Mio fratello non è figlio unico

Il loro è un punto di vista diverso, innovativo perché mai valorizzato. Sono i «siblings», ovvero i fratelli e le sorelle di persone disabili, una risorsa insostituibile. Ma solo di recente le associazioni e le università si sono accorte di loro.
02 Gennaio 2013 | di

Un fratello? È per sempre. Forse «per sempre» è esagerato, ma di certo quella tra fratelli (e sorelle) è la relazione di sangue di più lunga durata. Infatti, sopravviveremo ai nonni e ai genitori, e i figli continueranno a calpestare questa terra anche quando non ci saremo più. Le sorelle e i fratelli, invece, li abbiamo con noi dall’infanzia, non sono scelti ma dati, con loro abbiamo una relazione orizzontale, paritaria, li abbiamo vicini, ma anche sufficientemente distanti in modo da poterci distinguere. Il legame non viene sciolto nemmeno a fronte di periodi di lontananza o di incomprensione. La relazione fraterna è una risorsa insostituibile sempre a disposizione, e sempre bisognosa di nuovi equilibri, da trovare, passo dopo passo, nel corso di tutta una vita. Ora: che cosa succede quando tuo fratello o tua sorella è disabile? Che tipo di rapporto si instaura? Finora queste domande sembra se le siano fatte davvero in pochi. Sia nelle università, sia tra i familiari.

Osservare il mondo della disabilità – di tutti i generi: fisico, psichico, intellettivo, sensoriale – con gli occhi dei fratelli e delle sorelle, è un approccio innovativo. Addirittura le associazioni dei genitori, sempre molto attive a 360 gradi, lo hanno scoperto solo di recente. Cercando poi di recuperare il terreno perduto. È il caso dell’autorevole Anffas (Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva e/o relazionale), 14 mila soci e oltre mille centri, che ha deciso di dedicare l’agenda 2013 proprio a fratelli e sorelle. «Ci siamo resi conto – spiega il presidente nazionale, Roberto Speziale – che molto spesso, da genitori, relegavamo i nostri figli non disabili a una forma di marginalità, sia in casa che nella vita dell’associazione. Mettendoci in loro ascolto, abbiamo scoperto certo le loro criticità, ma anche che costituiscono una ricchezza e una risorsa inimmaginabili. Hanno accettato il familiare con disabilità con percorsi molto diversi da quelli compiuti da noi genitori. L’aver dedicato loro l’agenda vuol essere un gesto simbolico e per certi versi riparatorio per la sottovalutazione patita finora. Sul territorio, inoltre, abbiamo attivato delle sperimentazioni che li hanno coinvolti in prima persona». Si tratta di iniziative locali che vogliono valorizzare il loro punto di vista. È il caso di un project work realizzato, in collaborazione con la sezione padovana dell’Anffas, nel contesto del master in «Disabilità ed educazione inclusiva nelle istituzioni e nel territorio» del dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia, Psicologia applicata dell’Università di Padova. Silvia Rocca ha coinvolto alcuni fratelli e sorelle di una fascia d’età (sopra i 50 anni) particolarmente trascurata dalla ricerca. «Sono perlopiù persone – sostiene la dottoressa Rocca – che stanno già affrontando la fase del “dopo di noi”, ovvero che hanno già perso i genitori. Di conseguenza, hanno dovuto farsi carico della cura del fratello disabile grave, del suo progetto di vita, stimolarlo nelle sue autonomie, sostenerlo nella sua personalità. Non è facile, per nessuno. Significa pensare al futuro per valorizzare il presente».
 
