Lettere al Direttore

25 Settembre 2008 | di


Senza armi nucleari si può e si deve

«Caro direttore, in piena estate il “Corriere della Sera” ha pubblicato una lettera dal titolo “Per un mondo senza armi nucleari” firmata da Massimo D’Alema, Gianfranco Fini, Giorgio La Malfa, Arturo Parisi e dal premio Nobel per la pace Francesco Calogero. L’iniziativa prendeva il via da un’analoga presa di posizione bipartisan statunitense divulgata dal “Wall Street Journal”. Mi è dispiaciuto che a questo tentativo non sia stato dato il seguito che meritava, anche alla luce dei successivi venti di guerra che si sono abbattuti sulla Georgia, e ai possibili strascichi mondiali».

Lettera firmata


La ringrazio per aver riportato all’attenzione questa notizia che rischiava di scivolare via, come troppo spesso accade proprio per le novità positi­ve. Forse nel caso in esame ha spaventato l’altezza dell’obiettivo, cioè la completa eliminazione delle armi nucleari: merito dei sottoscrittori, comunque, aver posto la questione con tanta autorevolezza. Il testo completo del documento è ancora a disposizione sul sito www.corriere.it. Vi si legge: «Riteniamo importante che anche dall’Italia venga un’indicazione in questo senso ­e che le nostre firme testimonino che in ambedue i principali schieramenti politici e nella comunità scientifica vi è piena condivisione dell’importanza di questo tema». Segue l’indicazione dei principali passi politici internazionali che sarebbe auspicabile compiere in proposito. La conclusione è un impegno e un appello: «L’Italia e l’Europa possono e debbono fare la loro parte». E ancora: «Occorre che su questi temi, fondamentali per la stessa sopravvivenza dell’umanità, nonostante le legittime anzi necessarie contrapposizioni politiche, si riconosca un superiore, comune interesse».

Oggi, in concreto, solo il miglioramento delle relazioni tra le superpotenze nucleari può portare a questi esiti, che sembrano più distanti dopo la guerra nel Caucaso. Se un clima da guerra fredda prendesse il sopravvento, tutto si fareb­be più difficile. Senza voler in alcun modo giustificare l’atteggiamento fortemen­te ambiguo di Putin, che senso ha, da parte occidentale, insistere con atteggiamenti provocatori nei confronti della Russia, in particolare col progetto di scudo spaziale (alcune postazioni saranno installate in Po­lonia)? O con l’allargamento a est dell’Alleanza Atlantica, nata in ben altro contesto? L’Italia potrebbe dire la sua in proposito, come in parte ha già fatto. E muovere dei passi anche sul terri­torio nazionale dove – contrariamente a quanto stabilisce il Trattato di non proliferazione cui l’Italia aderisce – presso le basi Nato stazionano novanta bombe atomiche B61, come denunciano le associazioni pacifiste cattoliche e non. La rimozione di questi ordigni, già avvenuta in Grecia e in parte in Germania, è oggetto di un progetto di legge per il quale hanno firmato 80 mila cittadini: il testo giace da maggio in Commissione esteri della Camera. Dei quattro politici firmatari della lettera al «Corriere», tre fanno parte della Commissione, uno è presidente della stessa Camera dei deputati. Per dire: bene le discussioni sul disarmo nucleare, meglio ancora alcuni passi concreti in quella direzione.


I figli fanno la felicità?

«Tempo fa ho letto su un periodico che i figli non fanno la felicità. Anzi addirittura la limiterebbero. Dall’articolo traspariva che questa spinta a fare figli, frutto della nostra cultura cattolica, è una disapprovazione tacita per chi fa scelte diverse. Non le nascondo che mi ci sono ritrovata. Sono sposata da cinque anni, ma io e mio marito non abbiamo ancora sentito il desiderio di diventare genitori. Siamo molto impegnati in gruppi di solidarietà, spesso viaggiamo in Paesi in via di sviluppo e il fatto di avere figli è, in questa fase della nostra vita, un limite. Anche personalmente non sento il desiderio di diventare madre seppure tutti mi dicano che il mio orologio biologico mi richiamerà all’ordine e che alla fine potrei pentirmi di non aver colto questa forma massima di realizzazione. Ma, mi creda, io non riesco a vederla come tale. Cosa può darmi di più un rapporto con un figlio mio/nostro rispetto alle tante soddisfazioni che io e mio marito abbiamo nel comune impegno a favore degli altri? Ciò che facciamo non ha già un valore sociale e morale significativo?».

