L'Europa fa gola a chi non ce l'ha

Mentre la ratifica al Trattato costituzionale europeo è minacciato dal no degli scontenti, cresce il numero dei Paesi che vogliono far parte dell'Unione.
26 Maggio 2005 | di

Questo 2005 è l'anno della ratifica, da parte dei vari popoli europei, del Trattato costituzionale europeo. Firmato solennemente nella sala degli Orazi e Curiazi al Campidoglio di Roma, l'ottobre scorso, è in corso la sua convalida, o per via parlamentare o attraverso referendum. E qui cominciano i problemi, forse imprevisti. Nessun dubbio dove si è scelta la via parlamentare, perché la stragrande maggioranza dei partiti voterà  a favore. I patemi d'animo sorgono per i referendum. Ha inizio la Spagna in febbraio: sì massicci, ma una percentuale di elettori inferiore al previsto, meno della metà  dell'elettorato, solo il 42,30 per cento. Un'altra cascata di referendum è attesa a cavallo tra l'estate e l'autunno: Portogallo, Irlanda e Lussemburgo, Polonia. Ma il più importante, il più decisivo, è il referendum in Francia di domenica 29 maggio. Mentre io sto scrivendo questo articolo non conosco ancora il suo risultato, che sarà  invece noto ai lettori quando la nostra rivista verrà  distribuita. Le previsioni sono molto incerte, si parla addirittura di una prevalenza di no. Come è possibile? All'entusiasmo del 2004 è succeduta la delusione?
Indubbiamente circola tra i cittadini europei un certo malessere. Provocato dalla situazione economica. L'economia europea cresce meno della media mondiale, è quasi la metà  in meno della crescita degli Usa che pure, come l'Unione europea, sono un'economia matura. Alcuni, confondendo gli effetti con le cause, puntano il dito sull'euro (non pensando a cosa sarebbe successo a una moneta nazionale, tipo la lira, in casi analoghi, cioè una svalutazione continua e un'inflazione ben più alta). L'euro ha avuto il merito storico di tener ferma l'inflazione e di essersi imposto come moneta stabile e forte, apprezzata e diffusa sul piano internazionale. È indubbio che la Banca centrale europea, con sede a Francoforte, ha privilegiato la stabilità  allo sviluppo. Ma ora, con una rilettura più elastica dei criteri di Maastricht, sarà  possibile sforare con le spese destinate a importanti infrastrutture e alle riforme. La lentezza dei singoli Paesi a introdurre riforme incisive nei campi previdenziali e sanitario sono le vere cause dei deficit ricorrenti. Non si può quindi attribuire alle autorità  europee colpe che appartengono piuttosto ai vari governi, a quasi tutti i governi. Che dovrebbero avere il coraggio di parlar più chiaro ai propri cittadini.
Ma, al di là  dei governi, si sente l'esigenza di un rinnovato slancio europeo, visto che l'Europa rimane ancora l'obiettivo, l'ideale del nostro tempo. E non ci possiamo accontentare dei risultati raggiunti, ma altri dobbiamo porre e realizzare, ad esempio una vera iniziativa europea sul piano internazionale per superare un mondo in cui sembra esistere (e dettar legge) solo la superpotenza statunitense.

Lunga la fila dei «postulanti»

Una controprova del «bisogno d'Europa» viene dai Paesi che non ne fanno parte. Premono alle porte d'Europa tanti nuovi postulanti desiderosi di essere accolti. Romania e Bulgaria già  sanno che la loro adesione sarà  sancita tra due anni, nel 2007. La Turchia si avvia, sia pure a passetti, verso le riforme sui diritti umani richiesti dall'adesione (l'ultima è l'istituzione di una commissione destinata a rievocare l'eccidio degli armeni nel 1915, rimasto sino ad oggi argomento tabù). La Croazia ha già  avuto assicurazioni su una prossima adesione.
Ma c'è tutto un affollamento di nuove richieste, anche da lontananze impensabili. I popoli all'est dell'Unione che hanno compiuto recentemente delle rivoluzioni democratiche, ora vogliono essere accolti nell'Europa comunitaria. Il nuovo presidente dell'Ucraina, e leader della rivoluzione arancione, Viktor Yuscenko, è volato a Bruxelles e Strasburgo, sede delle istituzioni europee, nei suoi primi viaggi da capo di Stato. Lo stesso ha fatto Mikhail Saakashvili, il promotore della rivoluzione delle rose in Georgia.
Ma anche governi più tradizionali, come quello dell'Armenia, o della Moldavia, fanno sapere della loro impazienza d'Europa. Mentre nei Balcani la soluzione di altrimenti insolubili scontri etnici - in Kosovo, in Bosnia - troveranno composizione solo in un'adesione all'Europa dalle etnie diverse.
Sembra difficile che Paesi così lontani geograficamente, come Armenia e Georgia, possano un giorno far parte dell'Unione europea. Con loro saranno più facili rapporti privilegiati di collaborazione. Ma l'Ucraina è un grande Paese (due volte l'Italia) che, un giorno, potrà  diventare la propaggine orientale della nostra Europa unita. Potremmo commentare: l'ideale della unificazione europea tira ancora, si tratta di ravvivarlo in chi pensa di averlo già  realizzato e si ferma a delle tappe che sono, invece, scalini da salire.

In Francia i sondaggi dicono «no»

Torniamo al referendum francese. Alla vigilia, i no sono dati prevalenti nei sondaggi, anche se la maggioranza dei partiti inviterà  a votare sì. C'è il rischio che si insinuino altri interessi meno europei, la volontà  di sconfessare l'attuale governo e forse l'intera classe politica francese. Sarebbe, da parte dell'elettorato, un calcolo miope e autolesionista. Uno stop all'adesione, soprattutto se venisse da un grande Paese come la Francia, potrebbe pregiudicare tutto l'iter europeo, rendere nulle le riforme costituzionali previste nel Trattato europeo. Speriamo che i sondaggi della vigilia vengano smentiti dalle urne, che quando leggerete queste righe già  possiamo tirare tutti un sospiro di sollievo per «scampato pericolo».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017