Il «Comitato siblings»
Già, il futuro. È una dimensione che incombe. Che a volte spaventa. Che sicuramente condiziona la vita di un fratello e di una sorella di persone con disabilità. C’è un termine, mutuato dall’inglese, per definire queste persone: siblings. È anche il nome che si è dato la onlus «Comitato siblings», con sede a Roma, una delle prime e principali realtà di coordinamento italiane. «Il gruppo nasce nel 1997 – racconta Giulio Iraci, fratello di Francesco – dall’intuizione di una psicopedagogista che lavorava nell’Aipd (Associazione italiana persone down). Quando propose a me e ad altri fratelli e sorelle di incontrarci, eravamo noi stessi sorpresi, facevamo fatica anche solo a capire quale fosse il nostro specifico e non capivamo come l’auto mutuo aiuto avrebbe potuto aiutarci. Non era una modalità per alcolisti?». In realtà no. A quel primo incontro, infatti, ne seguirono altri, tanto che la «formula» inventata a Roma ha contagiato altri siblings in giro per l’Italia, all’insegna del confronto, della condivisione e del sostegno reciproco. I gruppi, autogestiti e indipendenti l’uno dall’altro, si tengono in contatto tramite una mailing list nazionale «attraverso la quale ci siamo scambiati ormai circa 25 mila e-mail» precisa Giulio Iraci, che di lavoro fa il professore di filosofia al liceo.

E la questione del futuro? «È uno degli argomenti più dibattuti, ma dipende dalla fase di vita che si sta attraversando. In genere nel gruppo si parte raccontando dell’infanzia, del primo impatto con la disabilità del fratello. Altro tema è la scuola, il rapporto con i compagni di classe e le scelte formative. Oppure la questione della vita affettiva, del partner. Che deve condividere, almeno in parte, la tua scelta di essere a fianco del familiare con disabilità. Ad esempio, mia moglie è belga, ma è stato inevitabile prendere casa a Roma, per poter essere vicini a Francesco. Ciò non significa che bisogna limitare la propria vita stante la relazione col fratello. Laddove è possibile, vanno fatte scelte che tengano conto delle aspettative. Ma con intelligenza». Sull’argomento «lavoro», anche grazie alla protesta dei siblings e di tanti che hanno a cuore il nostro welfare, solo a metà dicembre è stata scongiurata la decurtazione del 50 per cento dei permessi previsti dalla legge 104, per i disabili o per la cura dei parenti malati.

«Se fosse passata la proposta, noi fratelli non saremmo più riusciti a conciliare lavoro e assistenza dei nostri familiari. In alcuni casi, dopo la morte dei genitori, noi siamo l’unica risorsa umana di queste persone». Il «Comitato siblings» è attivo inoltre su diversi altri fronti, con attività di formazione e collaborazioni con gruppi di ricerca in Italia e all’estero.
 
In nave e in campeggio
«Sui fratelli ci saranno anche pochi studi, ma di progetti pratici ce ne sono meno ancora. Il nostro è uno dei pochi, forse l’unico». A parlare così è Stefania Azzali, presidente della onlus Ring 14 «e soprattutto – precisa – mamma di Federico, 17 anni, e di Matteo, 13». È il secondogenito a essere afflitto da «sindrome Ring 14», malattia genetica rara provocata da alterazioni del cromosoma 14. Per sentirsi un po’ meno «rari», e unire le forze, nel 2002 a Reggio Emilia viene fondata l’associazione, nella quale presto matura un’attenzione speciale anche per i siblings. «Io e mio marito ci siamo resi conto che, crescendo, Federico faceva sempre più fatica a rapportarsi con i coetanei, specie quando doveva parlare del fratello. Noi potevamo aiutarlo solo in parte: serviva un sostegno esterno. Da quest’intuizione, condivisa con altre famiglie, è nato nel 2009 il progetto “Essere sorelle o fratelli di…”». È così che una ventina di adolescenti, accomunati solo dall’avere un fratello o sorella con disabilità, hanno cominciato a incontrarsi in un contesto ludico, con l’assistenza di figure professionali (due educatori e uno psicologo). Momento clou del percorso, l’esperienza estiva. «Il primo e il secondo anno abbiamo organizzato per loro una vacanza in barca sul bregantino della fondazione Tender to nave di Genova, un’avventura che ha “costretto” gli adolescenti a vivere gomito a gomito. Nel 2011 e nel 2012 abbiamo coinvolto il gruppo in una vacanza sulle colline pistoiesi, al Dynamo Camp, primo centro ricreativo in Italia appositamente strutturato per minori affetti da patologie gravi e croniche in terapia. Infatti, in questo caso, in ambienti contigui c’eravamo anche noi genitori con i figli disabili».

