Perdonarsi per ricominciare

In un’epoca di sfiducia e di conflitti dentro e fuori di noi, che senso può avere parlare di perdono? E soprattutto in che misura questa parola così carica di Vangelo può risuonare anche per chi è lontano dalla fede?
22 Febbraio 2008 | di

Viviamo in tempi di grandi conflitti, dalla politica al pianerottolo di casa: di qua il centrodestra e di là il centrosinistra, di qua i cattolici e di là i laicisti, di qua i tradizionalisti con la messa tridentina e di là i modernisti con le chitarre e le danze africane, di qua l’Occidente e di là l’Islam, ma anche di qua l’Inter e di là la Roma, di qua noi e dall’altra l’inquilina del piano di sopra che continua a far gocciolare il bucato sulle nostre piante. L’importante è aggredirsi, escludersi a vicenda, gridare le proprie ragioni in faccia all’altro. La rabbia rimbalza nei programmi televisivi, diventa rissa perché fa audience. Litigano i fidanzati e i parenti, le veline e le vecchie glorie, i politici e gli opinionisti. E il copione è sempre uguale. In questa gazzarra può sembrare ingenuo parlare di perdono, di riconciliazione. Che senso ha tirare fuori dal cassetto un tale concetto proprio in una fase così faticosa e incerta della nostra storia? E soprattutto in che misura la parola «perdono», così carica di Vangelo, può risuonare anche per chi è lontano dalla fede?

«Io credo che il concetto di perdono possa parlare di nuovo a tutti a prescindere dalla fede – afferma Marco Guzzi, saggista, conosciuto al grande pubblico come conduttore di programmi di Radio-Rai, ideatore di percorsi di liberazione interiore tra cui uno sul perdono e il perdonarsi –. L’importante è comprendere che il perdono prima di riferirsi alla necessità di perdonare gli altri per il male che ci hanno fatto, allude a uno stato di integrità e di sanità che riceviamo noi per primi. Siamo noi che ricevendo il perdono e perdonandoci possiamo finalmente essere noi stessi, liberarci dalle nostre lacerazioni interiori, e quindi da gran parte delle nostre sofferenze».


Schiavi del senso di colpa

Insomma la capacità di perdonare dipende dalla capacità di perdonarci?

«Certamente – conferma Guzzi –. Qual è infatti la nostra peggiore colpa, quella che ci pesa di più sul cuore? Non è forse proprio la colpa di tradire noi stessi, di perderci per sentieri scelti da altri, di smarrire il filo della nostra vita? Non soffriamo un po’ tutti di questo senso di estraneità rispetto alle cose che facciamo, al lavoro che svolgiamo, alle tante relazioni senza anima che siamo costretti ad intessere ogni giorno? E la nostra società tecnica e mercantile non fa poi di tutto affinché ci perdiamo nel suo labirinto di specchi, di fantasmagorie, di microgratificazioni: dal gelatino al wurstel, dal viaggetto alle Maldive fino all’automobile presa a rate? E allora parlare oggi di perdono significa innanzitutto ricordarci che è possibile uscire da questi labirinti dell’alienazione, significa incominciare a chiederci con grande umiltà e concretezza: ma la vita che sto conducendo è proprio ciò che desidero vivere? Poi, risanati, saremo anche in grado di controllare la nostra aggressività e di perdonare gli altri».

Perdonarci significa insomma avviare un processo di profonda revisione delle nostre priorità. C’è però in noi la sensazione di essere dentro un sistema di cui magari non condividiamo le regole ma da cui non sappiamo o possiamo sottrarci. La vita ha i suoi ritmi sferzanti, la politica collassa, gli squilibri economici mondiali e le crisi internazionali seminano paura e incertezza. Scricchiolano i punti di riferimento di un tempo: la famiglia, il lavoro stabile, la solidarietà. Mentre crolla la fiducia nelle istituzioni. L’Eurispes riporta dati allarmanti: un italiano su due non si fiderebbe della politica, delle forze dell’ordine, dei sindacati e persino della Chiesa. Una crisi di senso che non è solo italiana se 58 mila europei si suicidano ogni anno. Siamo al capolinea?

