Lettere al Direttore

23 Aprile 2008 | di


Congedo per paternità: troppe resistenze

«Sono un giovane papà e lavoro come impiegato in una grande industria. Alla nascita di Gabriele, mia moglie aveva un contratto di collaborazione a progetto, che prevede solo pochi mesi di maternità. Di conseguenza ho deciso di chiedere il congedo dal lavoro per paternità. Non le dico le resistenze che ho trovato: i sorrisi di commiserazione dei colleghi e dei dirigenti (anche donne), i commenti di amici e parenti. La Chiesa si è mai espressa sul congedo di paternità?».

Lettera firmata


Ormai è sotto gli occhi di tutti: la gran parte delle famiglie, per arrivare a fine mese, ha necessità di un doppio stipendio. Devono lavorare sia mamma che papà. Questa crescente partecipazione lavorativa femminile è sia una necessità che una conquista, e porta con sé alcune conseguenze, come il maggior coinvolgimento nella cura dei figli da parte dei padri. Se tale opzione è una prassi per molte famiglie, non sembra che si sia innescata un’adeguata riflessione culturale – ma anche ecclesiale – in grado di valorizzare questi cambiamenti, come denunciato anche dal nostro lettore. È sintomatico che in Italia si sia arrivati a una legge sui congedi parentali allargata ai padri (la 53 del 2000) solo per la spinta europea dei movimenti femministi, non per un movimento di base dei papà, i quali molto lentamente stanno apprezzando questa nuova opportunità. Perché purtroppo la nostra società ha ancora un pensiero sessista sui compiti del matrimonio e familiari: in fondo, quando ci sono dei figli in arrivo, ci si aspetta sempre che sia la donna a restare a casa, o a lavorare part- time. A una formale disponibilità paritaria – quella vissuta anche da chi ci scrive – non corrisponde uno sviluppo culturale adeguato della società. Anche i papà comunque devono rendersi disponibili, specie in quei ruoli che tradizionalmente non vengono assegnati loro: vestire il bambino, preparargli i pasti, cambiargli il pannolino, fargli il bagno, metterlo a letto. Senza per questo cadere nel ruolo del «mammo», molto affettivo e poco affermativo. La cura responsabile, autentico compito evolutivo dei genitori, si declina infatti in una compresenza costante di aspetti affettivi di «cura» (protezione, calore, coccole) e aspetti normativi di «responsabilità» (regole, spinte emancipative, limiti), assicurando in tal modo un equilibrio tra dono materno e dono paterno.

Infine devo dirle che, da quanto mi risulta, la Chiesa – che pure parla spesso del matrimonio e della famiglia – non si è ancora espressa direttamente sul congedo parentale, sebbene ci siano alcuni segnali in questo senso, anche innescati dalle riflessioni sul nuovo rito del matrimonio. La visione cristiana del matrimonio, infatti, vede coinvolti sia l’uomo che la donna nella conduzione della vita familiare, soprattutto nella crescita e nell’educazione dei figli: e questo vale anche per pannolini, biberon e pappette. È tempo dunque che i papà prendano le distanze sia dal mito della carriera che da un’immagine distorta di virilità.



Morire a cinque anni sulla strada

«Sono rimasto sconvolto dalla morte della bambina di cinque anni uccisa in provincia di Chieti mentre scendeva dalla macchina dei genitori. Io sono un nonno e come molti nonni do una mano a mia figlia che ha una bambina piccola e lavora fino a tardi. E così accompagno e vado a prendere Marisa, mia nipote, a scuola. È una bimba deliziosa, con una grande cartella rosa e gli occhiali rossi. Le macchine ci sfrecciano accanto appena siamo sul ciglio della strada, davanti alle strisce. Vanno così veloci che d’istinto le stringo forte la mano e la tengo un passo indietro a me. Non me lo perdonerei mai se le succedesse qualcosa. Tutti di fretta, senza ritegno, senza rispetto.

«Per noi pedoni la vita è sempre più difficile. Nel nostro Paese le strisce sono una formalità. Le nuove rotatorie, che tanto aiutano il traffico, rappresentano, poi, l’ennesima trappola. Il pedone è l’ultimo in ordine di importanza, quasi fosse invisibile, per cui quando attraversi calcoli ogni mossa. Sai che nessuno lo farà per te. Ma adesso che avanzo negli anni, il mio passo è più lento. Lo ammetto, a volte ho paura. Spesso tentenno prima di decidermi ad attraversare, e c’è chi mi insulta. Poi guardo Marisa e mi domando: possibile che non abbiano anche loro figli e nipoti?».

Lettera firmata


Innanzitutto mi complimento: la sua lettera è umanamente delicata e ricca di senso civico. Sua nipote Marisa è come il simbolo di ciò che tutti noi dovremmo salvaguardare e di una nuova consapevolezza da attivare.

