Orfani di libertà

Sono all’incirca cinquanta i bambini sotto i tre anni che vivono con le madri nei penitenziari italiani. Su ognuno di essi il carcere imprime un segno indelebile, che le leggi non sanno evitare. Eppure, le soluzioni ci sarebbero.
30 Agosto 2013 | di

La prima parola che ha pronunciato il piccolo Luca non è stata mamma o pappa, ma «apri». Era la parola che sentiva più frequentemente nella cella del carcere in cui era recluso insieme con la sua mamma. E anche lui l’ha ripetuta, quasi fosse magica. Luca è un «piccolo detenuto» che non ha ancora 2 anni. Non ha commesso, ovviamente, alcun reato, ma, secondo la legge italiana, in quel carcere e in quella cella ci rimarrà fino al suo terzo compleanno. Poi andrà via, sarà affidato a una famiglia o a una struttura, fino al giorno in cui la madre, scontata la pena, potrà eventualmente riprenderselo.

Le leggi sono semplici. Semplici e terribili. Forse terribili perché troppo semplici. Dicono che un bambino piccolo non può essere separato dalla madre e, in nome del riconoscimento di un legame e di un sentimento, ne fanno un piccolo detenuto. Si accorgono poi che, dopo una certa età, non è bene che continui a seguire il regime carcerario e, quindi, da un giorno all’altro, recidono il legame più importante, lo strappano alla sua mamma e lo mandano nel mondo dei liberi. Potrà apparire strano ma per quanto i legislatori (non solo italiani) si siano impegnati, per i figli delle detenute che hanno meno di 3 anni non si è trovata nessun’altra soluzione. Quella praticata è sembrata la meno peggio.

Uno studio inglese ha rilevato che, quando le madri sono in carcere, nell’80 per cento dei casi i padri non si prendono cura dei figli. È alla luce di dati come questi che ogni legislazione, pur nelle diverse modalità, si basa sullo stesso principio: meglio con le madri in cella che con i padri nel libero mondo. In Italia non è possibile fare un conteggio dei piccoli detenuti. Ed è ovvio. Entrano con le loro mamme, possono uscire con loro dopo qualche mese, oppure senza di loro al compimento del terzo anno di età. All’incirca si può dire che superano quasi sempre il numero di quaranta e raggiungono raramente il numero di settanta. Al momento in cui leggete questo articolo sono circa cinquanta, distribuiti nelle carceri italiane, ma soprattutto a Rebibbia e a San Vittore. È qui che si trova la maggior parte di quelle donne che vengono burocraticamente definite «detenute con prole al seguito».
 
Bambini «dentro»
La «prole» è sottoposta a tutte le regole del carcere, ai suoi ritmi e alle sue costrizioni: dall’ora d’aria al regolamento in caso di malattia, ai colloqui, ai rapporti con gli altri familiari. Così i piccoli crescono senza vedere altro se non detenuti, guardie carcerarie, le mura della cella, qualche volta l’infermeria, uno spicchio di cielo, qualche giocattolo e qualche povero arnese casalingo. Con la madre hanno un rapporto stretto, strettissimo, simbiotico. Certo alcune celle sono state abbellite, a Rebibbia hanno messo le donne con bimbi in un reparto solo per loro e i piccoli al mattino vengono portati al nido, ma la vita del carcere e le sue regole sono valide anche in questo caso.

I «piccoli detenuti» sono quasi sempre figli di mamme rom e hanno nomi fantasiosi come Marlon Brando, Al Capone, Brad Pitt ma hanno lo sguardo spento, un linguaggio povero, in cui è prevalente la quotidianità della cella, e non sembrano incuriositi da nulla. Gioia Passarelli, presidente dell’associazione «Roma insieme» – fondata da Leda Colombini – che da vent’anni con un gruppo di volontari porta ogni sabato i bambini di Rebibbia fuori dal carcere perché conoscano il mondo, li descrive con tenerezza.