«È vero, siamo a un punto di svolta, ma anche di fronte a una grande possibilità di cambiamento – replica Guzzi –. Fino ad oggi il maggior pericolo per l’esistenza dell’uomo è stato individuato in alcuni fenomeni planetari come l’insotenibilità ambientale, i cambiamenti climatici o gli squilibri spaventosi della globalizzazione economica. Nessuno ha mai sottolineato abbastanza l’insostenibilità psicologica ed esistenziale in cui stiamo precipitando. Il mondo contemporaneo è lontano dalle nostre reali esigenze, perché è divenuto ormai l’insieme di tutte le nostre vite alienate, di tutti i nostri progetti impropri e assurdi, di tutto ciò che non dovremmo essere. E così, le nostre vite personali, i nostri orari di lavoro, la nostra solitudine urbana, il deserto relazionale che cresce, l’immiserimento delle nostre comunicazioni stanno assumendo caratteri allarmanti di insostenibilità. La grande novità e opportunità del nostro tempo è che le persone vivono una grande pressione sulla propria pelle. In cuor loro percepiscono che così non si può andare avanti».


Una crisi di crescita


Resta il problema di che cosa fare nel concreto, di che cosa ci serve per superare la crisi e contribuire al cambiamento della realtà in cui viviamo. Secondo Guzzi abbiamo bisogno di sperimentare itinerari concreti per arrivare a scoprire e ad apprezzare la bellezza della nostra integrità e capire che da essa dipende non solo la capacità di perdonare ma anche quella di farsi dono agli altri, e quindi di incidere nella realtà che ci circonda. Per farlo abbiamo bisogno di una pedagogia del cambiamento che si avvale di tre «attrezzi formativi». «Innanzitutto di chiavi culturali che ci aiutino a interpretare questo tempo come una crisi di crescita, una tappa evolutiva. Poi di lavorare su noi stessi per far affiorare le nostre problematiche personali, psicologiche, le ferite antiche che continuano a frenarci e ad avvelenarci, le tante paure che accompagnano ogni cambiamento. E abbiamo infine bisogno di pratiche spirituali, di una spiritualità più vasta aperta a tutti, per tornare ad accedere agli spazi interiori del silenzio e della pace, alla quiete mentale, alle esperienze di infinità. E questi cammini vanno offerti in modo del tutto laico, come un “pronto soccorso” spirituale, a disposizione di tutti.

Poi, chi vorrà potrà interrogarsi sulla natura escatologica e cristologica di questa fase della nostra storia. E allora splenderanno di luce mai vista le parole del cardinale di Parigi Jean-Marie Lustiger: “In questa nuova era il cristianesimo appare finalmente nella sua giovinezza che torna a manifestarsi”».     


Psicologia

Perdonare fa bene alla salute

Il perdono non è solo un balsamo per l’anima è anche un elisir di lunga vita. Abbassa la pressione, migliora le funzioni cardiovascolari, diminuisce il dolore cronico, attenua la depressione. Lo dimostrerebbero, secondo quanto riporta il «Los Angeles Times», decine di esperimenti condotti da dieci anni a questa parte da una schiera crescente di scienziati americani, tanto che si può parlare di una vera e propria «scienza del perdono».

Msa. Come mai la scienza si occupa di un tema tradizionalmente legato alle religioni?

Perché la psicologia − risponde Stefano Pallanti, professore dell’Università di Firenze e direttore dell’Istituto di Neuroscienze − sta uscendo gradualmente da un periodo troppo positivistico che sezionava in segmenti l’esperienza umana, facendole perdere la sua complessità. Studiare il perdono ma anche la vergogna o le emozioni significa recuperare una psicologia della vita vissuta, in tutte le sue sfaccettature.

Perché perdonare è oggi così difficile?

