Lettere al direttore

26 Maggio 2008 | di

Quando si è felici dell’altrui felicità

«Ho letto nella rubrica “Lettere al direttore” del mese di aprile quanto ha scritto la mamma il cui figlio ha espresso il desiderio di farsi prete. Se mi permette, posso dare la mia testimonianza. Nello scenario che i genitori immaginano per il futuro dei propri figli ci sono in ordine: la laurea, un buon posto di lavoro, il matrimonio, i nipoti, in definitiva la loro felicità. Questo, ben inteso, è cosa buona e sacrosanta! Mai e poi mai ci si immagina che il figlio/a possa prendere strade “fuori schema”... ma tant’è.
«Parlo di mia figlia, intelligente, bella, sportiva (con la passione per i cavalli), amante dei viaggi, delle buone letture e di tutte le cose belle. Ma anche riflessiva e profonda. Il suo cammino di fede, dopo sette anni, l’ha portata a una scelta radicale: farsi monaca. La cosa me l’ha comunicata in una delle innumerevoli passeggiate fatte assieme. Non l’ho certamente incoraggiata, ma neanche dissuasa; le ho solamente chiesto due cose: terminare gli studi e pregare per capire la volontà di Dio. Il giorno dopo la laurea ha preso la sua valigia ed è entrata nel monastero delle Clarisse a Moggio Udinese. Da allora sono passati dieci anni, e non ho mai visto una ragazza così felice, così serena, così immersa nel mondo, pur vivendo in clausura, e ricca di contatti, soprattutto con gli amici universitari e con tutti i giovani che la conoscevano. Quale abbondanza di vita! Come genitori abbiamo capito e vissuto in maniera del tutto speciale il comando del Signore: “Onora il padre e la madre”. Siamo stati onorati da nostra figlia in maniera del tutto inattesa. Siamo felici per la sua felicità!
«Questo non fa di noi dei cristiani privilegiati, perché di fatto abbiamo passato prove molto pesanti: una malattia molto grave di mia moglie, la perdita della nostra secondogenita, la perdita del mio posto di lavoro (sono ancora disoccupato, e ho un lavoro stagionale), ma tutto questo non ci ha tolto la serenità. Ci sentiamo amati da Dio e a Lui ogni giorno ci affidiamo. Alla sera ci raccogliamo in preghiera, sapendo che anche nostra figlia nella sua cella sta pregando con noi. Quando mai avremmo avuto una comunione così profonda con lei se si fosse sposata, o se il suo lavoro l’avesse portata dall’altro capo del mondo?
«Abbiamo sperimentato che Dio non toglie mai, ma dona a piene mani, con una misura pigiata, scossa e traboccante. Coraggio, cara mamma, si fidi del Signore e preghi per suo figlio lasciando che scelga la strada che Dio fin dall’eternità ha pensato per lui».

Famiglia Dorigo Sandro e Giulia – Caorle (Ve)

Caro Sandro, la mamma un po’ preoccupata per la vocazione del figliolo che vuol farsi prete troverà nelle sue parole possibilità di confronto e motivo di conforto. Le esperienze di vita altrui, che pure rimangono sempre soggettive, hanno di bello la possibilità di offrire altri e alternativi punti di vista per rileggere la propria personale situazione. Grazie per aver condiviso la sua e vostra esperienza di genitori.

Risuscitò secondo le Scritture

«Egregio direttore, ricorro alla sua cortesia per vedere sciolto un interrogativo che mi assale tutte le volte che alla domenica, in occasione della santa Messa, recito il Credo unitamente all’officiante. Nell’atto di fede condensato nel “Credo”, che è un’espressione di totale adesione a ciò che è stato rivelato, si trova “…il terzo giorno risuscitò da morte, secondo le Scritture”. Quest’ultima espressione mi turba perché se io credo, debbo credere anche se non lo hanno rivelato le Scritture, altrimenti la mia fede dovrebbe essere supportata da un qualcosa proveniente o dovuto ad altri pur riconosciuti più autorevoli di me. Ho notato, inoltre, che nel Credo che si recita nel periodo quaresimale non vi è alcun riferimento alle Scritture, ma si dice solo “il terzo giorno risuscitò da morte”».

