L'intervista. Marcelo Barros

Alla vigilia della Giornata mondiale della gioventù abbiamo incontrato il teologo brasiliano Marcelo Barros, che ci ha tratteggiato il nuovo volto del Paese che si appresta ad accogliere due milioni di giovani da tutto il mondo.
29 Luglio 2013 | di

«Il Brasile è un Paese di 200 milioni di abitanti. Con una società pluralista, come quella di quasi tutto il mondo attuale, che è passata molto rapidamente da una cultura rurale a una urbanizzata: oggi l’80 per cento dei brasiliani vive nelle città, le quali, però, non riescono ad assorbire i nuovi arrivati. Così, le persone che giungono dalla campagna vanno ad abitare nelle baracche e questo contribuisce a creare una realtà sociale difficile. Gli ultimi governi hanno sviluppato dei programmi di emergenza che hanno alleviato la miseria, ma non sono riusciti a realizzare cambiamenti strutturali. È stato solo garantito un po’ di denaro in più, nient’altro. Dieci anni fa la gente (sto parlando di 38 milioni di brasiliani) mangiava una volta al giorno, ora mangia due volte: non è poco, ma non basta. Ripeto: bisogna fare riforme strutturali, come, per esempio, la riforma agraria auspicata da tempo». A leggere queste parole del benedettino Marcelo Barros (rilasciate durante un lungo incontro avvenuto a metà maggio), verrebbe da dire che le proteste di piazza contro carovita e corruzione scoppiate di recente nel più grande Pae­se latinomericano erano prevedibili. Anche se, per noi abitanti della vecchia Europa, il Brasile fino a un mese fa era solo (al pari di quasi tutti gli altri Paesi del Brics, cioè, oltre al Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), la nazione del miracolo, del Pil che cresce a ritmi vertiginosi, piena di energie e di promesse.

Il Paese dei prossimi Mondiali (2014) e poi, a seguire, delle Olimpiadi (2016); che stava cancellando le favelas (o almeno questo ci raccontavano). Il Paese che, dal 23 al 28 luglio, accoglierà la XXVIII Giornata mondiale della gioventù e, con essa, papa Francesco nel suo primo viaggio apostolico. Per fare il punto su quest’ultimo importante evento, abbiamo approfittato del passaggio in Italia del teologo e biblista brasiliano Marcelo Barros, profondo conoscitore della Chiesa latinoamericana.

Msa. Padre Marcelo, come la mettiamo con il Brasile della crescita esponenziale?
Barros. Il prodotto interno lordo negli ultimi anni è cresciuto molto, è vero. Ma le disuguaglianze non sono state azzerate. La crescita miracolosa ha avuto ripercussioni sullo Stato, ma non sulla gran parte della popolazione che è rimasta assolutamente ai margini e non ne ha goduto. Altrettanto non si può dire di altri Paesi sudamericani, come Ecuador, Bolivia e Venezuela. Quest’ultimo, in particolare, è lo Stato che più ha ridotto la disuguaglianza sociale negli ultimi dieci anni.

Che tipo di Chiesa è quella latinoamericana?
Il cristianesimo in America Latina è indubbiamente vivo, anche grazie alle numerose figure profetiche di cui la Chiesa ha goduto. Uomini come il vescovo che mi ha formato, Helder Camara, che è stato uno dei padri del Concilio Vaticano II più influenti e importanti. Un vescovo che ha saputo guardare lontano: è lui che ha creato la prima Conferenza episcopale del mondo, quella brasiliana appunto, e che poi ha voluto il Consiglio episcopale latinoamericano (il Celam). Ma non è stato il solo. Immediatamente dopo il Concilio, infatti, i vescovi latinoamericani si sono ritrovati per la prima conferenza di Medellín (Colombia, 1968) dove non solo hanno adattato il Concilio all’America Latina, ma di fatto hanno dato un volto latinoamericano alla Chiesa cattolica locale. Da questo momento in poi la Chiesa nell’America del Sud si è particolarmente caratterizzata per l’attenzione ai poveri, si è posta al loro servizio, non disdegnando di entrare anche nel merito delle questioni sociali. Dunque la storia della Chiesa in America Latina è una storia molto bella, profonda, costellata anche di tanti martiri. Negli ultimi anni, a partire da un cambiamento che tutto il mondo ha sofferto, questa profezia è stata meno visibile, la Chiesa è divenuta più istituzionale, si è come addormentata. Però è ancora viva: ci sono comunità molto attive. Proprio in questo periodo in Brasile stiamo preparando il XIII incontro nazionale delle comunità ecclesiali di base, gruppi di cristiani, uniti alle parrocchie e ai vescovi, che cercano di collegare sempre di più fede e vita, spiritualità e azioni capaci di trasformare il mondo.