Lettera firmata


Si rivolge a me sapendo che sono un sacerdote e che per me il matrimonio è apertura alla vita. Ciò non significa che la coppia di per sé e il cammino che essa si costruisce nella reciprocità non abbiano un’importanza fondamentale. Importante, infatti, è anche la scelta di impegnarsi a favore degli altri e comprensibili le soddisfazioni. Ma chi sceglie di accogliere la vita attraverso il matrimonio lo fa con pienezza, in modo creativo, accettandone tutte le sfide. Conosco missionari laici che si sono sposati e hanno avuto figli proprio durante le loro missioni. Scelte limite? Forse; scelte creative, impegnate e generose, di sicuro. E allora, mi chiedo, quante altre forme ci sono per amare visceralmente la vita? Perché l’una dovrebbe escludere l’altra? Non è questo un limite mascherato da libertà? Chi può sapere a priori quale esperienza dia la felicità più grande e secondo quale metro? Una risposta sorprendente me l’ha trasmessa proprio una donna, un’amica che lavora in un’organizzazione non governativa (ong) e che ha avuto un figlio da poco. Ecco uno stralcio della sua lettera, luminosa e ispirata: «È nato Gabriele e il mio mondo si è capovolto. Ho cominciato a guardare la vita dal basso: dalle mie notti insonni, dai pannolini sporchi, dalle ginocchia piegate per sorreggere i suoi primi passi. Ho messo i miei occhi alla sua altezza per capire come vedeva il mondo, lui piccolo marziano in un pianeta sconosciuto con tutto da imparare. Dopo anni lunghi come secoli, ho ricominciato a giocare, a cercare per lui le cose più belle, a vivere un minuto in sessanta secondi. Una gioia infinita e poi un grande dolore, quando ho rivisto il mio lavoro dal basso dei suoi occhi. Pensavo di sapere perché operavo per i poveri del mondo, ma solo a partire dalla mia riguadagnata vista orizzontale ho potuto comprendere dall’interno il dolore di una madre africana che non riesce a salvare suo figlio. Un fulmine, un’illuminazione: ora vedo tutto dall’alto, ho una visione d’insieme, un surplus d’anima. Il mondo d’improvviso si è fatto alto e largo. E concreto, come l’amore, esercitato a partire da ciò che è infinitamente piccolo». Questi occhi di madre spalancati sulla vita non sono forse un tassello di felicità?



«Messaggero»: progressista o conservatore?

«Caro direttore, sono un vecchio e fedele abbonato al “Messaggero di sant’Antonio” che ho sempre letto con piacere e interesse. Di recente, però, ho qualche dubbio sul fatto di rinnovare o meno l’abbonamento. Ho sempre ritenuto il “Messaggero” una rivista “aperta”, portatrice di valori autenticamente cristiani (come, per esempio, l’attenzione agli ultimi …), intelligentemente “progressista”. Da qualche tempo, invece, mi pare che si stia sempre più collocando su una linea “conservatrice”, sia in ambito ecclesiale che sociale. A dire il vero mi ritrovo sempre meno anche in questa Chiesa che, a mio modesto parere, sembra si stia arroccando su posizioni un po’ troppo rigide. Io ho un’idea diversa di cristianesimo alla quale, le confesso, ho dedicato gran parte della mia vita impegnandomi in prima persona sia in parrocchia che in diocesi. Padre, riesce a darmi un buon motivo per il quale dovrei rinnovare il mio abbonamento?».

