Lettere al direttore

20 Giugno 2008 | di

Camminare in salita ma con fiducia

«Ho 71 anni, sono abbonato da moltissimo tempo alla sua rivista e, purtroppo, dal 9 febbraio 2008 appartengo a quella grande famiglia descritta nell’articolo della signora Cosetta Zanotti pubblicato sul “Messaggero” del mese di aprile. Il mio caso è troppo recente perché io possa giudicare con chiarezza; la ferita è ancora aperta per cui è molto facile sbagliare, però vorrei tanto che lei, padre Ugo, mi aiutasse a capire perché la scrittrice si rivolge solo ai vedovi con figli. Le posso assicurare che la vedovanza senza figli è molto dolorosa. La vivo da poco tempo, ma sento tutto il peso della solitudine, della mancanza di uno scopo per poter continuare a vivere anche cristianamente. Se vorrà rispondermi aiutandomi a capire che il futuro non sarà totalmente inutile, le sarò molto grato».

Lettera firmata

La ringrazio di questa lettera nella quale manifesta i suoi sentimenti più intimi, esprimendo il desiderio di ritrovare la strada della fiducia.

Il suo scritto mi dà l’occasione per ricordare, anche a tutti quei lettori toccati dal suo stesso dolore, che nello scorso mese di novembre ci siamo occupati delle persone vedove con un dossier molto ampio. Nell’articolo pubblicato lo scorso aprile, invece, l’autrice ha cercato – in base a una scelta redazionale ben precisa – di analizzare la posizione della Chiesa riguardo al problema specifico delle persone rimaste vedove, e magari con figli, in giovane età. Come lei dice nella lettera, la vedovanza senza figli è senz’altro molto dolorosa, ma sappiamo bene che non esiste una tabella del dolore dove ognuno possa misurare la gravità della propria o dell’altrui sofferenza. Quando la morte si porta via le persone che amiamo non fa sconti, ci lacera e ci stravolge. I figli sono un sostegno, certo, ma non possono colmare il vuoto di una presenza che ha avuto e che ha ancora il carattere dell’unicità. Un vedovo o una vedova sono comunque rimandati a cercare la pace nella profondità e solitudine del proprio cuore. Mi permetto, sommessamente, di darle un consiglio che è anche frutto dei miei «dolori» di essere umano. Perché in fondo di «patire insieme» si tratta! Non abbia paura di attraversare questo passaggio della vita; non si lasci conquistare dal dolore ma lo attraversi pensando alla felicità immensa che ha vissuto per una vita intera con sua moglie e di questa felicità faccia tesoro, la moltiplichi e, tra un po’, quando si sentirà pronto, la porti anche agli altri. Vedrà che davvero la Grazia arriva e sorprende, sempre! Quando il dolore si farà più intenso, pensi che è stato tanto amato e lo è ancora. Perché sprecare così tanto amore?



Politici attaccati alla poltrona

«Caro direttore, negli ultimi mesi mi è capitato più volte di dare un’occhiata ai giornali stranieri che ritraggono l’Italia in maniera non del tutto edificante: siamo solo il Paese dei rifiuti sulle strade, della mafia che governa gli appalti pubblici e il mercato della droga, dell’insicurezza e del mancato rispetto delle regole... Ho avuto, però, modo di condividere alcune di queste letture. In particolare quella che ci dipinge come un Paese sempre più vecchio e dove sono sempre i “soliti” a tenere le redini del potere e a occupare i posti che contano. Io penso che non siano tanto i giovani a non volersi assumere responsabilità, quanto piuttosto i vecchi politici, strapagati e ultraprivilegiati oltre che incollati alla loro poltrona, a non volersene andare».