C’è ancora spazio oggi nella Chiesa per la profezia?
La profezia nella Chiesa, nella storia, è sempre stata minoritaria e un po’ marginale. Gesù voleva una Chiesa profetica, ma il suo desiderio non sempre si è realizzato. La tendenza normale dell’istituzione, di ogni istituzione, è infatti quella di autoproteggersi, di pensarsi in funzione di se stessa, ma così facendo abbandona la profezia. Però sempre e in ogni momento della storia ci sono stati profeti e profetesse. E anche oggi ci sono. Non dobbiamo immaginarli come eroi o persone speciali: sono individui normali, nei quali agisce lo spirito di Dio. Molte persone semplici, comuni, vivono la profezia, cioè la testimonianza del Regno di Dio, del progetto di Dio per il mondo. E lo fanno giorno per giorno, nella quotidianità. Ci sono molti vescovi, preti, religiosi e religiose che appoggiano queste persone, ma non sono loro i protagonisti principali.

Quale Chiesa troverà dunque papa Francesco in Brasile?
È molto difficile generalizzare, perché la situazione è diversa da zona a zona, però direi che complessivamente le Chiese cristiane godono in Brasile di una buona credibilità e non sono ancora una minoranza come invece succede in Europa. Nei censimenti degli anni ’60-’70 la Chiesa cattolica era al 98 per cento, anche se molti si dicevano cattolici ma poi non frequentavano; oggi siamo al 72 per cento. Nel contempo, sono cresciute molto le Chiese pentecostali e oggi, rispetto a vent’anni fa, c’è complessivamente una grande diversità religiosa. Il Papa quindi troverà a Rio una società diversificata e pluralista anche dal punto di vista religioso.

Quali frutti possiamo attenderci dalla prossima Gmg?
Io vedo nella Giornata mondiale della gioventù una grande opportunità, ma dipende da come essa verrà «sfruttata». Mi spiego: se ci si ferma solo al grande raduno, al fatto che i giovani vedono il Papa, si rasenta il folclore. Se invece la Gmg diventa occasione, al di là dell’evento, perché la gioventù possa trovare realmente nella Chiesa un appoggio, comunità dove poter vivere il Vangelo, allora direi che ha raggiunto il suo obiettivo. Quando io ero giovane, nelle comunità cristiane c’erano tanti gruppi di ragazzi cui la Chiesa offriva occasioni di discussione, di approfondimento su che cosa fosse il mondo, la società… Oggi i ragazzi sono più abbandonati. Venire in massa per due, tre giorni a vedere il Papa, non cambia la situazione. Bisogna aiutare la Chiesa ad aprirsi nuovamente ai giovani. Non voglio dire che non ci siano ragazzi nelle parrocchie: in Brasile, come qui in Italia, le comunità parrocchiali sono piene di giovani, ma essi si limitano a cantare nelle messe o poco più. E invece io credo che questo, pur non essendo sbagliato, non basti. È la Chiesa che deve servire i giovani, non il contrario.