Lettera firmata

Parto dalla coda per rispondere alla sua lettera qui riportata in sintesi. Lei chiede spiegazioni a riguardo di un’espressione che si trova nel Credo. Più precisamente il Credo di Nicea-Costantinopoli, cosiddetto perché composto dalla formulazione approvata al primo concilio di Nicea (325) con l’aggiunta di ampie integrazioni introdotte dal primo concilio di Costantinopoli (381). Nel «Credo degli apostoli» – più stringato nonché più antico (risale infatti al II secolo) – che si recita preferibilmente nel tempo quaresimale, non si trova infatti quel «secondo le Scritture» che tanto la turba. Che cosa l’espressione significhi ce lo dice con chiarezza il n. 652 del Catechismo della Chiesa cattolica: «La risurrezione di Cristo è compimento delle promesse dell’Antico Testamento e di Gesù stesso durante la sua vita terrena. L’espressione “secondo le Scritture” (1Cor 15,3-4 e Simbolo di Nicea-Costantinopoli) indica che la risurrezione di Cristo realizzò queste predizioni». Quel secondo le Scritture, però, non va inteso nel senso banalmente consecutivo di seguendo le Scritture, come se si trattasse di una cosa ovvia e scontata, che doveva per forza accadere (è qui che lei punta i piedi, e intravede quasi una diminuzione del bisogno di credere, se ho ben capito). Migliore traduzione risulta essere in accordo con le Scritture, poiché la novità assoluta della risurrezione getta nuova luce sull’insieme complesso e a tratti enigmatico dell’Antico come del Nuovo Testamento. Lo sguardo credente sul lungo dialogo tra Dio e l’uomo fatto di eventi e di parole e custodito dalle Scritture ebraico-cristiane, diventa nitido a partire dalla vetta dell’evento della risurrezione più che viceversa. Questo evento, anche se assolutamente gratuito, non è stato certo casuale, ma rientra nel progetto salvifico divino. A ciò diamo assenso con il sì della nostra fede, la quale non viene sminuita dal fatto di riferirsi a una vicenda che, pur svolgendosi nei chiaroscuri della storia, segue le strade misteriose del manifestarsi progressivo della salvezza. Gli occhi della fede leggono i fatti, che tutti vedono, più in profondità.

Dopo la pensione ritrovare il senso del tempo

«Da alcuni mesi sono andato in pensione, dopo più di quarant’anni di lavoro in officina. Pensavo di godermi questa libertà dal lavoro, ma non ci riesco. Mi ritrovo con un sacco di tempo a disposizione, e non so che farmene. Non sono un grande lettore, né ho particolari passatempi. Su consiglio di amici ho anche provato a dipingere, ma mi stufo presto. Non vorrei ridurmi a passare il tempo davanti alla televisione, come purtroppo accade. Cosa mi suggerisce?».

Lettera firmata

La prospettiva della pensione è in genere caricata di aspettative che, una volta chiusa l’esperienza lavorativa, spesso non si realizzano. E così, come succede nel suo caso, sono tanti i pensionati i quali, dopo un primo periodo di spaesamento misto a euforia, non riescono a ripensare il proprio tempo improvvisamente libero da obblighi. Apatia e depressione sono conseguenze non rare di questo cambiamento di ritmi e abitudini.
Per prevenire tali sbocchi preoccupanti, anche in Italia sono stati attivati percorsi di preparazione al pensionamento, non molto diffusi ma apprezzati. Perché cercare un senso alla nuova situazione di vita è quasi un nuovo lavoro rispetto a quello lasciato con il pensionamento. E non meno serio, né meno delicato.
La scienza ha elaborato un modello, per spiegare l’invecchiamento, che trovo molto adatto in questo frangente. È la teoria del «non uso»: come un muscolo cade in atrofia se non viene esercitato, così anche la mente e lo spirito se non restano attivi si rilassano, andando incontro a un progressivo decadimento. Tenersi impegnati significa allora riuscire a scovare qualche talento dalla riserva inesauribile di possibilità che abbiamo in noi. Lo si può fare interrogando se stessi, i propri desideri, aspettative, relazioni. Bene hanno fatto i suoi amici a proporle tavolozza e pennelli: avrebbero potuto essere gli strumenti per la scoperta di insospettate propensioni artistiche. E se ha valutato che questa forma di manualità non è un suo modo di esprimersi, non demorda nella ricerca di un interesse attivo, che la porti a stare bene con sé e con le persone che le sono vicine. Anche per puro divertimento, in modo dilettantistico (il «dilettante» è letteralmente colui che si diletta). Un ulteriore rimedio per migliorare il proprio clima interiore, per motivarsi e mettere in circolo le energie migliori, è decidere di aiutare gli altri. Ho tenuto in conclusione questo invito perché sono convinto che mettersi a servizio del prossimo è un atteggiamento vincente: da una parte si rompe il muro di solitudine che si ispessisce sempre più intorno a noi; dall’altra ci si rituffa nel flusso della vita con positività.