Lettera firmata


Grazie per la sua lunga e appassionata lettera che lascia trasparire un amore vero e profondo nei confronti della Chiesa – di cui si sente membro a pieno titolo nonostante i dubbi espressi – e un sincero legame con la nostra rivista. Devo confessarle, e non lo faccio per convincerla a riabbonarsi, che mi fa davvero piacere avere un lettore come lei, attento e critico: le critiche, infatti, quando sono espresse in modo costruttivo, rappresentano sempre uno stimolo a fare meglio. Ogni giorno, come può ben immaginare, riceviamo innumerevoli lettere: molte manifestano apprezzamento, altre domandano un consiglio, altre ancora ci chiedono di esprimere un parere il più possibile netto su qualche aspetto della vita sociale o ecclesiale. Ma numerosi sono anche gli scritti che ci «accusano» di volta in volta di essere o troppo progressisti o troppo conservatori. Personalmente ritengo che fino a quando queste «accuse» si bilanciano stiamo andando nella giusta direzione. Leggo infatti questa equità come conferma del fatto di essere riusciti a dare spazio a quella molteplicità di voci che nella Chiesa, a mio parere, rappresenta la vera ricchezza. È bello pensare al popolo di Dio – perché questo prima di tutto è la Chiesa! – come a un insieme di persone con vissuti, esperienze, sensibilità differenti, che camminano in un’unica direzione. L’importan­te è che nessuno si chiuda in posizioni troppo rigide o ideologizzate, ma rimanga aperto a un dialogo sincero e costruttivo, nella convinzione che tutti hanno qualcosa di buono e prezioso da donare agli altri. Ed è proprio in questa linea che, di mese in mese, cerchiamo di muoverci, nella certezza che un confronto leale – anche con qualche effervescenza – possa aiutare nella comune ricerca di una fede autentica.



Facoltà Teologica del Triveneto: al via il quarto anno


Presso la Facoltà Teologica del Triveneto sono ancora aperte le iscrizioni per l’anno accademico 2008-2009 nella sede centrale a Padova e nelle altre 13 realtà in rete nel territorio. I corsi, aperti a laici, religiosi e preti, propongono l’intero percorso teologico:

il Ciclo istituzionale, la Licenza, il Dottorato.

Collegati alla Facoltà, gli Istituti superiori di Scienze Religiose conferiscono la Laurea e la Laurea magistrale che da quest’anno avrà specializzazioni differenziate a seconda degli istituti.

Per informazioni: www.fttr.it


A Padova, tra le novità di quest’anno, anche una doppia proposta di specializzazione all’interno del Ciclo di Licenza. Alla specializzazione in Teologia pastorale, nella sede centrale, si aggiunge quella in Teologia spirituale, attivata presso l’Istituto Teologico Sant’Antonio dottore. La nuova proposta si rivolge a quanti vogliono approfondire la propria formazione teologico-spirituale, a chi è impegnato nel campo della formazione, ma anche a coloro che a vari livelli desiderano acquisire competenze specifiche nell’accompagnamento spirituale e nel discernimento.


contatti:

per la specializzazione in Teologia pastorale: Segreteria della Facoltà Teologica del Triveneto via del Seminario, 29 35122 Padova, tel. 049 664116; fax 049 8785144, e-mail segreteria@fttr.it


per la specializzazione in Teologia spirituale: Istituto Teologico Sant’Antonio dottore via San Massimo, 25 35129 Padova; tel. 049 8200711; fax 049 8750679, e-mail segreteria.spiritualita@fttr.it




Lettera del mese


Immigrati uno specchio per tutti noi


Solidarietà e realismo politico: ecco quanto si richiede per affrontare la questione.


«Caro padre, anche quella appena trascorsa è stata l’estate degli “sbarchi”, delle polemiche sull’immigrazione clandestina. Faccio fatica a dare un giudizio su questo fenomeno dal punto di vista cristiano…».