Lettera firmata


L’Italia è uno dei Paesi in cui il potere è saldamente in mano a chi ha più vita dietro che davanti a sé. Siamo un Paese gerontocratico, con uno scarso ricambio generazionale della classe dirigente. Nella scorsa legislatura l’età media dei parlamentari era superiore ai 50 anni e, nell’ultimo quindicennio, quella dei presidenti del Consiglio è stata pari a 62 anni. Se l’età dei capi di governo è tra le più elevate in Europa, non va meglio per i leader politici che stentano comunque a farsi da parte. Il confronto anagrafico non ha bisogno di commenti: Silvio Berlusconi 72 anni, Fausto Bertinotti 68, Pierferdinando Casini 53, Walter Veltroni 53; quando Tony Blair è arrivato al n. 10 di Downing Street aveva 44 anni, Angela Merkel ne aveva 51 quando è giunta alla guida della Germania, Nicolas Sarkozy (Francia) 52 e, in Spagna, José Luis Zapatero 44. Nel vecchio Parlamento italiano, su 630 deputati, solo uno aveva meno di 30 anni; la fascia più numerosa era sopra i 50 anni (250 deputati tra i 50 e i 59; 157 oltre i 60). Col nuovo Parlamento c’è stata una lieve boccata d’ossigeno: l’età media dei deputati è scesa a 50 anni grazie all’ingresso di molti under 40 della Lega.
Lo stesso dicasi per altre realtà. La nostra popolazione accademica è la più anziana del mondo industrializzato. Nel 2006-2007 i docenti over 60 erano il 24 per cento, contro l’11 per cento di Francia e Spagna e l’8 per cento del Regno Unito. Identico quadro per il mondo economico: nel 2003 oltre la metà degli iscritti ai sindacati aveva più di 44 anni e l’età media, nello stesso anno, risultava la più alta in Europa (dati Eurobarometer).
Lo scorso aprile ho partecipa­to al Festival internazionale del giornalismo di Perugia. Tra gli invitati c’era anche Alastair Campbell, l’ex brillante portavoce di Blair, intervistato da Beppe Severgnini. Alla domanda di quest’ultimo se non fosse giunto il momento, vista l’esperienza acquisita a fianco del premier, di scendere egli stesso in politica, Camp­bell, con tutta naturalezza, ha risposto: «I’m 51 years old», «Ho 51 anni». Come dire: «Sono troppo vecchio».
Una battuta che la dice lunga. Eppure, dovremmo tutti acquisire la consapevolezza che se davvero vogliamo far crescere questa nostra Italia, è necessario lasciare spazio ai giovani. Gli «over», a cominciare dai politici, potranno rappresentare una vera risorsa di capacità e saggezza a fianco dei giovani solo nel momento in cui avranno il coraggio e l’umiltà di fare un passo indietro.



Mio marito mi picchia e io muoio dentro

«Questa notte non ho dormito. Mi tormenta un pensiero: uscire dall’ombra o continuare a stare rannicchiata nel mio dolore come faccio ormai da dieci anni, da quando cioè mi sono sposata con quello che credevo l’uomo della mia vita. Un uomo che sembrava dolcissimo. La prima volta che mi picchiò eravamo appena tornati dal viaggio di nozze. Per errore avevo strisciato l’auto in un parcheggio. Negli occhi un lampo d’odio, mi tirò per i capelli, mi colpì al viso, mi disse che ero un’incapace e mise in fila una serie di parole irripetibili, le stesse che ormai sento come un ritornello ogniqualvolta il suo bisogno di annientarmi s’abbatte su di me come uno tsunami, lasciandomi tramortita. Più che le botte, mi feriscono le parole, i soldi contati, il continuo bisogno di ferirmi, di farmi sentire una nullità. Ho una laurea con 110 e lode, un lavoro in banca discretamente pagato, una figlia brava a scuola, un marito imprenditore. Una famiglia modello, al di sopra d’ogni sospetto. Una famiglia tradita, lacerata, sconquassata nel silenzio della mia bella casa tra le liti furibonde, i pianti di mia figlia chiusa in camera, i sensi di colpa. Forse, padre, me lo merito? Forse è il suo modo di amarmi? O forse sono codarda, ipocrita, davvero incapace di cavarmela da sola? Ho provato ad accennarne ad alcuni intimi, dopo anni di silenzio per vergogna, per pudore, per salvare la famiglia. Mi ritornano solo i loro sguardi allibiti, come se d’un tratto fossi impazzita e parlassi di fantasmi. Non vogliono vedere, non voglio vedere. Ma io intanto muoio dentro».

