Lettere al Direttore

28 Ottobre 2008 | di


 

Lettera del mese. Bioetica


Fecondazione assistita e volontà di Dio

Compito della Chiesa è proteggere la vita umana in ogni fase dell’esistenza.


«Ho 35 anni e quando, quattro anni fa, mi sono sposata, io e mio marito desideravamo tanti bambini. Purtroppo questo non è successo, e il dispiacere e l’angoscia che ci portiamo dentro da quando ci è stato comunicato che non potremo concepire un figlio in modo naturale sono indescrivibili. Fa davvero male dover sentire da parenti e conoscenti commenti e richieste sul perché non abbiamo ancora “deciso” di fare un figlio, e mi chiedo perché nessuno riflette sul fatto che non sempre a decidere sulla nostra sorte siamo noi. Forse prima pensavo anch’io che bastasse “decidere” e tutto sarebbe successo, ma mi sono dovuta ricredere. (…) Vengo al dunque: perché la Chiesa condanna la fecondazione assistita? Forse che i bambini nati con l’aiuto della scienza non sono anche loro figli di Dio? Considerata la mia età, dovrò decidermi in fretta. Finora ho sempre rispettato le disposizioni della Chiesa, ed ecco perché, d’accordo con mio marito, ho scelto di non sottopormi alla fecondazione assistita. (…) Ma davvero queste tecniche vanno contro la volontà del Signore?».

Lettera firmata


Premetto che affronta­re questi temi attraverso una lettera è sempre molto difficile; nulla può sostituire la delicatezza e la profondità di un confronto personale con un sacerdote, meglio se esperto di bioetica. Ma voglio comunque condividere con lei alcune riflessioni, nella speranza di riuscire a trasmetterle un po’ di quell’amore materno che all’interno della Chiesa non viene mai meno. Gli interventi qualunquisti e superficiali di chi si sente autorizzato a prendere posizione senza conoscere da vicino i problemi e senza un’autentica disponibilità all’ascolto servono solo ad acuire la sofferenza e l’angoscia. Credo, invece, che il primo compito sia quello di comprendere che l’impossibilità di realizzare il desiderio di diventare genitore è sempre percepita come una sconfitta personale, talvolta così lacerante e profonda da mettere in questione l’immagine stessa di Dio buono e fedele. E invece Dio non è crudele e non castiga: non si tratta di ricercare colpe, ma di affrontare con coraggio umano e fede cristiana una situazione dolorosa che mette alla prova lei e suo marito. L’ingrediente migliore per reagire, d’altronde, non vi manca: è l’amore che vi unisce e che sta alla base del vostro progetto familiare.

Quale via imboccare, allora? La Chiesa esclude soltanto quegli aiuti tecnici che si rivelano disumanizzanti per il figlio e per la coppia. Vi è la possibilità di fare ricorso alle terapie per l’infertilità e alle tecniche di procreazione medicalmente assistita che non comportano la distruzione di embrioni umani e che rispettano il significato unitivo e procreativo della sessualità coniugale. Cioè quelle metodologie biomediche che, senza sostituirsi ai coniugi, rappresentano un vero e proprio aiuto nello svolgimento del processo generativo. Si intende, così, proteggere la vita umana in ogni fase della sua esistenza e si cerca di tutelare il contesto autenticamente umano in cui deve avvenire la procreazione, senza trasformare il frutto dell’amore umano degli sposi in un prodotto di laboratorio. Se poi un bambino venisse al mondo attraverso modalità non approvate dalla Chiesa, comunque andrà accolto come un dono vivente della bontà divina, potrà essere battezzato e andrà educato con amore. Mi permetto di aggiungere un’ultima considerazione di fronte alla peggiore delle ipotesi, se cioè neppure con l’aiuto delle tecniche lecite fosse possibile avere un figlio. Per esperienza ritengo che l’amore di quanti desiderano diventare genitori senza riuscirci sia davvero tanto grande da giungere anche a trasformare questo scacco in una modalità alternativa di «fecondità coniugale» – come l’adozione o altra forma di servizio alla vita – che riesce a mutare la loro ferita in una sorgente zampillante per chi ha sete di amore. Mi auguro che il Signore, in ogni caso, la sorprenda come solo lui sa fare.