Una credente perplessa


Le estati italiane sono accompagnate, almeno da una quindicina d’anni, da quando cioè il fenomeno si è fatto massiccio, dall’«emergenza clandestini». Panico da invasione, militarizzazione dei confini, potenziamento dei campi di permanenza temporanea con inasprimento della legislazione da una parte, accuse di intolleranza e di xenofobia, inviti alla pacatezza e all’esercizio dell’accoglienza dall’altra. Le voci che si levano, a seconda della matrice politica, suonano preferibilmente una musica o l’altra, facendo leva sulla patria da difendere e sulla paura montante dei cittadini, oppure richiamando le garanzie essenziali della convivenza civile che nemmeno in caso di emergenza dovrebbero essere sospese.

Lei mi chiede come deve reagire un cristiano perplesso e preoccupato di fronte alla situazione confusa e tesa che si è creata nella società italiana in rapporto all’immigrazione. Ammetto che non è facile rispondere se si tiene conto, in maniera non superficiale, delle molte sfumature. Non si tratta infatti di dirsi tolleranti, tolleranti con distinguo oppure intolleranti (lasciamolo dire agli altri!), ma di accettare di mettere alla prova la nostra stoffa di cittadini e di credenti a partire dai fatti, dalle reazioni, soprattutto quelle «viscerali» che manifestano i nostri convincimenti più profondi. In un Angelus di mezza estate, precisamente domenica 17 agosto, Benedetto XVI ha detto così: «Oggi si registrano in diversi Paesi nuove preoccupanti manifestazioni di razzismo. La Chiesa […] deve aiutare la società civile a superare la tentazione del razzismo, dell’intolleranza, dell’esclusione». Parole accorate, che vanno diritte al cuore del problema, sono state pronunciate dal Papa anche nell’Angelus del 31 agosto. Senza voler piegare questi interventi alla sola situazione italiana, visto che il magistero papale è a più largo raggio (urbi et orbi, come si dice, cioè per Roma e insieme il mondo intero), ognuno prenda però quanto fa al caso suo. Si tratta di utilizzare gli immigrati come uno «specchio» per rendere palese ciò che è latente nel nostro sistema sociale, nella scontatezza dei nostri comportamenti quotidiani, nel nostro modo di fare comunicazione o di fruire di essa, nel nostro essere cristiani o meno. Sì, perché la fede c’entra, e non solo come richiamo ideale: la particolarissima attenzione che la Bibbia destina alla triade straniero-vedova-orfano, vale a dire a quanti non potevano vantare alcun diritto ed erano così alla mercé dei potenti di turno, deve anche attivare una debita riflessione che favorisca nella società una prassi inclusiva e non escludente. Il cardinale Tettamanzi ha ragione a ritornare continuamente sulla necessità di una comunità cristiana impegnata sul fronte dell’accoglienza, soprattutto quando sembra prevalere una paura istintiva nel rapporto con lo straniero e con il diverso.
Certo, i compiti della Chiesa e della politica non sono da confondere. Mi ha colpito quanto ho ascoltato dal Patriarca Angelo Scola in un incontro del gennaio scorso, a Mestre, con il giornalista Toni Capuozzo: «La Chiesa, rispetto agli immigrati che arrivano clandestinamente, è come chi dà soccorso a qualcuno che sta male, perché si tratta di gente moribonda dopo una traversata; e questo non è l’unico compito di un’autorità politica costituita, che è invece chiamata a fare anche un’altra cosa, vale a dire un discorso ordinato, programmato sull’immigrazione, coordinato a livello europeo, a livello mediterraneo e internazionale». Accoglienza di chi sta male nei tempi brevi, e crescita di una comunità cristiana sempre più accogliente sui tempi lunghi, in un rapporto di confronto e stimolo reciproco con la società civile e politica: questa è la vocazione della Chiesa e del cristiano. Attenzione, non è una ricetta ma un’indicazione di percorso.


 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017