Lettere al direttore

Tasse altissime e stipendi con i quali non si arriva a fine mese. I lavoratori del Nord insorgono e invocano il federalismo fiscale...
30 Luglio 2008 | di

LETTERA DEL MESE

Senza che il più forte prevalga

«Caro direttore, è la quarta settimana del mese e io, come accade sempre più spesso, non ho in tasca nemmeno i soldi per la spesa. Eppure lavoro, regolarmente assunto a tempo indeterminato (e, di questi tempi, non è cosa da poco…) presso una ditta che per il mio stipendio deve sborsare ogni mese circa 2.600 euro. Di tale somma, però, lo stato trattiene, tra tasse e contributi, circa il 50 per cento. Le pare giusto? Poi leggo che la regione in cui vivo, la Lombardia, paga, da sola, il 27,45 per cento delle tasse italiane, contro il 17,02 del Lazio o il 3,94 della Campania. Insomma, sono stanco e come me molti altri lavoratori. Che fine ha fatto quel federalismo fiscale che da più parti era stato vagheggiato?».

Un lettore arrabbiato

Caro «lettore arrabbiato», come lei stesso si firma, che cosa dire? Comprendo innanzitutto le sue difficoltà e anche la sua rabbia. Una rabbia che trova sfogo in una protesta pacifica e pacata come può essere quella di una lettera pubblica. Ha pienamente ragione quando afferma che si fa un gran parlare di federalismo fiscale, a volte anche a sproposito, senza però che al riguardo nulla o quasi si concretizzi. Eppure, dal 2001 il federalismo fiscale è entrato a tutti gli effetti nella Costituzione italiana, grazie alla riforma del Titolo quinto.

Ma facciamo un passo indietro. Che cos’è il «federalismo fiscale»? È la possibilità per Regioni ed enti locali (Province e Comuni) di finanziare le proprie spese imponendo delle tasse. Questo in parte già accade: le Regioni, infatti, incassano l’addizionale regionale dell’Irpef e l’Irap (l’imposta regionale sulle attività produttive); le Province possono contare sulla Ipt, l’imposta provinciale sui trasporti; i Comuni si avvalgono dell’addizionale comunale dell’Irpef e della parte residua dell’Ici, l’imposta comunale sugli immobili in parte abolita dall’attuale governo. Ma tutto ciò è ritenuto da molti insufficiente.

Tra questi vi sono i numerosi sostenitori di una proposta di legge approvata nel giugno 2007 dalla regione Lombardia, la quale prevede la possibilità di trattenere nei territori l’80 per cento dell’Iva, il 15 per cento dell’Irpef e tutte le accise e imposte su tabacchi, giochi, lotterie e carburanti. Il progetto di legge lombardo, inoltre, prevede anche un tetto massimo del 50 per cento della capacità fiscale, alla «perequazione», cioè al trasferimento delle risorse dalle Regioni più ricche a quelle più povere. Un’ipotesi che appare a molti equa e che si vorrebbe far diventare legge dello Stato. Se così fosse, la cosa andrebbe senz’altro a incidere su quei dati che lei cita nella sua lettera (la Lombardia contribuisce per quasi il 30 per cento alle «casse» della nazione, grazie ai prelievi dello Stato soprattutto sulle attività produttive). Ma si tratterebbe anche di una via del tutto condivisibile? Vale a dire, che ne sarebbe di quelle Regioni meno ricche di aziende e non sempre per colpa loro ma, per esempio, per carenza di infrastrutture? D’improvviso potrebbero non essere più in grado di garantire ai loro cittadini un equo trattamento sanitario (capitolo di spesa a carico delle Regioni). E allora se è vero che, come ha di recente affermato anche il presidente Giorgio Napolitano, una legge sul federalismo è ineludibile, è altrettanto vero che dovrà essere improntata a criteri di «solidarietà, unitarietà ed efficacia», a fronte, naturalmente, di un impegno delle Regioni a instaurare un circolo virtuoso nella gestione delle loro spese.