«Lui non vuole sposarsi: lo lascio?»

«Caro direttore, sono una “ragazza” di 35 anni, fidanzata da dodici con un coetaneo. Saranno almeno cinque-sei anni che parliamo di matrimonio, da quando cioè entrambi abbiamo trovato un lavoro, ma, appunto, ci limitiamo a parlarne. Perché? Perché lui è eternamente indeciso. Eppure, almeno a parole, dice di amarmi e di voler costruire con me una famiglia, ma non si sente ancora pronto. Io, invece, sento che è il momento di fare delle scelte: voglio dei figli, voglio una famiglia, ma se aspetto ancora un po’ rischio di non poter avere più né gli uni né l’altra. Che cosa devo fare secondo lei? Insistere, oppure, come mi consigliano tante amiche, lasciarlo nella speranza di innamorarmi di una persona più matura e responsabile?».

Lettera firmata


Difficile esprimere un parere obiettivo senza conoscere personalmente né lei né il suo fidanzato. Molteplici, infatti, possono essere le ragioni di questa indecisione e solo voi potete sapere quali esse siano: io posso limitarmi alle ipotesi. Al primo posto metterei una possibile immaturità, una sorta di sindrome di Peter Pan che vede tanti giovani, uomini e donne, considerarsi ancora poco più che adolescenti (e di questi, quindi, adottare gli atteggiamenti…) nonostante l’età decisamente matura. Oppure l’incapacità di affrontare dei sacrifici: si sa che un passo come il matrimonio comporta anche dei precisi impegni nei confronti del coniuge e dei futuri figli, e quindi la capacità di non mettere al primo posto solo se stessi e i propri bisogni o desideri. Ancora: la paura di una scelta «per sempre», in un tempo in cui il relativismo, anche in campo relazionale, sembra avere la meglio. Infine (e spero di non ferirla), la mancanza di un sentimento profondo: dodici anni di fidanzamento sono tanti, e in un periodo così lungo voi potreste essere cresciuti in modo diverso e, senza rendervene conto, esservi allontanati l’uno dall’altro. Il fidanzamento deve servire a conoscersi, a valutare affinità caratteriali e valoriali, a gettare le basi per un futuro comune oltre che, naturalmente, a verificare i propri sentimenti. Quando si protrae troppo a lungo senza ragioni oggettive, in genere c’è qualcosa che non va: per due persone che si amano, infatti, il desiderio di vivere insieme, di realizzare il proprio progetto di vita a due è molto più forte delle paure. Che fare, dunque? Parli sinceramente con il suo fidanzato, cercando di capire i motivi della sua indecisione: potrebbe chiedergli, per esempio, come immagina il suo futuro tra quattro o cinque anni e, soprattutto, se lo immagina insieme con lei. Dalla risposta potrà intuire qual è il problema alla base della sua indecisione e agire di conseguenza. Se si trattasse semplicemente di infantilismo, potrebbe essere lei a fare il primo passo, mettendo il suo fidanzato di fronte a una scelta obbligata: «O ci sposiamo o ci lasciamo». In questo caso una sana e salutare «scossa», legata alla paura di perderla, potrebbe aiutarlo a superare la cronica indecisione. Se, invece, è il sentimento a essere cambiato, è meglio che abbandoni il campo, con tutta la sofferenza che questa scelta inevitabilmente comporterà. Il matrimonio è anche una realtà difficile, che va costruita giorno per giorno, nella quale ci si può scontrare con problemi e incomprensioni. Dovete essere certi dei vostri sentimenti ed entusiasti di partire insieme per questa nuova avventura. Se agli inizi manca l’entusiasmo (che comunque dovrebbe accompagnarvi sempre nel vostro cammino a due) che cosa farete quando vi si presenteranno quei problemi, piccoli o grandi, che la vita non fa mancare mai a nessuno?