Non è stato facile entrare in contatto con loro e con le loro madri. Le donne sono diffidenti, non vedono di buon occhio che qualcun altro voglia occuparsi di quel figlio che è il loro solo legame affettivo. Hanno per i loro bambini un attaccamento che alcuni definiscono morboso. E la vita in carcere – spiegano i medici e i volontari – le rende instabili, nervose, diffidenti. Anche i bambini all’inizio non volevano uscire con i volontari, perché temevano di non tornare più dalla mamma. Poi hanno acquistato sempre più fiducia. «Michele non voleva entrare nel pullmino e ora quando arrivo mi prende il braccio, mi spinge per andare fuori più presto possibile» spiega ancora Gioia Passarelli con comprensibile orgoglio. È chiaro, tuttavia, che una parte dei loro pensieri rimane in cella. È successo – raccontano – che una bimba è stata trovata completamente bagnata dopo una gita in montagna. Aveva messo la neve in tasca per portarla alla sua mamma. Sofia, invece, più realisticamente, alla sua mamma voleva portare una fetta di torta, anche se poi non aveva resistito e l’aveva mangiata. Ed era molto dispiaciuta. Sono i volontari che si accorgono di quel che a questi bimbi viene sottratto ogni giorno: sensazioni, conoscenze, esperienze. Stefan, portato al mare per la prima volta, era come impazzito, aveva cominciato a correre sulla spiaggia gridando: «Dove sono i rubinetti?». Lui l’acqua la conosceva solo dal rubinetto della cella. Solo al sabato, e grazie ai volontari, questi bambini possono entrare in un supermercato, vedere degli animali, rimanere estasiati di fronte a una automobile, toccare gli oggetti normali di una casa normale, entusiasmarsi al rumore dei clacson.

Rosella Postorino racconta, nel suo bel libro Il corpo docile (Einaudi 2013), di Milena, una bimba nata in carcere e lì vissuta fino a 3 anni, quando ha raggiunto la casa del padre e della nonna. La mamma è rimasta in cella a scontare la sua pena. Tutta la vita di Milena è segnata da quell’esperienza e da quel distacco. Le avevano detto che in carcere ci stavano i cattivi e lei, all’asilo, cerca di diventare cattiva, per poter ritornare dalla sua mamma. Da grande il suo legame più forte diventa quello col bambino che è stato con lei in cella, che è insieme un fratello, un amico, un amante. E da sua madre non riuscirà mai a separarsi. La sua ferita originaria è troppo profonda per poter essere rimarginata, per non condizionare tutte le sue scelte.

Per quasi tutti i bambini costretti a vivere in cella la vita è segnata da ritardi nell’apprendimento, difficoltà scolastiche e problemi nei rapporti con gli altri. In Mamma è in prigione (Jaka Book 2013), Cristina Scanu racconta di Mirko che dopo tredici mesi di carcere, tornato «libero», va a vivere con la nonna, ma ancora in seconda elementare non rie­sce a concentrarsi, a costruire relazioni positive con le altre persone.

«Il punto è – spiega Carlo Di Brina, neuropsichiatra infantile che lavora al nido di Rebibbia, cioè in quella parte del carcere in cui sono recluse le donne con figli che hanno meno di 3 anni – che i bambini non devono essere considerati “detenuti”, ma “ospiti”. Questo significa che occorre definire dei modi, delle procedure concordate che ne tutelino la vita in quei 3 anni, in modo da rendere meno traumatica possibile la permanenza in carcere». Giusto: «ospiti», non «detenuti». Ma non è facile. Non è facile fin dall’inizio, per esempio, decidere esattamente come ci si debba comportare quando la detenuta con un figlio, entrando nel carcere, subisce la rituale perquisizione. Il bambino deve assistere? E se sta in braccio alla madre, deve essere allontanato? E a chi deve essere affidato? Finora questi problemi sono stati affrontati empiricamente, quindi, bene o male, a seconda delle persone che li gestivano. Ora sono di competenza delle Asl, che intendono introdurre dei protocolli dettagliati per evitare che i piccoli ospiti si sentano appunto «detenuti» o subiscano un trauma. C’è poi il problema dell’eventuale ricovero in ospedale. Fino a qualche tempo fa, cioè fino all’approvazione della legge 211 del 2011, affinché la madre seguisse il bambino in caso di ricovero in ospedale ci voleva il permesso del magistrato e quindi, inevitabilmente, potevano esserci dei rinvii o dei ritardi. Ora il permesso lo può dare anche la direzione del carcere. Ma molti altri problemi rimangono in sospeso. Problemi apparentemente tecnici ma che in realtà riguardano la vita del bambino, il suo equilibrio, il suo futuro.
 
Quali alternative?
L’impressione è che, per quanto si cerchi di migliorare, di attenuare, il carcere rimane il carcere. E si ripropone la domanda: possibile che per questi bambini non ci siano altre soluzioni? In realtà la soluzione ci sarebbe o potrebbe esserci. Anch’essa è contenuta nel decreto legge 211 del 2011, che prevede le case-famiglia, appartamenti in cui i bambini possono vivere con le loro mamme e in cui, soprattutto, non si è soggetti all’ordinamento carcerario. Nelle case-famiglia anche i figli sopra i 3 anni possono stare con le madri, si possono frequentare asili nido esterni al carcere, le guardie non appaiono tali, i fratelli e le sorelle possono entrare senza subire umilianti perquisizioni all’ingresso. Insomma, una vera alternativa alla detenzione penitenziaria.

