Nelle piazze d’Italia, vicini alla gente

Chi pensava che il commercio all’aperto fosse un retaggio del passato, simpatico proprio perché fuori moda, dovrà ricredersi: a dispetto della crisi, il comparto cresce e rilancia il suo ruolo commerciale, culturale ma anche sociale.
23 Aprile 2013 | di

Bianco e nero, muto, datato. La descrizione dei film del passato non si adatta proprio al mondo dei mercati ambulanti che popolano le piazze di ogni comune italiano. Il confronto regge per opposti, e per via di quella patina di «antico» che ammanta il format del venditore ambulante. Perché per il resto siamo agli antipodi, altro che mutismo, grigiore e malinconia: banchi e bancarelle sono un’esplosione di colori, un profluvio di voci, un’ondata di dinamica allegria. È così anche oggi, nel 2013, a dispetto del radicato pregiudizio che archivia questo mestiere tra quei «lavori di una volta», simpatici proprio perché sorpassati, mentre il commercio del nuovo millennio sarebbe (solo) quello delle boutique, dei villaggi outlet, dei centri commerciali o dell’on line.

Inquadrare l’attività dei «venditori ambulanti e su aree pubbliche» – questa la definizione precisa – è difficile, perché a sottostimare il settore non è solo l’osservatore distratto, ma sono anche le istituzioni, gli istituti di ricerca e la stampa. Così sui giornali gli ambulanti finiscono solo per beghe locali e per eventuali tensioni con le amministrazioni comunali, oppure nelle inchieste sulla contraffazione o sul «degrado», al limite nei servizi di costume. «Pazienza, ben ci conoscono i consumatori» si consolano gli ambulanti. Non hanno torto, visto che sono all’incirca 24 milioni gli italiani che effettuano almeno un acquisto alla settimana in una delle 175 mila imprese che operano su aree pubbliche, e che danno lavoro a 360 mila addetti.

A spazzare via una volta per tutte l’accusa di nanismo, poi, è il volume d’affari, stimato sui 25 miliardi di euro, a fronte – per fare un paragone – dei circa 10 miliardi del quotatissimo commercio in internet. Questi dati statistici sono stati elaborati direttamente dagli ambulanti che, per contare qualcosa anche a livello nazionale, hanno deciso di contarsi. E così la Federazione italiana venditori ambulanti e su aree pubbliche (Fiva), aderente a Confcommercio, al congresso annuale dello scorso novembre ha presentato l’anteprima di un’indagine di settore su consistenze, dinamiche e strutture del commercio ambulante.
Sfogliando i risultati, si scopre che, nonostante le difficoltà dell’economia occidentale, mercati itineranti, chioschi e fiere vanno per la maggiore, meglio di quando la crisi doveva ancora iniziare a mordere. In Italia, infatti, operano oggi 13 mila imprese ambulanti in più rispetto al 2008, una crescita strutturale che di questi tempi ha del sorprendente. L’aumento ha riguardato tutto il Paese, ma in particolare è stato forte nel Centro e nel Sud. Le regioni che contano più imprese sono Campania e Sicilia; seguono Lombardia e Lazio, con quest’ultima che detiene il primo posto per l’incremento quantitativo (più 14 per cento nel 2008-’12).
Lo sviluppo generale, tuttavia, non è a lettura univoca. Perché in realtà le nuove imprese nel biennio 2010-’11 sono state 36 mila, ma a fronte di 25 mila cessazioni, a riprova che la crisi colpisce eccome anche un comparto da sempre considerato «settore rifugio» per il mercato del lavoro, visto il non eccessivo investimento iniziale – né in termini economici né di formazione – necessario per avviare l’attività. Il forte turn over finisce per riguardare addirittura il 10 per cento degli operatori ogni anno. Il saldo positivo finale non è a basso costo.
 
