«Mio zio, dall’alto, mi illumina il cammino»

Pia Luciani, la maggiore dei nipoti di papa Giovanni Paolo I, ha teso la mano a un giovane seminarista africano e ora segue un progetto di allevamento di pesce in Nigeria. Piccole somme hanno messo in moto l’economia di un’intera zona del Paese.
24 Ottobre 2006 | di

Essenziale nel suo modo di porgersi, precisa nel suo racconto, coraggiosa nell’aver portato avanti la famiglia, con quattro figli, da sola, dopo la morte del marito. Pia Luciani appare subito così, una donna semplice e forte, schiva da ogni possibile accostamento con la figura dello zio, Albino Luciani, divenuto Pontefice con il nome di Giovanni Paolo I e chiamato «il Papa del sorriso».
Solo lasciando fluire il racconto si capisce che Pia, la maggiore dei nipoti del Papa, ha allargato il suo progetto di vita oltre l’ambito della comunità di Caviola, dove risiede, in provincia di Belluno. Già mamma di quattro figli, ne ha accolto un quinto, un giovane nigeriano a quel tempo seminarista, e gli ha teso la mano quando, divenuto sacerdote, ha voluto aiutare concretamente la sua gente. Così è diventata la coordinatrice italiana di «Progetto Nigeria». Con piglio da manager, tenacia montanara e limpidezza di donna illuminata da una fede cristallina, onora il cognome che porta, scusandosi o quasi quando lo usa per finalità benefiche.


Don Gordian: l’incontro a Jesolo
Pia Luciani una quindicina di anni fa stava facendo volontariato a Cavallino Treporti, vicino a Jesolo, presso un’opera della provincia di Belluno, in parte destinata a persone disabili. «Conobbi un seminarista che aveva bisogno di un passaggio per Lourdes, ma non sapeva dove andare nei quindici giorni che sarebbero trascorsi tra il termine del suo servizio e la partenza per la località francese. Lo portai a casa mia: siamo in tanti e so che una bistecca o un piatto di pasta in più non fanno differenza – ricorda Pia –. Anche dopo il rientro da Lourdes continuò a telefonare, a chiedere consigli, a venire a trovarci spesso: in pratica, divenne il mio quinto figlio».
Don Gordian Otu, questo il nome del seminarista, conclu-si gli studi per il dottorato in teologia e il diploma in sociologia rurale, diventò vice-parroco nella chiesa «Re-gina Pacis» di Forlì. «Poi decise di tornare in Nigeria, nel suo Paese d’origine, per aiutare la sua gente. Mi disse che si era fatto sacerdote per questo – continua la signora Pia –. Però lo rattristava il pensiero di tornare a mani vuote, e perciò chiese il mio aiuto; così, senza volerlo, mi ritrovai coinvolta in un nuovo progetto sostenuto anche dalla comunità di Forlì e da Banca Etica».
In un primo momento si pensò di creare un allevamento di mucche per dare latte ai bambini rachitici e privi di anticorpi per la mancanza di proteine, ma l’idea venne abbandonata per la difficoltà di alimentare i bovini durante la stagione secca. Allora partì un allevamento di pesce, cibo che fa parte della tradizione nutrizionale di un posto nel quale molti, non potendo permettersi un pesce intero, ne comprano la testa, la pestano e ottengono così un condimento per la polenta di manioca. «Il vescovo della diocesi di Ikot Ekpene, Camillus Etokudoh, ci diede un appezzamento di terreno in mezzo al bosco, in località Sant’Antonio, accanto a un centro di spiritualità, e lì cominciammo a scavare un pozzo e a costruire le prime vasche. Pensavo di aver coinvolto le persone giuste per avviare il progetto, ma presto capii che senza una figura trainante non si poteva andare avanti», sottolinea Pia Luciani che da quattro anni, per un mese, lascia i suoi figli e si dedica agli ultimi dello stato di Akwa Ibon, una zona piuttosto pericolosa sul delta del Niger.