Per quanto riguarda i pedoni, la sua è una giusta intuizione, purtroppo. Non è solo il suo passo che si è fatto più lento, è il «livello di civiltà» che è peggiorato. Ogni giorno in Italia 60 persone sono investite da un mezzo, due muoiono, le altre finiscono in maggioranza in ospedale, alcune con gravi traumi. Il 55 per cento sono anziani, ma stanno aumentando progressivamente anche i bambini. Non solo, le vittime tra i pedoni sono sempre di più: nel 2006 ci sono stati 758 morti, 55 in più rispetto all’anno precedente. Un dato in controtendenza visto che il numero totale di morti per incidenti stradali sta diminuendo. Che cosa significa tutto questo? Che il pedone è l’anello debole del nostro sistema di traffico e che spesso a morire sulle strade sono proprio le persone più fragili. Una doppia fragilità che meriterebbe più attenzione sia da parte delle istituzioni sia da parte di chi guida. Mi permetta un’ultima riflessione. Per strada anche la persona più insospettabile spesso si trasforma, da docile collega e premuroso padre di famiglia a conducente impaziente, troppo disinvolto con le parole e con il codice della strada. È vero che viviamo in tempi di dissociazioni e di doppie morali, ma almeno là dove si gioca con la vita propria e altrui ritorniamo persone e cittadini a trecentosessanta gradi.



Lettera del mese

Cristiani in pantofole e tranquilla apostasia pratica


Molti cristiani se ne sono andati in punta di piedi, senza sbattere la porta, senza volontà alcuna di chiarire e tanto meno discutere la propria scelta.

 

«Ho letto con estremo interesse il suo editoriale comparso sul “Messaggero” di febbraio. Dal mio modesto osservatorio, penso che ricominciare dal primo annuncio sia al momento piuttosto riduttivo. Noi cristiani continuiamo a vivere e a professarci tali, mostrando anche veemenza nei nostri discorsi soltanto o quasi sempre quando ci ritroviamo comodamente sdraiati sui nostri divani, apparentemente disponibili, anzi pronti, ad accettare il martirio nel nome di Gesù. Il nostro è un cristianesimo molle e annacquato dalle comodità di cui disponiamo. Anche Mosè lasciò le sue certezze e si stabilì in quel di Madian, dove badava alle greggi e ai piccoli problemi quotidiani: era insomma un uomo pio. Anche noi lo siamo quando l’eccessiva timidezza e la stolta mitezza ci inducono a pensare al nostro comodo nido. Io credo che la società liquida nella quale noi cristiani siamo immersi ci impedisce di uscire allo scoperto e metterci in discussione cogliendo ogni occasione “opportuna e inopportuna”. Magari si trattasse di una nuova era di paganesimo: il primo annuncio attecchirebbe molto ma molto di più. Qui si tratta di rifiuto di Dio a vario titolo, perché è l’uomo che sostituisce Dio: credo si tratti di empietà da cui tutti gli altri peccati scaturiscono. Trasformare i desideri o i sogni in diritti costituisce il problema più complesso nella società odierna. Penso che almeno noi cristiani ignoranti e presuntuosi dovremmo rimettere Dio al centro di tutto con un porta a porta incessante nei condomini e nelle parrocchie nelle cui sagrestie ci rifugiamo come Mosè: i presbiteri dovrebbero essere più incisivi nelle omelie che ci lasciano troppo spesso più vuoti e confusi di prima. Personalmente ho spesso sperimentato, proprio nell’àmbito delle parrocchie, dei muri di gomma, dei piccoli centri di potere verso i quali i parroci, per pigrizia o per non perdere quel poco di acquisito, si dimostrano tolleranti. Qualunque idea nuova è guardata con sospetto e timore. Siamo stracolmi di liturgie sfarzose e pochissimo di Spirito Santo. Non so se sono riuscita a esprimere la mia opinione, ma mi farebbe tanto piacere leggere la sua. La ringrazio di cuore».

e-mail di Imma


Grazie, cara Imma, per le tue sottolineature e per le schiette critiche (spero fatte anche con spirito autocritico) rivolte a molti cristiani in pantofole che della missione della Chiesa si interessano poco o niente. Usi espressioni che ormai sono entrate nel gergo dei circuiti parrocchiali e dei gruppi ecclesiali: uscire allo scoperto, cogliere l’occasione dell’annuncio, rimettere Dio al centro, ecc. Non tralasci di provocare a un maggiore impegno anche i preti, che vuoi più incisivi nelle omelie e soprattutto in grado di contrastare ogni possibile involuzione della parrocchia: perché questa realtà, così centrale nella vita della Chiesa, non diventi il classico «muro di gomma» che scoraggia l’approccio di quelli di fuori, mentre gratifica gli utenti abituali, compatti e raggomitolati nella difesa del «si è sempre fatto così». Sei molto precisa in un punto, là dove constati che di fronte alla Chiesa non si erge oggi un vero e proprio paganesimo, quello cioè che il cristianesimo si trovò a fronteggiare nei primi secoli con l’esito che conosciamo. In fondo nel mio editoriale cercavo – forse non ci sono riuscito al meglio – di dire proprio questo: qui da noi, in Occidente intendo, vi è una larga prevalenza di non-più-credenti, più precisamente di non-più-cristiani che hanno voltato le spalle al cristianesimo. Se ne sono andati silenziosamente, quasi in punta di piedi, senza sbattere la porta, senza volontà alcuna di chiarire e tanto meno discutere con qualcuno la propria scelta. Il cardinal Eyt, qualche anno fa, parlava di «tranquilla apostasia pratica». I rimedi vanno trovati insieme. Ben vengano dunque i suggerimenti di tutti e, ancor più, chi dà suggerimenti non se ne stia in panchina (in pantofole) ma scenda in campo.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017