Occupazione femminile motore dello sviluppo

In una società che si sta sempre più terziarizzando, le donne sono il vero motore dello sviluppo. Perché, allora, in Italia è così difficile infrangere quel blocco, invisibile ma resistente che impedisce loro di progredire nella carriera?
23 Aprile 2008 | di

«Mi hanno fatto firmare un contratto che, in sostanza, mi impedisce di chiedere l’assunzione. Io l’ho firmato: non avevo altra scelta. Che cosa avresti fatto tu?». A raccontarlo è una giovane donna che vive nella produttiva Milano e che teme di rivelare il suo nome: potrebbe andarle anche peggio. Ma quante altre donne sono nella sua stessa condizione?
«Il tema “donne e lavoro” nel Sud Europa è una questione molto delicata», spiega Renata Semenza, docente di Sociologia economica del lavoro presso l’Università degli Studi di Milano.

«In una società che si sta sempre più terziarizzando, le donne sono il vero motore dello sviluppo». Economisti e specialisti di tutto il mondo sono d’accordo nell’affermare che, se molte più donne avessero un’occupazione, ci guadagnerebbero gli indici economi­ci di tutti i Paesi. «Purtroppo, a causa dell’attuale sistema di welfare – continua la docente – in Italia l’uso di contratti part-time è molto limitato perché il nostro sistema lavorativo è formato per lo più da piccole imprese». La donna italiana, quindi, lavora per lo più full-time.
Quest’organizzazione del lavoro, comparata con il resto d’Europa, costringe le italiane a essere le più stacanoviste. Sembra proprio un paradosso: il Bel Paese ha il tasso di occupazione femminile tra i più bassi del continente – 46,3 per cento rispetto al 73,4 per cento della Danimarca che guida la classifica – ma, quelle che lavorano, lo fanno per più tempo rispetto alle colleghe europee: sette giorni su sette, tra casa e ufficio, risultano occupate per 7 ore e 26 minuti quotidianamente, un tempo superiore, appunto, a molti Paesi europei (un’ora e 10 in più, ad esempio, rispetto a una lavoratrice tedesca). Facile da spiegare: il 77,7 per cento del lavoro domestico – pulire, stirare, lavare, cucinare, seguire i figli – è sulle spalle del cosiddetto sesso debole. «In Italia non c’è una suddivisione equa delle responsabilità familiari: paghiamo ancora una mentalità maschilista che fa fatica a modernizzarsi», aggiunge l’esperta. Assodato il fatto che la donna lavoratrice è fonte di ricchezza per la famiglia, «è necessario che ci sia un sistema di servizi e politiche che dia modo di scommettere sul futuro e di mettere al mondo più figli: le eterne liste d’attesa negli asili nido, quindi, dovrebbero essere solo un brutto ricordo. In realtà le donne, che fanno meno figli – uno, al massimo due – di quelli che vorrebbero, sono consapevoli che questa è una rinuncia, non una scelta» insiste Semenza.


La situazione europea
Era il 2000 quando, a Lisbona, i Paesi europei redassero un piano sull’occupazione femminile: entro il 2010, le donne che dovevano risultare occupate con un lavoro autonomo o dipendente avrebbero dovuto raggiungere almeno il 60 per cento. A due anni dalla scadenza, la media europea è del 57,4 per cento. Con il nostro 46,3 per cento siamo penultimi nell’Europa dei 27, davanti solo a Malta. Con noi, sotto il 50 per cento, Polonia e Grecia. Oltre la soglia del 50 per cento, invece, Paesi emergenti come Slovacchia, Romania e Bulgaria. Cipro addirittura è al 60 per cento. La Slovenia, appena entrata nell’Unione, è al 61,8 per cento.
Ma non è finita qui. Siamo addirittura ultimi assoluti in Europa se consideriamo il nostro Sud. Ecco i numeri della sconfitta: la percentuale è ferma al 34,7 per cento (circa il 70 per cento al Nord); dal 1993 al 2006 le occupate sono cresciute di 1 milione 469 mila unità nel Centro-Nord e solo di 215 mila nel Sud; molte, anche tra le più giovani, smettono di cercare lavoro: le chiamano «inattive», ed erano 110 mila tra il 2006 e i primi sei mesi del 2007; tra i 35 e i 44 anni, la fascia di età più produttiva, al Nord lavorano 75 donne su 100, al Centro 68 e al Sud 42.
«In realtà le lavoratrici meridionali sono molto più numerose di quelle descritte dalle statistiche: la maggioranza non appare perché “sommersa”. Il lavoro nero in questa zona è la normalità e le prime vittime sono proprio loro, le donne – si anima la docente –. Sono tutte sottopagate e non protette: senza contributi per maternità o a fini pensionistici. La nostra società crea un divario sempre più incolmabile: gli insider superprotetti e gli outsider (per lo più donne e giovani), completamente abbandonati a se stessi».
«Se si considera, poi, ancora più attentamente la questione – continua l’esperta – la presenza della donna nel lavoro regolare potrebbe avere una doppia valenza: attraverso i figli, oltre a dare un futuro alla società, creerebbe più indotto nel terziario, nei servizi. Purtroppo, però, finora la donna si è “esercitata” nella sua grande capacità d’arrangiarsi: ha trovato soluzioni di tipo privatistico, non regolarizzato (asili di quartiere, baby club, ecc.), alternative al carente sistema pubblico; non sono mai state cercate, però, soluzioni strutturali per le imprese (asili aziendali, flessibilità oraria, ecc.)».
Secondo la professoressa, la legge Biagi ha reso più fluido l’ingresso delle donne e dei giovani nel mercato del lavoro e la flessibilità è stata in qualche modo regolata.
«Il problema sorge quando questa flessibilità persiste nel tempo e diventa normalità», insiste.