Perché abbiamo perso la dimensione rituale, cerimoniale della vita. Un tempo il perdono era un processo che riceveva una convalida sociale e aveva delle fasi riconosciute collettivamente. Persa questa dimensione, l’individuo è solo di fronte a un’esperienza psicologica difficile. Anzi la proposta che gli viene fatta è spesso quella dell’oblio; ma se la persona per valori o tratti del carattere o anche solo per il contesto sociale in cui vive non è in grado di dimenticare, la sua incapacità di perdonare diventa perseveranza ossessiva: l’individuo continua a rimuginare sul passato, vive di rancori, si ammala.

Se perdonare è difficile, perdonarsi a volte può esserlo ancora di più.

Sono due condizioni molto diverse, anche dal punto di vista clinico. Mentre il perdono ci riporta alla dimensione della rabbia, il perdonarsi rientra nell’ambito della colpa. Di simile c’è la solitudine dell’individuo di fronte a un’esperienza psicologica complessa e dolorosa, senza più il sostegno della ritualità collettiva. E anche in questo caso la soluzione proposta è superficiale: la non assunzione di responsabilità. Ma se un individuo per cultura, per temperamento, per psicologia, tende ad assumersi le proprie responsabilità, il rischio è che ne rimanga schiacciato.

Ci può fare un esempio di terapia per superare il senso di colpa?

Ci sono molti casi in cui il malessere del paziente è legato a esperienze che il soggetto ritiene imperdonabili: tende a non parlarne, a vergognarsene, ad assumersene tutte le responsabilità.Un malessere sostenuto dalla mentalità comune secondo la quale un individuo tanto più si sente in colpa tanto più è modesto e virtuoso. Una terapia riuscita fa sì che il soggetto dia meno importanza ai propri atti, riduca la presunzione della sua colpevolezza, inserendo le proprie azioni in un contesto più ampio e realistico.

Molto spesso un eccessivo senso di colpa non è affatto espressione di modestia ma di una sopravvalutazione delle proprie azioni: l’assumersi tutte le colpe del mondo è sovente un delirio di grandezza.

C’è una tendenza di molti psicologi a studiare delle terapie brevissime; gli psicologi del perdono non fanno eccezione, tra loro c’è chi propone addirittura un percorso di due giorni. Non le sembra una forzatura?

Francamente sì. Attualmente mi trovo in America e proprio in questi giorni un gruppo di ricercatori sta sperimentando la terapia della depressione in tre giorni. Ogni processo di elaborazione ha invece bisogno dei suoi tempi per essere autentico. Perdonare significa assumere un po’ una nuova identità: chi perdona deve cercare di comprendere le ragioni dell’altro anche se non le condivide, deve poi prendere atto delle proprie debolezze e che in certe situazioni anche lui potrebbe compiere azioni spregevoli. È un lavoro duro che implica un continuo confronto tra l’offeso e l’offensore.


per saperne di più

Roma 3-6 aprile 2008

Per donarsi. Un itinerario di guarigione profonda

Esperienza di un gruppo guidato da Marco Guzzi. Presso Comunità«Mater Ecclesiae»
Info: tel. 06 3017936; www.marcoguzzi.it



La testimonianza di Nicoletta Masetto

Giuseppe Soffiantini perdono e giusta distanza

«Il perdono non è un atto di generosità, ma una necessità: solo prendendo le distanze da odio e vendetta l’uomo va avanti».


«Il perdono? Non è un atto di buonismo. Sarei uno stupido se la pensassi in questo modo. Periodicamente arrivano giornalisti a pormi sempre la stessa domanda: “Che sentimenti prova nei confronti dei suoi sequestratori? Perché ha deciso di perdonare?”. A questi pungoli rispondo, anch’io, sempre allo stesso modo: “Il perdono è una faccenda molto più complessa di quanto si possa pensare. Sia ben chiaro, per me non è stato un atto di generosità, ma una necessità. Se non si prendono le distanze, non si va avanti”».