I colori dei mercati
Tra gli elementi che rendono piacevole un mercato ci sono senz’altro i suoi colori, ambìti dalle macchine fotografiche di ogni turista per documentare la vivacità della sua meta di viaggio. Le sfumature di qualsiasi tonalità dipendono dalla sempre generosa offerta merceologica, perché al vero «mercato di piazza» il consumatore – ma più spesso la consumatrice – sa di poter riempire la sporta di frutta e verdura, carne e pesce, tessuti e biancheria, e via dicendo. In realtà le tipiche imprese alimentari di salumai, formaggiai, pescivendoli e ortolani sono in calo: rappresentano un quinto del totale. Al contrario, cresce il comparto vestiario. Quasi un ambulante su due allestisce il proprio banco vendendo calzature o prodotti tessili. Completano il quadro… tutti gli altri, ovvero quelli che trattano «merci varie». Tra le principali voci figurano fiori e piante; mobili e arredamento; libri e dischi; chincaglieria e bigiotteria; profumi e detersivi; ferramenta e articoli per bricolage.

I colori dei mercati sono poi quelli offerti dai volti dei venditori. E delle venditrici, che sono sempre di più. Infatti, ormai quasi un’attività ambulante su cinque è a conduzione femminile, con le donne alla guida di circa 29 mila imprese, in particolare nei settori dell’abbigliamento, del vestiario e dei fiori. La presenza femminile al banco di vendita è poi incrementata da collaboratrici che sono legate al titolare da vincoli familiari, perché spesso il lavoro coinvolge a cerchi concentrici moglie, marito, figli, cugini, zii, a seconda dei casi e della fortuna.


Altro elemento di crescita riguarda i lavoratori extracomunitari: su 36 mila nuove imprese, circa 20 mila sono nate per loro iniziativa (ci si riferisce sempre e solo alle attività regolari iscritte alle Camere di commercio), per un totale di oltre 70 mila piccoli imprenditori non italiani.
 
Eravamo signori…
Tutto bene quindi, tutto facile? Non proprio. Il binomio «facile» e «lavoro ambulante» non è davvero dei più comuni. Sveglia che precede di parecchie ore l’alba, lavoro all’aperto indifferentemente con il gelo dell’inverno e con l’afa dell’estate, vendite che si concentrano soprattutto nei fine settimana, ore e ore in piedi senza poter mai «chiudere» per una pausa caffè o per andare in bagno. D’accordo, potrebbe dire qualcuno, la comodità è un’altra cosa, ma questa vita gli ambulanti devono metterla in conto, fa parte del tacito «contratto con la strada» che ciascuno di loro ha firmato il giorno in cui ha scelto il mestiere.

Ma le difficoltà non sono solo queste: i veri problemi sono altri. Ad esempio, la concorrenza. Lo spettro è il binomio «centro commerciale» e «apertura domenicale», come racconta Daniela, titolare di un banco di biancheria e vestiario nel padovano. «Faccio questo lavoro da trentaquattro anni. Un periodo così nero non lo avevo ancora visto. Ci tiravamo su con il mercato del fine settimana, che attirava gente da tutto il territorio, ma abbiamo avuto un tracollo da quando il nuovo centro commerciale ha iniziato a tenere aperto la domenica. Per fortuna ci sono ancora clienti che vogliono prodotti italiani. Non vendiamo merce cinese, noi» conclude con una punta di orgoglio. Le fa eco il signor Lemeti, albanese, da ventidue anni in Italia, dal 2001 al mercato con maglie e giacche, a 10, 15 euro l’una: «A volte vorresti anche solo riuscire a pagare tutte le spese e le tasse, ma ci sono giorni e settimane che non arrivi nemmeno a coprire i costi. Si spera di uscirne presto, ma non vediamo luce. Stiamo facendo di tutto, con zero risultati. Fino a qualche tempo fa partivo da casa contento, oggi faccio fatica a sorridere, soprattutto di fronte ai miei figli piccoli. È difficile, ma per ora tengo duro». A dargli man forte si inserisce Bruno, fioraio ambulante da venticinque anni, che riassume così la situazione: «Eravamo signori, adesso siamo puareti (poveracci). Ci sono meno soldi in giro, la gente passa ma non compra, e intanto sono aumentate le tasse, tra concessione, benzina, immondizia e imposta sull’area di copertura della tenda, non mi resta in tasca niente».