Discriminate anche economicamente
Altro capitolo delicato e svantaggioso per la donna è la sua presenza, o meglio, la sua quasi totale assenza nei consigli di amministrazione e nei quadri dirigenziali delle aziende. È un’avventura solo per le più «toste». Nel testo della Presidenza del Consiglio «Iniziative per l’occupazione e la qualità del lavoro femminile nel quadro degli obiettivi europei di Lisbona» si legge che «nel 63,1 per cento delle aziende quotate, escluse banche e assicurazioni, non c’è una donna nel consiglio di amministrazione». Su 2.217 consiglieri solo 110 sono donne, vale a dire il 5 per cento. Va ancora peggio nelle banche dove, su un campione di 133 istituti di credito, il 72,2 per cento dei consigli di amministrazione non conta neppure una donna. Benché il 40 per cento dei dipendenti delle banche siano donne, solo lo 0,36 per cento di esse è dirigente, contro il 3,11 per cento degli uomini. «C’è qualcosa che non torna visto che a scuola, all’università e nei concorsi le votazioni migliori sono quasi sempre delle studentesse. Persiste anche la discriminazione economica», spiega Semenza. «Nonostante le donne abbiano percorsi scolastici più lunghi e brillanti, e quindi strumenti di emancipazione, non è cambiato nulla dal punto di vista della considerazione economica. I differenziali di partenza sono del 15-18 per cento rispetto allo stipendio di un uomo di pari grado». Alle donne, insomma, nel pubblico è destinata una retribuzione inferiore di circa un quarto. Nel privato, però, la situazione si aggrava. Dal documento in esame si evince che il differenziale di reddito tra uomini e donne, è maggiore nelle professioni più qualificate e meglio retribuite e nelle aree geografiche dove lo stipendio medio è più elevato e il tasso di attività femminile è già a livello degli obiettivi di Lisbona 2010. «Non voglio dire che le imprese non abbiano le loro ragioni: i costi della maternità dovrebbero essere suddivisi tra donna, Stato e impresa meglio di quanto siano oggi. Sarebbe necessaria anche una fase di vero accompagnamento che non abbandoni la donna una volta rientrata al lavoro».
«Non dovremmo essere tutti contenti – conclude Renata Semenza – che nascano più figli e che la nostra società trovi nuove energie vitali che, oltre a rinvigorire le dinamiche di crescita del nostro Paese, contribuiscano a sostenere i necessari oneri previdenziali?».


Zoom. Anche i media...

A non aiutare la donna, in questo sforzo di emancipazione e progresso, ci si mettono anche i media che ne danno un’immagine poco reale. In uno studio del Censis (Women and media in Europe; 2006) si legge che in tv va per la maggiore la donna di moda o di spettacolo (31,5 per cento), vittima di violenza (14,2 per cento) e criminalità o devianze (8,2). Le vittime di cronaca nera sono in pole position: fanno notizia le violenze e le tragedie familiari. Solo una piccola percentuale riguarda donne in situazioni «positive» come la politica (4,8 per cento)
e l’arte (0,9 per cento). In televisione si vedono anche molte «esperte», ma si parla per lo più di astrologhe (20,7 per cento), conoscitrici di artigianato locale (13,8 per cento) e, solo in alcuni casi, di letteratura (10,3), giornalismo (6,9) e politica (4 per cento). E tutte coloro che lavorano in casa e fuori? Solo se l’occupazione femminile, assieme a un adeguato riconoscimento economico, verrà riconosciuta come un ingranaggio indispensabile per superare disagio e discriminazione, si potrà dire che la società intera avrà cominciato a progredire sul serio.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017