A parlare è Giuseppe Soffiantini, 73 anni questo mese, l’imprenditore di Manerbio, in provincia di Brescia – dove vive e lavora tuttora – rapito il 17 giugno 1997 da una banda composta tra gli altri da Giovanni Farina, considerato la «primula rossa» del banditismo sardo. L’ industriale – padre di tre figli che lavorano con lui alla guida del «Gruppo Manerbiesi», azienda tessile che esporta il 25 per cento della propria produzione – è rimasto per 237 giorni nelle mani dei suoi rapitori. Con la morte sempre dietro l’angolo, la paura di non arrivare a domani, la ferocia di una prigionia nel corso della quale gli aguzzini gli tagliarono un lembo di entrambi gli orecchi. «Ho voltato subito pagina. Non è stata una decisione facile. Mi hanno dato una mano la mia famiglia e la mia esperienza di vita. Sin da giovane sono stato abituato a rimboccarmi le maniche e a non mollare mai – racconta Soffiantini –. Ho deciso che andare avanti era l’unica strada possibile, già quando stavo lì dentro, rinchiuso in pochi metri quadrati, senza luce né aria. Anche se sentivo che la mia vita era appesa a un filo, non ho esitato a dire a me stesso che non dovevo farmi prendere da sentimenti come l’odio e la vendetta. Mi avrebbero schiacciato in quel momento e, ancora di più, dopo, se avessi avuto la fortuna di uscirne vivo. Per un credente come me il perdono è una necessità. L’odio e la vendetta sono sentimenti montanti da cui bisogna prendere le distanze. Qualcuno afferma che sono un buonista? Credo solo di essere una persona paziente. Sul perdono privato potremmo parlare a lungo. Sul perdono e sulla questione sociale, è chiaro che chi ha commesso un reato, chi ha fatto del male a una persona o alla comunità, deve pagare secondo le regole. Dobbiamo sforzarci tutta la vita, non solo nei momenti tragici, di riuscire a colloquiare con gli altri cercando di capirli. Nel caso dei miei rapitori non c’era molto da capire; andavano soltanto prese le giuste distanze. Mi sono detto: “Giuseppe, se ti lasci vincere da questi sentimenti, rimarrai sequestrato per tutta la vita”».

Qualche mese fa il «carnefice» Farina gli ha scritto una lettera dal carcere di Ascoli Piceno, dove si trova recluso: «Gent.mo Signor Giuseppe Soffiantini, avrà letto da qualche parte che mi piace scrivere poesie. Mi aiuti a realizzare un sogno e a pubblicarle». L’imprenditore ha deciso di concretizzare il sogno del suo aguzzino. «Gli avevo inviato dei libri a Natale – aggiunge Soffiantini –. È un errore condannare per sempre, non consentire a qualcuno di uscire dall’angolo. Non c’entra perdonare; c’entra, invece, il punire come si deve e il recuperare come si deve. Nulla è irrecuperabile e nessuno nasce “recuperato” o lo rimane per sempre. Le istituzioni dovrebbero investire di più: il carcere è il luogo dove si può ottenere la miglior prevenzione. Dovremmo almeno provare a metterci dall’ “altra parte” cercando di capire le ragioni dell’altro anche se ci sembrano incomprensibili».

Nel libro Poesie, il cui ricavato andrà in beneficenza, Giovanni Farina confessa: «Sono un condannato / con la sua catena / e la trascina / nelle proprie memorie… Socchiudendo / spesso gli occhi / mi sembra di dimenticare / il grigiore della mia vita che è di aspri sentieri / dove rotolano pietre / che feriscono sempre più / perché col loro passare / continuano ad alimentare / un’agonia interminabile». Solo una grande libertà interiore è capace, allora, di mettere le ali alla «giusta distanza». Al contrario, i macigni non rimossi rischiano di tenerci in ostaggio per tutta la vita.


i libri

Lytta Basset, Il senso di colpa

Edizioni Qiqajon, Magnano (BI) 2007, euro 8,00


Anselm Grün, L’arte di perdonare

Edizioni Messaggero Padova 2007, euro 8,00


Marco Guzzi, Per donarsi. Un manuale di guarigione profonda

Paoline, Milano 2007, euro 16,00

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017