Carla ’70

Tanto, troppo dolore, cara Carla, ingiusto, incomprensibile. La sua lettera è un messaggio in bottiglia, che accogliamo e condividiamo. Da donna intelligente e colta, lei sa benissimo che la sua non è una storia rara, ma è difficile da accettare quando riguarda il proprio marito, la propria vita, la propria carne. Ciò che colpisce è la normalità della violenza, il suo confondersi con i sentimen­ti, con la dialettica di coppia, con i doveri della vita coniugale. Una realtà che cozza contro i propri principi, il progetto di vita, l’autostima, l’immagine che gli altri riflettono della propria famiglia. Capita trasversalmente in ogni contesto sociale, capita a donne intelligenti, sensibili e consapevoli come lei. E soprattutto capita spesso, almeno in tre milioni di casi in Italia secondo le statistiche, troppi perché si possa far finta di niente. Non taccia più, non accetti più, per lei e per le altre, si rivolga a chi la può davvero aiutare: un centro antiviolenza, uno specialista, un parente sensibile, un’amica vera, un prete di sua fiducia. Le servirà per prendere coscienza di quanto le sta accadendo e per riattivare le sue poten­zialità interiori. La fedeltà non obbliga alla perdita di sé, della propria dignità e, come succede sempre più spesso, anche della propria vita. L’incomprensione degli altri è sovente paura, altre volte conformismo, altre volte ancora moralismo sulla pelle altrui. E rischia di diventare connivenza. La famiglia, che rimane la cellula più importante e vitale della società, ha in sé la forza e il dovere morale di rigettare la violenza e sanare tutto questo dolore. Magari con l’aiuto della politica e, perché no?, attraverso un risveglio delle coscienze sostenuto anche dalla Chiesa.



Certezza della pena e del recupero

«Caro direttore, il mese scorso mia moglie, in pieno centro, è stata borseggiata da un balordo. Ma il malvivente non è riuscito a farla franca: in molti si sono resi conto di cosa stava succedendo, e sono riusciti a bloccarlo. La Polizia lo ha poi portato in Questura, e la borsetta ci è stata restituita. Fin qui tutto bene. Però ho saputo che il ladro, dopo gli accertamenti, è stato subito rilasciato! Com’è possibile?».

Lettera firmata

Difficile entrare nello specifico del caso che il lettore racconta. Stando però alle cronache dei giornali, sappiamo che situazioni come questa sono piuttosto diffuse in Italia. Anche il capo della Polizia, Antonio Manganelli, si è sfogato di recente denunciando proprio questa pratica diffusa, che mette a repentaglio la certezza della pena e accresce la percezione di insicurezza soprattutto nelle periferie delle grandi città, ma non solo. Alcuni episodi degli ultimi mesi, poi, hanno del paradossale. Si tratta di veri e propri errori giudiziari. Il grido d’allarme delle forze dell’ordine è da prendere molto sul serio: se la Polizia viene messa nelle condizioni di svolgere il proprio compito con più efficacia aumenterà la sicurezza, e allo stesso tempo si svuoteranno di significato le paventate ronde di giustizialisti fai-da-te, che sono entrate in azione in maniera deprecabile a Napoli, Roma e altrove. Ma vorrei sottolineare altri due aspetti. Il primo: la distanza tra tasso di criminalità e percezione dei cittadini. Le due cose non coincidono, anzi. Dal Rapporto sulla criminalità in Italia, pubblicato dal ministero dell’Interno (giugno 2007), si ricava che dal 1991 al 2006 gli omicidi volontari si sono ridotti di un terzo: 1,1 per 100 mila abitanti. Sono diminuiti i furti in abitazione e gli scippi. Sono invece cresciute le rapine. Ma, soprattutto, è aumentata a dismisura la percezione della minaccia criminale e il sentimento di insicurezza. Come a dire: alcune preoccupazioni sono condivisibili, ma a volte si esagera. Secondo: se è bene preoccuparsi della certezza della pena, dobbiamo anche mettere in agenda la certezza del recupero della persona carcerata. Non è buonismo, lo prevede la Costituzione, all’articolo 27, dov’è stabilito che la pena debba avere come scopo principale il reinserimento, con attività rieducative, sociali, scolastiche e lavorative. Dove queste sono state attuate hanno avuto ottimi risultati sia in merito all’abbassamento della recidiva che al recupero progettuale delle persone coinvolte nella criminalità. È una strada ancora tutta da percorrere, che non può più attendere.


 

Lettera del mese


Figlia, moglie, madre e nonna:come sopravvivere?