E così succede che lo Stato, più che una garanzia, è percepito come lontano, se non addirittura minaccioso. Lo confermano alcune recenti vicende nazionali, come quella della direttiva Bolkestein, dal nome del commissario olandese che la propose in sede europea nel 2004. Un’applicazione troppo rigida di questa norma in Italia avrebbe fatto perdere il valore delle concessioni degli operatori su area pubblica, vietando il rinnovo automatico dei posteggi. Solo di recente, dopo anni di trattative, le associazioni degli ambulanti insieme con rappresentanti di Stato, Regioni e Comuni hanno trovato un soddisfacente accordo tra le parti. Ma per uno spettro che si allontana un altro se ne presenta. A fine 2012 è giunta, infatti, la direttiva Ornaghi sul decoro pubblico. Lodevole l’intento del ministro per i Beni e le Attività culturali, ma mal calibrato, secondo le categorie, perché vorrebbe mettere sotto tutela tutte le piazze, le strade e gli spazi pubblici che hanno più di settant’anni. «Ma che ci vuole a capire che in Italia praticamente tutto è più vecchio!» sbotta Maurizio Innocenti, presidente dell’Associazione nazionale venditori ambulanti (Anva), tra i fondatori di Confesercenti. «Una regola del genere è improponibile. Vicino ai monumenti si può discutere dove, come e a che distanza stare, ma non è pensabile togliere il commercio. Ci sono monumenti che sono stati costruiti dopo l’insediamento dei mercati: pensare oggi di sradicare il motivo per cui sono nate le piazze mi sembra poco lungimirante. E poi sembra che i turisti apprezzino, perché se questi posteggi sono così ambiti significa che c’è giro d’affari. Sui singoli casi, come il mercato di San Lorenzo a Firenze, la piazza dei Miracoli a Pisa, il Colosseo o San Marco a Venezia possiamo valutare. Già le leggi attuali permettono di tutelare il territorio: della direttiva Ornaghi non si vede l’utilità».

C’è un altro nervo scoperto: è la questione degli ambulanti non professionali. Non stiamo parlando di abusivismo, ma di un altro fenomeno, più «legalizzato», che gli operatori su area pubblica condannano. Spiega Innocenti: «Noi siamo commercianti professionali, in regola col fisco, con i contributi, con la burocrazia tutta. Ora, si sono create situazioni che ci sorpassano sul nostro stesso terreno con la complicità delle amministrazioni. Ovvero: mercatini dell’arte e dell’ingegno, della terra, degli scambi, filiera corta e via dicendo. I Comuni, per favorire la vivacità delle città, li promuovono, ma a noi creano un danno, perché sono tutti soggetti che non hanno i requisiti dell’operatore professionale, né la stessa pressione fiscale. Un esempio? Il cosiddetto commercio a chilometro zero: va benissimo che il commerciante di Pistoia venda i frutti del contadino di Pistoia, ma non che il contadino vada sul posteggio dell’ambulante tradizionale con i suoi prodotti, e magari, visto che c’è, anche con banane e ananas. Questa è concorrenza sleale».
 
Un legame reciproco
Nonostante tutto, però, il com­merciante ambulante non ha intenzione di cambiare pelle. Lo conferma il signor Urbano, una vita di turni in fabbrica prima di decidere di averne abbastanza. Nel 2003 si licenzia e apre un banco di frutta e verdura in Prato della Valle, a Padova, una delle tante piazze che gli ambulanti bazzicano da prima di Giulio Cesare. «È vero, devo alzarmi alle 4 del mattino, ma intanto sto all’aperto, non devo rendere conto a nessuno e sono sempre a contatto con la gente. Ci sono i clienti abituali, con i quali scambio due parole, commento le ultime notizie, mi raccontano di acciacchi e soddisfazioni. Gli affezionati che, magari senza comprare, vengono a trovarmi anche due volte al giorno, anche quando piove e tira vento». Mentre parla, l’ortolano, sta curando i carciofi. A un tratto alza la testa, e il suo sguardo dice ciò che sente realmente: il legame è reciproco, non sono solo i clienti a essere affezionati. Per Urbano e per tanti altri come lui l’appuntamento giornaliero tra venditore e acquirente è insostituibile. Per questo, nonostante tutto, continueranno a onorarlo, per lunghi anni ancora.
 