Dare troppo ai bambini. Se ne può fare a meno?

«Un paio di settimane fa le maestre della scuola materna di mio figlio hanno convocato tutti i genitori della classe. Pensavamo si trattasse della solita riunione di fine anno e invece hanno cominciato a dirci che i nostri figli non hanno alcun rispetto delle cose: buttano, rompono, rovinano. Sono così pieni di tutto da non riuscire più a fare differenze. Di mio sono molto parca nell’acquisto di regali, ma poi ci sono i nonni, gli zii, i compleanni e ogni buon proposito va in fumo. Ma come faccio io, mamma in una società consumistica, a insegnare a mio figlio ciò che ha davvero valore senza farlo sentire un diverso?».

Lettera firmata

Il primo passo è rendersi conto che la difficoltà educativa esiste, esattamente come sta facendo lei. Riempire i bambini di regali non è solo un problema etico, ma anche, e direi soprattutto, esistenziale. Le maestre di suo figlio sottolineano a mio parere un concetto chiave: «I bambini non riescono più a fare differenze», che tradotto in altri termini significa che non riescono a capire cosa sia più importante per loro, cosa davvero piaccia, permetta di esprimersi al meglio e di entrare in contatto con gli altri e con il proprio mondo interiore. Eppure riuscire a percepire le differenze, trovare i mezzi per esprimersi, sondare i propri desideri sono i primi tasselli per imparare a gustare la vita. Mi è capitato di incontrare reazioni diverse di fronte al problema: c’è chi nega al figlio ogni sorta di regalo e chi invece si arrende all’andazzo consumistico. C’è poi una terza opzione, la più difficile, tipica di quei genitori che non demonizzano le cose ma neppure si arrendono a esse. In questo caso si tratta di genitori che non solo sanno dire qualche «no», ma cercano in tutti i modi di restituire un senso all’atto di ricevere e di dare.
Ricordo un padre che prima di Natale chiamò i parenti e chiese loro di mettersi insieme a fare un unico regalo al proprio figlio per permettergli di gustarlo pienamente. I parenti capirono e chiesero lo stesso per i loro figli. Un altro caso è quello di due genitori che diedero al figlio la foto di un fratellino adottato a distanza, non certo per colpevolizzarlo, ma per renderlo consapevole che esistono modi di vivere e di giocare diversi.
Infine, ricordo una madre che di fronte al figlio piangente perché non riusciva a costruire l’ennesimo oggetto in mattoncini esattamente come da istruzioni, disse al figlio: «Chi ti ha detto che è meglio come l’hanno costruito loro? Nella tua testa hai una magia, che si chiama fantasia e con quella puoi costruire qualsiasi cosa». E glielo dimostrò creando assieme a lui, coi medesimi mattoncini, tanti diversi oggetti. Qualche settimana dopo la baby sitter le disse: «Mi sembra che suo figlio stia diventando svogliato: prima copiava i colori degli oggetti dall’album da disegno, oggi mi ha colorato le figure di testa sua, dicendomi – pensi un po’– che lui è uno che usa la fantasia e nella sua fantasia è un cavaliere verde con un cavallo rosa».
Forse il segreto sta proprio in questo sforzo continuo di creare autocoscienza, relazioni, significato. Un giorno alla volta.