L’iniziativa ha dato i suoi frutti, perché alcune dinamiche sono cambiate, come testimonia Stefania Azzali: «Sono stati smussati gli angoli. I ragazzi che avevano un approccio aggressivo sono stati aiutati a gestire la rabbia e a riconoscere il senso di colpa che quest’emozione provata nei confronti del fratello disabile provocava. La conseguenza è stata una maggiore serenità. Inoltre, si è intervenuti su un altro approccio eccessivo, in genere più femminile, ovvero il porsi come “terzo genitore”. Lo si è fatto promuovendo un distacco che garantisse alle sorelle di fare le sorelle con maggiore equilibrio».
 
Una casa a due piani
La storia che chiude questa carrellata di volti ed esperienze è davvero particolare. Loro sono Anna (20 anni), Giulia e Debora (19), di Trento. Sì, due gemelle, di cui Giulia con sindrome di down, a differenza di Debora. Tutte e tre sono le «testimonial» della già citata agenda 2013 dell’Anffas. Anche noi le prendiamo come tali, per la loro simpatia e schiettezza. «Quando mi presento – esordisce Debora – dico che ho una sorella più grande e una gemella, allora tutti “Oh, hai una gemella! Che bello!” e io non so mai come spiegarlo, perché poi, quando dici che ha la sindrome di down, ti guardano come se avessi detto: “Mi è morta la mamma”. Lo sguardo è quello».

Giulia, dal canto suo, immagina un futuro in compagnia delle sorelle: «Anzi, ho un’idea! Facciamo una casa a due piani, così io sto sopra e voi sotto». Lo scambio sarebbe reciproco, perché anche Giulia porta il suo contributo: «Le aiuto a superare i loro problemi, anche se a volte non le so aiutare». Debora, ha le idee chiare sulla preziosità della sorella: «Ci ha insegnato ad apprezzare ogni cosa. Lei fa una festa se tu le regali “un pezzo di niente”; se le dici “ti voglio bene” è felice tutto il giorno». 

Anche Anna è d’accordo. «Se tu arrivi a casa triste magari gli altri non se ne accorgono, impegnati nelle loro cose, lei invece lo capisce sempre, e ti abbraccia». Piccole donne crescono. Insieme.
 
 

Notes
È così che ti vedo

 
E le persone con gravi disabilità intellettiva e relazionale, come vedono le loro sorelle e i loro fratelli? La domanda è stata girata ad alcuni di loro, che insieme costituiscono il Gruppo Dante della fondazione Patavium Anffas Padova. La risposta è una composizione poetica, dal titolo Fratelli, scritta a più mani con l’assistenza degli educatori professionisti del Centro diurno nel corso del laboratorio «Officina di poesia». Capita a tutti, prima o poi, siamo noi fratelli la nostra famiglia. Proviamo gli stessi sentimenti, amore, un po’ di paura e solitudine e sperare. Mia sorella mi ha parlato. Ricordi di mamma, la gentilezza del papà. Ero il tuo bambolotto. Quando non c’era, ti chiamavo mamma. Ricordi d’infanzia dormivamo insieme, giocavamo a “compiti”, mi rubavi i giochi di Natale e mi portavi con te per il ballo e alle feste. Sei come l’aceto e come una Madonna fugace come una goccia d’acqua, forte e buono come un genitore, sei un vento che mi travolge al futuro.
 