 
Vanni Codeluppi
I mercati all’aperto? Sono ricchi di socialità
 
Come interpretare quanto sta accadendo nel variegato mondo dell’ambulantato? Alcune chiavi di lettura le offre Vanni Codeluppi, sociologo dei consumi e docente all’Università di Modena e Reggio Emilia, che sulla vivacità e sullo stabile futuro della categoria ha pochi dubbi. «Si poteva avere l’impressione di un settore destinato a scomparire, ma in realtà i dati ci dicono che è in crescita da diversi anni. Su questa crescita di certo influisce la crisi economica, perché il mercato degli ambulanti è per definizione uno spazio commerciale in cui si può risparmiare».

Msa. Ci sono anche altre spiegazioni?
Codeluppi. Siamo di fronte a un fenomeno di lungo termine che non può essere interpretato solo a partire dalla crisi: i consumatori stanno riscoprendo alcune dimensioni del commercio che nei mercati all’aperto hanno il loro habitat ideale. Mi riferisco in particolare alla socializzazione, all’incontro con altre persone, al calore umano che la grande superficie ormai ha fatto sparire. Per «grande superficie» intendo l’effetto del processo di modernizzazione della distribuzione che l’Italia ha vissuto negli ultimi decenni, con l’imporsi, da un lato, dei centri commerciali, dall’altro dei grandi centri specializzati, come possono essere i mercatoni dell’abbigliamento, della tecnologia o del mobile. Sono realtà che offrono servizi di vario genere, ma sono freddi, anonimi e «anonimizzanti». Prevedono l’assenza quasi totale di personale, quindi di un rapporto umano con qualcuno che possa aiutare, consigliare e rassicurare.

È una forma di reazione, quindi?
In qualche modo. È il bisogno di riscoprire una dimensione calda del rapporto di consumo, che appartiene alla tradizione mediterranea. Credo che il successo del mercato di piazza risponda sì a un bisogno economico, ma non solo. Ci sono fasce della popolazione di livello medio alto, con buona disponibilità di spesa, che cercano più soddisfazione nel rapporto di consumo. I mercati all’aperto sono ricchi sul piano sociale. Si possono instaurare relazioni a misura umana.

Chi va per mercati lo trova anche divertente.
Infatti. È una componente da non sottovalutare. Comprende la soddisfazione di cercare il mercato particolare specializzato, di trovare un prodotto diverso, di individuare il buon acquisto, l’articolo «su misura», e di contrattare il prezzo con i venditori.

Il rapporto tra mercato e città rischia di venire compromesso dalla direttiva Ornaghi. Lei cosa ne pensa?
La storia umana ci dimostra nei millenni che senza commercio una città non vive. La città nasce attorno ai mercati, alle piazze del mercato, e di quello ha bisogno. Se noi togliamo il commercio dai centri storici, le città muoiono. Poi è chiaro che in certe città d’arte bisognerà porre particolare attenzione, con vincoli specifici, ma ben venga il mercato in piazza.

Al di là del giro d’affari nazionale, alcuni mercati storici sono segnalati in difficoltà. C’è un ripensamento in atto?
Ci possono essere problemi specifici, dovuti anche all’ordine pubblico e alla sicurezza, ma sembrano essere eccezioni a fronte del recupero in varie forme dell’ambulantato. Non ci trasferiremo tutti in Rete nel commercio elettronico, come alcuni hanno sostenuto. Abbiamo bisogno d’altro, di consumare attraverso il rapporto tra persone. Soprattutto ne hanno bisogno gli italiani, e i mediterranei in genere, che non vogliono rinunciare all’esperienza delle sensazioni e degli stimoli sensoriali, fatti di colori, odori, voci e suoni.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017