Perché un’amministrazione locale obbligata a finanziare con mezzi propri almeno una parte delle spese e a renderne conto ai propri cittadini, sarà anche inevitabilmente costretta a spendere in modo più attento le proprie risorse, con una particolare attenzione verso i più deboli. La stessa che dovrà avere l’amministrazione statale, il cui primo compito è di farsi garante di equità nei confronti di tutti i cittadini. Senza dimenticare il buon esempio.


 

LETTERE AL DIRETTORE 


Sarò in grado di adottare un bambino?

«Sento che potrei essere madre. L’ho sempre saputo. Mi sono sposata a 32 anni; oggi, alle soglie dei quaranta, non ho ancora avuto un figlio. E questa assenza sta devastando la vita mia e quella di mio marito. Abbiamo fatto cure e passato anni di attesa, con la speranza che a ogni mese saliva e precipitava come una marea. Poi l’esperienza, drammatica, dell’inseminazione artificiale. E ora la notte: è difficile accettare una vita sterile quando hai sempre sognato d’essere genitore. Un buio nel quale da qualche tempo si è accesa una piccola luce. E se diventassi madre di un figlio non mio? E già mi vedo mentre lo stringo tra le braccia e lo porto all’asilo. E quasi mi metto a piangere. L’ho detto a mio marito, mi ha risposto che non riuscirebbe ad accettarlo. Io credo che gli ci vorrà del tempo per capire, per cambiare. Poi il buio ritorna di nuovo: e se avesse ragione lui? Sarei davvero in grado di adottare un bambino, riuscirei ad amarlo senza riserve, ad accettare gli eventuali scacchi? E lui o lei sarebbe felice con noi o a un certo punto il desiderio dei veri genitori intaccherebbe il nostro cammino insieme? È giusto, padre, che io continui a cercarlo da qualche parte questo figlio mio?».

Lettera firmata

Nella sua lettera c’è ancora molto dolore e incertezza: il suo cuore altalena tra il desiderio e la paura. Parla dell’adozione come di una «piccola luce», segno che il cambiamento di punto di vista in lei è appena iniziato e che l’idea dell’infertilità è una ferita ancora aperta. In più, il viaggio che intravede è ancora lontano e chissà se possibile per suo marito. Normale che lei abbia tante perplessità e tante paure. Questo viaggio però dovrete farlo insieme: sarà possibile solo se a un certo punto v’incontrerete nella stessa stazione e deciderete di prendere lo stesso treno, accettando serenamente tutto quello che verrà dopo. Non credo che i genitori naturali partano con delle certezze; mentre aspettano un figlio il vagone dei dubbi e dei desideri viaggia con loro. La gestazione è nel corpo, ma soprattutto nella mente, perché genitori si diventa vivendo. Tra le coppie che ho conosciuto una in particolare è partita con grandi dubbi e timori, esattamente come voi. L’iter è stato lungo e faticoso, tante volte hanno avuto la tentazione di lasciare. Poi il giorno in cui hanno incontrato Nicolas, la tenerezza e l’emozione hanno preso il sopravvento. Non era più il tempo delle contorsioni mentali e della paura. Oggi Nicolas è un bambino felice, anche se all’inizio non è stato semplice. E Marco e Luisa, mi creda, sono i suoi «veri genitori».

Embrioni ibridi e sacralità della vita umana

«Gentile direttore, ho appena finito di leggere una notizia alla quale stento persino a credere: in Gran Bretagna pare abbiano dato il via libera a un progetto di legge a favore della creazione, a scopo di ricerca, di embrioni ibridi uomo-animale. Ma andando avanti così dove arriveremo? E la dignità, la sacralità dell’essere umano, che fine fanno?».

Lettera firmata

Il 20 maggio scorso la Camera dei Comuni del Regno Unito ha approvato il testo di una nuova legge in materia di fecondazione assistita ed embriologia, che tra i contenuti più conturbanti presenta la possibilità di creare embrioni umani utilizzando ovociti denucleati di provenienza animale.