 
Roberta Caldin
Genitori, mai defilarsi dalle domande
 
La condizione dei siblings è del tutto particolare. Per capire meglio quali dinamiche si innescano e quali percorsi possono essere attivati da genitori ed educatori, abbiamo interpellato Roberta Caldin, docente di Pedagogia speciale all’Università di Bologna.

Msa. Le esperienze dei singoli fratelli e sorelle sono molteplici: quali gli elementi comuni?
Caldin. Tutte le ricerche sostengono che esiste una penalizzazione non tanto del figlio con disabilità, quanto di suo fratello/sorella. Si rischia di concentrare l’attenzione solo sul bambino che rende più evidente il bisogno d’aiuto. All’adulto viene spontaneo regolarsi di conseguenza, trascurando le relazioni con gli altri figli. Sui quali, tuttavia, si sovrainveste, caricandoli di aspettative. A volte, è lo stesso bambino non disabile a «recitare una parte», calandosi nei panni dell’ometto o della donnina, oppure – più nel caso del secondogenito – facendo il pagliaccio che sdrammatizza le tensioni.

Spesso i fratelli sono descritti solo nelle loro problematicità, trascurati o iper responsabilizzati. Come recuperare una visione che si apra a una progettualità?
La chiave per una crescita armoniosa dei siblings è l’azione dei genitori. I problemi possono essere almeno in parte prevenuti. La situazione è simile a quella che si crea quando ci sono gelosie tra fratelli. È una tensione che si può sciogliere riservando un po’ di tempo a ciascuno, in alcune occasioni portandoli fuori da soli, cose così. Sono indicazioni semplici, di buon senso. Lo sforzo preliminare per un genitore, tuttavia, è creare uno spazio ai fratelli e sorelle nella propria mente. Poi, in realtà, ciascun fratello e sorella ha le sue risorse, quindi c’è chi risponde in maniera positiva, chi meno.

Ci sono sottolineature di genere?
Sì. Sono le figlie femmine, specie se primogenite, a testimoniarci di essere state investite della cura futura del fratello o della sorella disabile, volenti o nolenti. Ai maschi, invece, questo viene in parte risparmiato.

In tema di responsabilità, a chi troppo e a chi niente, quindi.
Entrambe le forme sono eccessive. Ma c’è un giusto grado di responsabilizzazione, un coinvolgimento educativo rispettoso della personalità del fratello. Un discorso a parte merita l’adolescenza, periodo nel quale i ragazzi amano pensare solo a se stessi. In questa fase, un certo disinteresse rientra nella fisiologia delle cose.

In quali trabocchetti educativi gli adulti devono evitare di cadere?
Ne segnalo solo uno, frutto di una ricerca che abbiamo realizzato nel territorio bolognese, e che per la prima volta ha affrontato il tema della comunicazione della diagnosi ai siblings. È emersa l’importanza di un adeguato accompagnamento, in ogni fase d’età, nel comprendere la disabilità del fratello.

Qualche esempio?
L’annuncio della nascita: il papà che telefona a casa della nonna al figlio di 6 anni per avvertire che la mamma, dopo il parto, sta bene. «E il fratellino?». Anche lui sta bene, però «non è normale». Mette giù il telefono e basta. La comunicazione della diagnosi è un processo. Seguendo le fasi di crescita, bisogna trasmettere informazioni adatte all’età e al livello di comprensione, senza defilarsi mai dalle domande, altrimenti non si crea un’appartenenza, ma una distanza. L’altro verrà sentito come irrecuperabilmente diverso, ingestibile.

È solo questione di comunicazione?
No. Molto pesano le regole famigliari. Il bambino disabile nelle cose di casa non può essere un privilegiato rispetto ai suoi pari, uno che mangia merendine quando vuole, che ha il monopolio della tv, e via dicendo. Questi piccoli elementi separano i fratelli. Invece, un’osservazione dei principi minimi delle regole famigliari anche da parte del bimbo disabile è un buon fattore protettivo del legame tra fratelli.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017