Le case-famiglia dovrebbero entrare in funzione nel 2014 ma non è detto che le mamme e i bambini riescano a usufruir­ne. Allo stato dei fatti è difficile se non impossibile. Per ottenere una custodia cautelare alternativa, secondo la legge occorre avere una residenza fissa e non devono esserci pericoli di recidiva. Le detenute con bambini piccoli, quasi tutte rom, non hanno residenza fissa ed essendo condannate per piccoli furti sono ovviamente soggette a recidiva. Una volta fuori dal carcere è molto facile che ci ritornino. Per loro, cioè per l’assoluta maggioranza delle donne in carcere con bambini inferiori all’età di 3 anni, la possibilità della casa-famiglia è quindi esclusa o è di problematica applicazione. La legge, ironia della sorte, troverebbe attuazione solo in quella parte che prevede la possibilità di rimanere con la madre anche dopo i 3 anni, fino ai 6.

A difendere, proteggere, rendere migliori le vite di queste donne e di questi piccoli reclusi ci sono le tante associazioni di volontariato, le buone pratiche che qualche volta volgono in bene le leggi e alleviano, almeno in parte, la condizione di quei bimbi. Ci sono i tentativi di costruire istituzioni carcerarie più miti e più clementi.
All’Icam di Milano (Istituto custodia attenuata madri), che dipende da San Vittore, le stanze sono grandi e colorate, le donne lavorano e tengono pulito, i bambini vanno ogni mattina al nido; si cerca, insomma, di fare una vita normale, si celebrano tutti i compleanni e le feste comandate mentre le guardie carcerarie non hanno la divisa. Anche il rapporto con i visitatori è diverso. Si vive meglio, certo, a guardare quelle stanze luminose e piene di giocattoli non ci possono essere dubbi, ma – commentano i volontari – rimane pur sempre un carcere, un carcere con il make up, quindi più bello di tanti altri, ma non l’alternativa che si dovrebbe dare alle madri e ai bambini.
 
Quella vergogna silenziosa
Bambini in carcere, ma anche bambini fuori dal carcere e, tuttavia, privati di uno dei genitori che sta scontando una pena. È un’altra faccia, anch’essa drammatica, del rapporto tra l’infanzia e la detenzione. Sono circa 100 mila i bambini che hanno uno dei due genitori in carcere. Lia Sacerdote ha fondato l’associazione «Bambini senza sbarre» che si occupa di loro e del rapporto con i genitori. «Sono bambini che non sanno o fingono di non sapere che il padre o la madre è in un penitenziario, vivono in una vergogna silenziosa, non parlano, intuiscono che la loro condizione, se svelata, porterebbe a una discriminazione, allora tacciono». Tacciono ma sanno. Se ci si reca alle porte di un penitenziario nell’ora di visita, ci sono fuori ad attendere decine di bambini che capiscono molto di più di quello che dicono. L’associazione incoraggia gli adulti a parlare, a spiegare: «Il disvelamento è necessario per soffrire di meno – continua Lia Sacerdote –. È sbagliato non portarli in carcere, la conseguenza è che vivano la scomparsa del genitore come un mistero e soffrano ancora di più».

A Mike, 7 anni, era stata nascosta la detenzione del padre, piccolo spacciatore coinvolto in un episodio di violenza. Le maestre si sono accorte che il bambino era caduto in una profonda depressione: lui, di solito attento e bravissimo a scuola, non provava più interesse per nulla. Hanno scoperto dei suoi disegni: raffiguravano il padre tra le nuvole, in cielo. Pensava fosse morto. Sarebbe stato meglio se Mike avesse saputo, fosse andato in carcere e fosse stato accolto in quell’«area gialla» con libri, giocattoli, assistenti, dove, grazie all’associazione «Bambini senza sbarre», i minori vengono accolti in attesa della visita e dove possono non sentirsi soli, vedendo che sono in tanti ad avere lo stesso problema.

Certo, non è stato ancora possibile impedire che, come invece prevede il regolamento carcerario, vengano perquisiti, anche se sarebbe facilissimo evitarlo senza rinunciare alla sicurezza: basterebbe fare la perquisizione al genitore dopo la visita e lontano dagli occhi del bimbo. Ma nelle carceri anche i miglioramenti minimi sono difficili. Quelle «aree gialle» sono un miracolo, indicano almeno un’attenzione, nell’attesa che venga attuato qualcosa di più importante: che i diritti del bambino e dell’infanzia vengano messi al primo posto. Sempre, anche quando i genitori sbagliano, quando le leggi colpiscono i reati, quando gli adulti devono scontare una pena.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017