Quel dolore che ci accomuna

La nostra rivista ormai da tempo dedica spazio al tema della perdita e del lutto. Negli anni si è costruito con i lettori un dialogo aperto e sincero che è innanzitutto condivisione, libertà di esprimere il proprio dolore, comunanza di vita e di preghiera. Un dialogo di cui andiamo orgogliosi in una società che ignora la morte e lascia sole le persone proprio nel momento in cui essere comunità è fondamentale.

Qui al «Messaggero», grazie alle tantissime lettere arrivate per pregare insieme nel giorno dei defunti, questa comunità è un corpo vivo in cerca di luce. Ecco perché abbiamo scelto di condividere con tutti i nostri lettori alcune di queste testimonianze, riportando stralci di lettere.

Gina è sopraffatta dal dolore e dal non senso per la perdita del piccolo Simone, 12 anni (figlio unico e unico nipote): «Perché i suoi disperati genitori, i suoi nonni, gli zii tutti, con tutto il loro affetto e il loro amore non sono riusciti a strapparlo dalla morte? Perché il Signore ha permesso tutto questo?... Ora c’è tanto vuoto e tanta tristezza; nessuna parola bella riesce a consolarli e forse sono arrabbiati con il Signore».

Massimiliano è morto da tre anni e per papà Andrea e mamma Consolina quel figlio rimane un dono del cielo: «Ragazzo solare, umile, sempre dalla parte dei più deboli, forte nell’affrontare i momenti bui della sua vita e di quella degli altri...». È ancora difficile accettare, soprattutto dopo aver tanto lottato: «Mia moglie gli ha donato il rene senza pensarci neanche un istante. Ma neppure questo è valso a salvarlo. A che cosa sono servite le nostre preghiere? A volte la fede vacilla, ma poi non possiamo fare a meno di pregare per nostro figlio».

C’è chi invece vive in uno stato d’irrealtà, sospeso, incapace d’interiorizzare la perdita: «È strano, caro padre direttore – scrive Elio – la perdita di mia moglie Marina continua a procurarmi non un grande dolore ma un senso di smarrimento, di vuoto: un silenzio che spesso mi costringe a turarmi le orecchie... è forse la mia insensibilità? Il rimorso per le parole non dette, le carezze non fatte? È come se non mi fossi ancora reso conto del distacco».

Per altri invece la morte ha intensificato e reso strettissimo il legame. È il caso di Paola che ha perso il fratello più amato ma che trova consolazione proprio in un dialogo quotidiano con lui: «Mi manca molto. So che lui è con me tutti i momenti. Così alle volte mi trovo a parlargli, a chiedergli la sua protezione».

Per Ilio la moglie Emilia è una presenza così vicina e partecipe che sente il bisogno di scriverle: «Emilia, oggi avresti compiuto ottantuno anni e io, come da tuo desiderio, ti avrei dato un bacio di augurio perché a te piacevano le cose semplici, senza frasi di convenienza... Mi manchi molto... sei giornalmente nei miei pensieri e non ti disturbino le mie angosce dovute alla mancanza dei magnifici 50 anni trascorsi insieme. Un caro abbraccio, tuo Ilio».

Ma è la fede la grande consolazione per molti lettori. Angelo ha 29 anni e tanti lutti alle spalle: prima il fratello quando aveva 14 anni, poi la madre a 21, infine il padre a 25: «Ho sempre cercato nella preghiera la forza per andare avanti. Pur essendo l’ultimo di sei figli ho cercato di gestire da solo le situazioni di malattia e di dar forza alle mie sorelle più grandi per continuare a vivere nella speranza che i nostri cari ci sono vicini».

