno di second’ordine, che non ha importanza mondiale, imborghesito, senza ambizioni». Per Collodi fu un momento di svolta: passati ormai i cinquant’anni, abbandonò le battaglie politiche e dedicò tutte le sue energie di scrittore alla letteratura per ragazzi. Accettando i limiti di una produzione letteraria poco considerata, poté finalmente scrivere con una libertà mai conosciuta prima. Il rifugio nella favola gli permise di sbrigliare la fantasia. E di dire cose che gli stavano a cuore, e che, destinate ai bambini nella forma, nella sostanza parlavano anche agli adulti. Da questo clima di amarezza nacque il personaggio di Pinocchio. E anche da uno spirito di contestazione della società italiana post-risorgimentale che si era trasformata, tradendo le promesse iniziali, in uno Stato grigio, burocratico e oppressivo. In Pinocchio, infatti, carabinieri, giudici, guardie, rappresentanti dello Stato, risultano figure negative e persecutorie. Pinocchio non è soltanto un libro per bambini.
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017