Nuove moschee e alcune perplessità

L’esercizio dei diritti, compreso quello di culto, deve essere sostenuto dalla consapevolezza dei doveri e delle norme a cui tutti si è tenuti.

«Caro direttore, sono una lettrice e abito in un paese della provincia piemontese. Da qualche tempo la comunità musulmana, che si sta sempre più allargando, vuole realizzare qui da noi una moschea. Capisco il desiderio di un luogo di preghiera, la libertà religiosa e tutto il resto. Ma sono anche spaventata dalla predicazione di odio, dalla propaganda di terrorismo e violenza. Le polemiche sulle nuove possibili moschee a Bologna, Padova e altrove non mi aiutano a capire. Mi ha messo in confusione anche quanto ho letto a proposito di Trento, dove alcuni cristiani hanno fatto una colletta perché i musulmani costruissero una moschea».

Lettera firmata

La questione toccata dalla lettrice entra direttamente nel merito di un fatto ormai noto: la presenza degli immigrati in Italia è un dato stabile, in crescita e dalle prospettive future ancora incerte. Già questa affermazione sarebbe sufficiente a giustificare i tanti motivi di apprensione, le paure, i dibattiti, come anche i tentativi di risposta che si cerca da più parti di elaborare.
Va ricordato, innanzitutto, un aspetto: un Paese come l’Italia, fondato sul diritto, deve garantire anche il rispetto della personale fede religiosa, così come ricordato dall’articolo 19 della Costituzione, dalle dichiarazioni internazionali e dallo stesso insegnamento sociale della Chiesa. Ovviamente il diritto alla fede deve andare di pari passo con la promozione concreta del diritto stesso, per cui ci si troverà inevitabilmente a discutere di luoghi, di associazionismo, di rappresentanti, di finanziamenti e via dicendo. Se da un lato, quindi, va sostenuto il diritto alla pratica religiosa di tutti, dall’altro il governo e le amministrazioni locali hanno tutto il dovere di verificare che presupposti, modalità, insegnamenti di vario genere – che sono patrimonio di ogni specifica comunità religiosa –, non contrastino con le leggi della nazione e con il patrimonio culturale condiviso della società. Ogni persona può legittimamente rivendicare i propri diritti se questi sono sostenuti anche dalla consapevolezza netta e fattiva dei doveri e delle norme a cui tutti si è tenuti. Tali semplici osservazioni valgono per ogni gruppo religioso e non dimentichiamo che in Italia, secondo le statistiche a disposizione, la maggioranza degli stranieri non è di fede musulmana. Inoltre tutto risulta complicato dal fatto che il nostro Paese non ha mai vissuto una reale situazione di pluralismo religioso, per cui talvolta si ha l’impressione che nella gestione di fenomeni nuovi si proceda per aggiustamenti progressivi piuttosto che tramite scelte precise e lungimiranti.
Nel caso specifico, anche se la visibilità dei musulmani sta diventando sempre più evidente nel panorama italiano, non abbiamo ancora una legge quadro sulla libertà religiosa e nemmeno una Intesa tra lo Stato e i musulmani d’Italia capace di porre in modo pacato e corretto i termini delle varie questioni implicate dal doveroso rispetto della libertà di fede, diritto che si declina in molteplici occasioni e contesti: il culto, gli ambienti di lavoro, l’alimentazione, l’educazione, il carcere, la sanità, le feste e via dicendo.
Non sarebbe corretto, tuttavia, porre il problema delle «moschee», ovvero dei luoghi di culto e di socializzazione dei musulmani, nei soliti termini dell’emergenza terrorismo o della sicurezza, sulla quale peraltro lo Stato deve vigilare. Ogni gesto che faciliti la convivenza deve essere valutato adeguatamente, senza un uso distorto (subito politicizzato!) della questione. È sicuramente utile attendersi dai musulmani un’assunzione di responsabilità nei confronti del territorio in cui sono e delle persone con cui operano, attraverso, ad esempio, una partecipazione più convinta alla vita sociale nei luoghi quotidiani in cui questa si svolge. Solo tale frequentazione e un sostanzioso vissuto di «“cittadinanza” responsabile» è la giusta prospettiva all’interno della quale far scaturire o meno la decisione a favore di una «moschea».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017