Ma ciò che più commuove è la gratitudine di tanti: «Sono vedovo con un figlio disabile. Voglio dirvi grazie perchè mi date tanta forza. Sono devoto a sant’Antonio e lo porto sempre nel cuore... Grazie per le vostre preghiere, grazie perché esistete».


Che scacco non avere lo zainetto alla moda

«Più volte lei tocca nelle sue lettere il tema dell’educazione, sottolineando che si tratta di un percorso faticoso che ci mette in gioco come genitori. A noi quindi il ruolo di testimoniare ciò che è importante. In teoria è tutto giusto, però, mi creda, caro padre, la pratica è tutta un’altra cosa. Le faccio un esempio banale. Oggi vanno molto di moda i Gormiti, i mostriciattoli colorati di cui sono piene le nostre case. È difficile zigzagare al supermercato senza incontrarli: dalle patatine al completino intimo, dall’astuccio alle scarpe. Stufa dell’andazzo ho spiegato a mio figlio che tutto ciò non aveva senso. Lui si è convinto, almeno così pareva, e per la scuola ha scelto un anonimo zainetto. Non le dico il suo imbarazzo quando ha visto che tutti in classe sfoggiavano zainetti alla moda e quasi quasi lo prendevano in giro. Le confesso che una parte di me, a quel punto, si è sentita mortificata per averlo messo in difficoltà».

Lettera firmata


L’educazione è un processo difficile ma è anche un processo creativo, nel senso che i genitori, e in genere gli educatori, non devono a mio parere limitarsi solo a dire o a testimoniare i valori ma devono anche cercare le vie più adatte alla situazione per trasmettere significato. Nell’esempio specifico, penso che il consumismo sia una delle sfide ma che sia inutile demonizzarlo, meglio relativizzarlo. Se si cede alla cartella blasonata l’importante è che essa non diventi un fine: le cose importanti stanno altrove. Se invece, come nel suo caso, la scelta è stata diversa, non si penta e non si contraddica: faccia lo sforzo creativo per trasformare un apparente svantaggio in un’opportunità. Come? A me è venuta un’idea, anche se sicuramente ce ne sono altre. Aiuti suo figlio a decorare quello zainetto così anonimo con tutti i personaggi e i colori che a lui piacciono: toppe, stemmi, disegni, spille e quant’altro. Un giorno dopo l’altro. Quello zainetto diventerà bello ai suoi occhi, frutto delle sue piccole fatiche, magari anche alla moda, ma soprattutto sarà suo, unico e inimitabile.



Incontri al “Messaggero”


Mercoledì 15 ottobre il «Messaggero» ha ricevuto un ospite d’eccezione, padre Pierbattista Pizzaballa, francescano, Custode di Terra Santa. Vera autorità morale non solo per i cattolici ma anche per i cristiani di varie appartenenze, la figura del frate Custode di Terra Santa si collega direttamente alla presenza in quei luoghi di san Francesco, il quale, nel suo pellegrinaggio di pace

e di riconciliazione, incontrò a Damietta, nel 1219, il sultano d’Egitto Melek-el-Kamel. Intervistato dai giornalisti del «Messaggero» padre Pizzaballa ha sottolineato l’importanza del restare in Terra Santa nonostante le tante difficoltà di ordine politico e culturale. Ed è proprio questo voler restare a ogni costo a presidio di una memoria così decisiva e coinvolgente, a far scaturire una capacità di dialogo a tutta prova, che obbliga ogni giorno a ricominciare nuovi cammini di riconciliazione, essenziali alla stessa sopravvivenza e alla speranza di un’alba di pace in Medio Oriente. A padre Pierbattista, a nome di tutti gli abbonati del «Messaggero di sant’Antonio», padre Danilo Salezze, direttore generale, ha consegnato un’offerta destinata ai poveri.



 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017