Dal pesce all’internet point
Ma il progetto cominciò quasi subito ad allargarsi ad altri ambiti per portare un segno di vita, di aggregazione e di speranza.
Venne ristrutturata la casetta del custode del piccolo seminario. Il terreno circostante le vasche del pesce fu ripulito dalle erbacce e dai serpenti, per avviare la coltivazione di granoturco, manioca, okkra e patata di jam. Ora si sta tentando di piantare anche il fagiolo, legume ricco di proteine.
L’allevamento del pesce ha raggiunto un’ottima specializzazione: in nove vasche tonde ci sono gli «avannotti», i pesci appena nati, dodici vasche lunghe ospitano pesci gatto di media grandezza, e nelle ultime tre ci sono esemplari che superano i due chili, pronti per essere venduti. La selezione costante insieme a un attento studio dei mangimi – preparati con prodotti locali e testati da Franco Cesco, un volontario di Pordenone – hanno permesso alla comunità di vendere più di due tonnellate di pesce gatto africano in un anno.
«Oltre alla necessità di produrre cibo, è urgente il problema del lavoro – aggiunge Pia Luciani –. A Uyo, città universitaria e capitale dello Stato, abbiamo aperto un internet point che è partito con dieci computer e ora ne ha cinquanta. Nel primo periodo i provider africani, vedendo che lavoravamo molto, continuavano ad aumentare il prezzo dei loro servizi. Abbiamo fatto uno sforzo e abbiamo acquistato una licenza con un satellite israeliano grazie al quale ora offriamo anche servizi di telefonia internazionale». Sia a Uyo, sia a Ikot Ekpene sono stati inoltre aperti due ristoranti-gelateria: sono punti di aggregazione giovanile nei quali, grazie ai volontari giunti dal bellunese, alcuni ragazzi hanno imparato a preparare il gelato.
Instancabile, la nipote di Albino Luciani racconta del piccolo acquedotto costruito lo scorso Natale, con una fontana a disposizione dei bambini dei villaggi vicini che ora possono evitare di attingere alle acque sporche del fiume.
«La zona fu evangelizzata dai padri irlandesi, che vi costruirono chiese e canoniche. Quando se ne andarono subentrò il clero indigeno, ma ora molte chiese sono senza un parroco perché, vista l’esiguità delle offerte, un sacerdote morirebbe di fame – prosegue la signora Luciani –. Ho parlato con il vescovo di Belluno, la mia diocesi, e grazie a una donazione ora abbiamo “adottato” un parroco. La parrocchia funziona anche da ufficio di microcredito: le donne più responsabili ricevono prestiti di uno o due euro per piccoli commerci oppure, ad esempio, per acquistare un attrezzo agricolo che magari avevano rotto. L’esperimento funziona, perché tutte le donne che hanno ricevuto del denaro lo stanno restituendo, poco alla volta, ma costantemente».


Con il sorriso del Papa dei bambini

Come si trova la forza di attrarre, di organizzare, di chiedere? «La nostra è una goccia nell’oceano. Mi sostengono i miei figli, la mia parrocchia di Caviola, il vescovo e i miei amici: la Provvidenza mi ha sempre aiutato. Qualche volta mi rivolgo allo zio e gli chiedo perdono se uso il suo nome. Lo faccio soprattutto quando vedo che ci sono persone che non hanno fiducia, che dubitano dell’uso che si fa dei danari donati» replica Pia.
«Lo zio mi ha battezzato, ha benedetto le mie nozze, ha battezzato due dei miei figli – continua –. Quando è mancato sono rimasta senza un secondo padre. Da ragazzina mi fu molto vicino. Ricordo che quando mi accompagnò in collegio e vide che stavo per mettermi a piangere, mi rassicurò e mi disse di scrivergli. Iniziò così un rapporto di confidenza che si spezzò solo con la sua morte. Credo che mi consideri una “rompiscatole” che chiede spesso il suo aiuto, ma sono sicura che il suo sguardo illumina la mia strada». Anche quella, inconsueta e inaspettata, che conduce ai bambini nel cuore della Nigeria.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017