Come tradurre questo auspicio in realtà?
Curando la fase di preparazione della Gmg. Se quest’ultima viene fatta seriamente, se nelle parrocchie e nelle diocesi si creano cioè occasioni di riflessione, si getta un seme di cambiamento. Se invece ci si limita ad arrivare al luogo dell’incontro senza un cammino serio alle spalle, e poi si indirizzano i giovani nelle varie chiese dove ci sono sacerdoti che confessano nelle diverse lingue, dove si parla loro solo del catechismo tradizionale, allora questa occasione andrà persa. Bisogna aprire un dialogo vero, non dogmatico, tra Chiesa e giovani: la Chiesa deve porsi la sfida di conquistarli. Quando, nel Vangelo, il giovane ricco incontra Gesù, gli chiede: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?». Oggi diremmo: «Che cosa devo fare per essere felice?». In una società crudele con la gioventù, violenta, dove regna la disoccupazione, come possiamo parlare di felicità? La Chiesa deve stringere un’allean­za con i ragazzi per cambiare le cose. Se non accade, le Gmg non servono.

Che cosa ha significato per l’America Latina l’elezione di Jorge Mario Bergoglio?
Io leggo l’elezione di Bergoglio come un desiderio di cambiamento nella Chiesa. Però la questione centrale non è il Papa, è la struttura. Oggi sono entrato in una libreria cattolica e sugli scaffali ho trovato moltissimi libri sul Papa che si occupavano di aspetti marginali: se il Papa ride, se il Papa piange, se si inginocchia… Attenti: così rischiamo di creare una sorta di «papolatria», una specie di religione civile che non ha nulla a che vedere con il Vangelo, né con la profezia o con la tradizione più profonda della fede. La vera novità di papa Francesco, al di là delle scelte personali di non abitare nei palazzi, di non indossare le scarpe rosse, al di là della sua indubbia simpatia e della capacità comunicativa, sta nell’essersi presentato sin da subito come vescovo di Roma. Se lui porta avanti fino in fondo questa scelta, rispettando le Chiese locali, allora le cose cambieranno sul serio.

Quali sono le sfide più immediate con cui la Chiesa dovrà confrontarsi?
Dobbiamo riaprire quel dialogo con la società avviato da Giovanni XXIII durante il Concilio. E papa Francesco sembra volersi muovere proprio in questa direzione. Ma, ancor prima, dobbiamo tornare al Vangelo: la Chiesa parla molto di evangelizzazione per gli altri, ma non si preoccupa di evangelizzare se stessa. E invece da qui dobbiamo partire. Oggi il mondo ci vede come una struttura che ha poco a che fare con il Vangelo, e non parlo di corruzione economica, pedofilia, o di problemi scandalosi, parlo della struttura. Oggi, se entriamo nei conventi, spesso troviamo solo dei vecchietti o delle vecchiette vestiti in modo strano, che vivono in strutture immense. Quale segno di profezia sono per il mondo? Bisogna tornare al Vangelo, dobbiamo fare ciò che Francesco d’Assisi realizzò nel 1200.
 

La scheda
 

Marcelo Barros nasce a Recife, nel Nordest del Brasile, nel 1944. Entrato nel monastero benedettino della sua città a 18 anni, dal 1967 al 1969, senza staccarsi dal monastero, fa parte di una comunità ecumenica con i fratelli di Taizè. È ordinato sacerdote nel 1969 da dom Helder Camara, il vescovo dei poveri, di cui rimane a lungo stretto collaboratore. Trent’anni fa fonda, insieme con altri monaci, il Monastero dell’Annunciazione a Goias, nel centro del Brasile. Teologo tra i più apprezzati a livello internazionale, è membro dell’Associazione ecumenica dei teologi del Terzo Mondo-Asett. È autore di oltre quaranta volumi, tra i quali ricordiamo: Ecologia e spiritualità (Rete Radié Resch, 2010), Dom Hélder C`mara. Profeta per i nostri giorni (EGA, 2006); con la EMI ha pubblicato Il Vangelo che libera (2012), Il baule dello Scriba (2011, 2° ed.) e Vita (2007).

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017