I sostenitori di queste novità si affrettano a specificare che ciò rappresenterebbe un’importantissima nuova frontiera della scienza per giungere a curare gravissime malattie degenerative e che la paventata creazione di figure mostruose quali il minotauro, la chimera o i centauri è solo frutto di paure ancestrali, allarmismi infondati ed esagerazioni irrazionali, visto che gli ibridi così ottenuti avrebbero un patrimonio genetico per il 98 per cento umano, con una presenza solo residuale di Dna animale. Una così entusiasta e sbrigativa difesa d’ufficio suona per lo meno sospetta e impone una più approfondita valutazione.

In primo luogo constatiamo che con questa scelta la Gran Bretagna conferma una posizione contraria all’atteggiamento degli altri Paesi europei che hanno aderito alla Convenzione europea sui diritti umani e la biomedicina (Oviedo 1997) e si sono impegnati a non produrre embrioni umani per sole finalità di ricerca.

Secondariamente, l’ostinazione a riproporre le cellule staminali embrionali come la panacea di tutti i mali rivela una forte precomprensione ideologica e una carenza di trasparenza nell’informazione. A tutt’oggi i risultati più promettenti nel campo dell’applicazione terapeutica provengono dalle cellule staminali adulte che non pongono problemi etici al pari di quelle embrionali. Queste ultime, oltre a prevedere la soppressione di esseri umani in fase embrionale, presentano enormi pericoli per la spiccata tendenza a sviluppare tumori nelle sedi di impianto.

Sorge, allora, il dubbio che tanta enfasi progressista nasconda pericolosi interessi economici legati alle tecniche di manipolazione in laboratorio (coperte da lucrose royalties!) e una decisa intolleranza per ogni tentativo di intrusione etica nel campo della ricerca scientifica, mentre la società ha pieno diritto di esercitare il proprio controllo affinché si persegua sempre l’autentico bene di tutti gli esseri umani coinvolti.

E se l’euristica della paura non può essere l’unico metro di giudizio, certamente il ricorso al mito greco (che parla di esseri per metà uomini e per metà animali) rivela una verità depositata nelle profondità della nostra cultura millenaria: la consapevolezza del salto qualitativo che esiste tra l’essere umano e le altre creature, eccellenza che deve essere sempre protetta e mai annullata. Non è forse questo che cerchiamo di affermare quando invochiamo la dignità della persona, la sua natura spirituale, il suo essere fine per se stessa e capace di un rapporto personale con gli altri e con Dio? È questa eccedenza di essere e di valore che cerchiamo di difendere quando percepiamo con disgusto la possibilità di manipolare in modo strumentale la vita umana e di produrre pericolose commistioni con altre specie.

Caso «Santa Rita» e la fiducia medico-paziente

«Gentile direttore, vivo da alcuni anni in compagnia di una malattia cronica, per fortuna non troppo invalidante, che però mi costringe di continuo a entrare e uscire dagli ospedali. In generale mi sono sempre trovata bene sia con i medici che con gli infermieri. Tuttavia il caso della clinica «Santa Rita» di Milano ha incrinato la fiducia quasi incondizionata che avevo nei confronti del personale sanitario. È come se si fosse rotto qualcosa. E non so come recuperare quella forma di ottimismo che mi è indispensabile per convivere con la malattia».

Lettera firmata

Quanto è stato scoperto dagli inquirenti presso la clinica «Santa Rita» di Milano ha colpito tutti: nelle intercettazioni telefoniche ci siamo sentiti mercificati nelle nostre malattie, nei nostri corpi, traditi nelle aspettative di star meglio, o almeno di provarci in tutti i modi. È stato come certificare che tra medici e pazienti non esiste più lo stesso obiettivo, ovvero la guarigione. Nella sua lettera lei individua davvero il punto cruciale della questione: la fiducia medico-paziente.

Alcuni distinguo possono aiutarci a riflettere. Per prima cosa: quanto accaduto al «Santa Rita» non è da ascrivere alla medicina ma alla criminalità. Ciò non toglie che la vicenda sollevi interrogativi sull’etica professionale medica. Senza generalizzare, ma anche senza fare gli struzzi. Perché il legame soldi-salute crea distorsioni che non possono essere evitate solo facendo appello alla buona volontà del singolo. L’attenzione a porsi in modo corretto da parte dei camici bianchi del resto non manca: lo testimonia l’ultima versione del codice di deontologia medica, che è appena del 2006, e a maggior ragione ne sono garanti i molti medici che vivono in senso pieno la propria professionalità, con responsabilità e rigore. Sono qualità dalle quali non si può prescindere: bisogna tornare a una medicina che metta al centro la persona, non l’interesse.