Accondiscendere sempre e comunque alle richieste degli altri non è sano. Il rischio è di perderese stessi.


«Caro direttore, sono una donna di 50 anni, sposata, con due figli ormai grandi (uno è sposato a sua volta, mentre l’altro vive ancora in casa) e un nipotino. Ho la fortuna di avere tuttora i genitori in vita, anche se un po’ malconci di salute. La ricchezza delle mie relazioni familiari dovrebbe riempirmi di gioia e invece, giorno dopo giorno, vengo sempre più trascinata in un vortice di impegni che sembra non avere fine. Quotidianamente devo fare i conti con le necessità dei miei genitori (fare per loro la spesa, accompagnarli dal medico o all’ospedale per le terapie…) e del nipotino (che spesso accudisco nel pomeriggio), con le richieste del figlio che vive ancora in famiglia e che, per quanto non sia più un ragazzino, non smette di appoggiarsi su noi genitori e in particolare su di me. Oltre a questo, naturalmente, c’è il lavoro sia in casa che fuori. Insomma, in poche parole: non ce la faccio più. Non ho più il tempo per una passeggiata con mio marito, per leggere un libro, per ascoltare un po’ di musica, per guardare tranquillamente mezz’ora la tv… Mi dica, padre: che senso ha vivere in questo modo?».

Lettera firmata


Gentile lettrice, lei è un tipico esempio della cosiddetta «generazione-sandwich»: persone che si trovano a dover suddividere le proprie giornate tra il tempo da dedicare ai genitori o suoceri bisognosi di assistenza e ai nipoti o ai figli che ancora necessitano di cure. Una generazione a rischio, proprio per la molteplicità e la complessità di impegni cui deve far fronte. La soluzione, in linea teorica, sarebbe molto semplice: lei dovrebbe riuscire a ritagliarsi un po’ di tempo per sé, per fare ciò che le piace, per rientrare in contatto con il suo mondo emotivo, trascurato a causa di quel suo continuo preoccuparsi «per gli altri».
Ho detto in linea teorica, perché mi rendo conto che passare dalle parole ai fatti, nel suo caso, è tutt’altro che semplice. Come ben scrive Maria Teresa Zattoni (per anni nostra collaboratrice) nel libro Il nonno e il laureato (San Paolo, 2007) lei non è solo «lo snodo di quattro generazioni (figlia, moglie, madre e nonna), ma è la caregiver (colei che dà cura) per eccellenza, o almeno così ci si aspetta da lei». E accettare il rischio di deludere le aspettative degli altri (e ancor prima quelle che nutriamo verso noi stessi!), anche parzialmente, anche quando sono esagerate, è sempre difficile. Significa riconoscersi persone limitate e, soprattutto, imparare a convivere con il proprio limite.
Ma la sua è anche un’età per molti versi privilegiata. «L’età – continua Maria Teresa Zattoni nel suo libro – dei primi bilanci “in tempo reale”, quella in cui bisogna reimparare a tenere in piedi qualcosa di buono nel sé, per non farsi totalmente assorbire dal “rendersi indispensabili agli altri”». In parole povere: l’età nella quale ci si può concedere di non apparire sempre perfetti, si può dire qualche «no» e scoprire, dapprima con sorpresa e poi con sollievo, che gli altri possono cavarsela anche senza di noi. Sentirsi «indispensabili» è gratificante ma, alla lunga, diventa una sorta di schiavitù che impedisce di vivere appieno la propria vita. Sia ben chiaro: non voglio spingerla a diventare una persona indifferente alle richieste altrui; ma l’essere sempre e comunque accondiscendente nei confronti degli altri non è sano, mi creda.
Cominci, allora, con il dire qualche piccolo «no» e vedrà come per magia che chi le sta accanto saprà mettere in moto delle risorse impensabili. Il figlio che vive con lei imparerà probabilmente a essere più autonomo; l’altro figlio ricorrerà una volta in più alla baby-sitter o all’altra nonna.
Nella sua lunga lettera – che ho dovuto accorciare per questioni di spazio – lei mi parla anche di una sorella che si disinteressa dei genitori: scommettiamo che se lei si defila un po’, questa sorella uscirà allo scoperto? Provi, e soprattutto abbia fiducia in se stessa e in chi le sta accanto.



 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017