Ma è anche il nostro ruolo di pazienti a essere messo in discussione. Sono passati i tempi in cui ci si consegnava in maniera totale e acritica nelle mani del medico. Oggi si affida la propria salute all’esperto a patto di riconoscere in lui competenze non solo tecniche, ma anche relazionali, ovvero disponibilità all’ascolto, alla spiegazione delle possibili strategie d’intervento, condivisione nello sforzo di rendere meno misterioso l’estraneo ed estraniante mondo della malattia che ci ha colpito. Un medico che spiega e accompagna fa crescere il paziente e lo ritrova alleato. Solo su questa base di reciproco rispetto può e deve nascere quel sentimento di fiducia che è decisivo per ogni relazione di cura.

Alunni d’Italia con noi a Manila

Ci ha colpito l’entusiasmo con cui molti insegnanti e allievi da tutta Italia hanno voluto partecipare al progetto della Caritas Antoniana in favore dei bambini delle discariche di Manila, presentato sul Messaggero lo scorso giugno. Alcune classi in gita a Padova sono venute di persona in Basilica del Santo a portare i risparmi dell’anno scolastico; altre scolaresche in visita, una volta conosciuto il progetto, hanno donato d’istinto quel che avevano pur di aiutare i loro coetanei filippini. Una gara di solidarietà che ci ha raggiunto anche via lettera. E così Giuseppina, insegnante elementare del napoletano, manda i fondi raccolti a scuola, frutto del suo impegno di sensibilizzazione. Non è la prima volta che insieme con i suoi allievi sostiene i nostri progetti a favore dei più piccoli. Allo stesso modo Giovanna, insegnante della provincia di Lecce, manda l’offerta dei suoi alunni che quest’anno hanno terminato il ciclo di scuola elementare. E ne spiega la motivazione: «Attraverso il “Messaggero” (di cui sono veterana abbonata) abbiamo conosciuto i bimbi di Manila e abbiamo deciso di destinare loro i risparmi. La speranza che “davvero” possano giungere loro ci riempie di gioia». Significativo il modo: «Hanno messo da parte, centesimo su centesimo, ogni risparmio per poter, poi, regalare un sorriso ai bimbi meno fortunati». Ciò significa che stanno crescendo con la consapevolezza di essere parte di un mondo più grande e interdipendente, che c’è molto di più e di diverso oltre la coltre omologata della società dei consumi. Una prospettiva che non ha prezzo.

Noi, lo confessiamo, siamo davvero commossi, perché questa solidarietà che, attraverso gli insegnanti e la scuola, entra nei cuori e diventa vita ci piace e ci coinvolge. Educare alla condivisione è cosa ben diversa dal fatto di donare sull’onda della commozione estemporanea: è un lavoro continuo, paziente e amorevole, che ha ricadute inaspettate. Che cosa diranno i bimbi di Manila quando sapranno che la loro scuola è anche frutto dell’impegno di molti coetanei, i quali hanno donato senza neppure conoscerli, per il solo fatto di essere bambini come loro? Quale deterrente migliore ci può essere al senso d’abbandono, alla violazione continua della loro dignità?

Giovanna nella sua lettera mi prega di ringraziare i suoi alunni a nome dei bambini di Manila. Ci tengo a farlo, ricordandoli uno ad uno, perché mi pare così di abbracciare in questo appello tutti gli alunni d’Italia che ci stanno aiutando. Grazie Giovanni, Alessia, Paolo, Jacopo, Rocco, Antonio, Nicolò, Mattia, Larissa, Fernando, Veronica, Jonathan, Giacomo, GiovanniAlberto, Leonardo, Mariarita, Ilaria, Immacolata, Chiara.
Grazie per il fatto di essere con noi a Manila.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017