Lettere al direttore

26 Marzo 2008 | di


Aiuto, mio figlio vuole farsi prete

«Caro direttore, sono, come si dice, una donna credente, praticante, madre di un figlio ormai grande, appena laureato. Ed è proprio a proposito di questo figlio che le scrivo: qualche giorno fa mi ha confidato di voler entrare in seminario. E io, che mi sono sempre considerata una “brava cattolica”, davanti a questa scelta sono andata in crisi. La vita da prete, oggi soprattutto, è dura: come farà a sopravvivere senza il calore di una famiglia, senza dei figli? Insomma, padre, mi aiuti: sono in difficoltà».

Lettera firmata

Gentile lettrice, innanzitutto non si spaventi per la sua reazione e cerchi di avere comprensione verso se stessa: ciò che le sta accadendo è molto più comune di quanto si pensi. Una madre, un padre sono sempre preoccupati per il futuro dei propri figli e vorrebbero preservarli in tutti i modi da possibili dolori, sofferenze, delusioni, anche se si tratta di esiti spesso più immaginati che reali. Sappiamo bene, in ogni caso, che questo non è possibile: un figlio è una persona «altra» dai genitori, ai quali in realtà è stato solo affidato; ha un proprio destino e una propria vocazione, e solo rispondendo a questa, qualunque essa sia, potrà realizzarsi pienamente nella vita. Quanto più i genitori avranno svolto bene il loro ruolo educativo, tanto più il figlio sarà un individuo autonomo e indipendente, capace di fare le proprie scelte e di affrontare le inevitabili difficoltà.

Suo figlio, a quanto pare inaspettatamente, le ha espresso il desiderio di entrare in seminario: qui lo attendono anni di cammino vocazionale, accompagnato da persone che lo aiuteranno a vedere più chiaramente in se stesso per comprendere se è proprio al sacerdozio che il Signore lo sta chiamando. Una volta, l’ingresso in seminario era considerato una scelta quasi definitiva: il ragazzo che dopo qualche tempo avesse voluto ritornare sui suoi passi era costretto a pagare un prezzo molto alto in termini di riprovazione sociale. Oggi, fortunatamente, non è più così. Il tempo del seminario è finalmente riconosciuto per ciò che è: un periodo nel quale, mentre da una parte il giovane (spesso non troppo giovane) aspirante mette alla prova la realtà della propria vocazione, dall’altra la Chiesa valuta la genuinità della sua chiamata alla vita sacerdotale. Suo figlio, dunque, avrà tutto il tempo e i modi per compiere altre scelte qualora la sua si dimostrasse una vocazione non autentica.

Molti genitori, inoltre, non riescono a pensare alla realizzazione del proprio figlio se non all’interno di un rapporto sentimentale o familiare. Al di fuori della vita di coppia non vedono altro che cupa solitudine e inautenticità. Ma, anche in questo caso, si devono avere idee chiare.

Un sacerdote non si priva di relazioni affettive significative: rinuncia, è vero, a un rapporto con una donna caratterizzato da unicità ed esclusività, per testimoniare – come ho scritto anche lo scorso mese proprio su queste pagine – che il primo «tu» di ogni uomo e donna è innanzitutto Dio.

Questo, però, non gli impedisce di ricevere e donare affetto in modo autentico e profondo. Per quanto riguarda, infine, la possibilità di generare, ricordiamoci che esistono una maternità e una paternità «spirituali» per cui un sacerdote può, con grande concretezza, far sbocciare alla vita e accompagnare nei perigliosi sentieri della stessa altre persone – di diversa età – che si affideranno alla sua mediazione umana e di fede.

Chi ha paura del porcellino salvadanaio?

«Ho letto che in Olanda una banca internazionale è stata costretta a eliminare i porcellini-salvadanaio che regalava ai clienti minorenni per non offendere le persone di religione musulmana. Mi sembra che si stia passando il limite: come si fa a sentirsi minacciati da un innocuo gadget, presente in forme simili in tantissime nostre case, e senza nessun intento discriminatorio?».

Lettera firmata

A gennaio, nella lettera del mese, abbiamo già visto come il maiale sia per l’islam un animale impuro, e per quali motivi le persone musulmane non si cibino della carne suina. Qui però la situazione è diversa. Condivido la preoccupazione del lettore: non c’è un vero motivo per accantonare i porcellini-salvadanaio. Perché non sono un elemento che offende la sensibilità di nessuno: ad esempio, anche per le persone di religione ebraica il maiale è impuro, ma mai nessuna banca si è sognata di mettere al bando i salvadanai pensando a loro. Anche molte persone di religione musulmana non si sognerebbero mai di sollevare un problema di così poco conto, a fronte dei tanti che ancora sussistono nella ricerca comune di una pacifica convivenza.

Del resto, ci sono due precedenti che a diversi livelli aiutano a comprendere da che parte tira il vento. Il primo esempio viene dalla Turchia, dove nel 2006 la televisione di Stato Trt ha censurato il cartone animato della Disney che ha per protagonista l’orsetto Winnie the Pooh, reo di avere come amichetto del cuore il maialino Pimpi. Ancor più clamoroso quanto riportato da «Asia News» per la Cina: lo zodiaco cinese ha festeggiato nel 2007 l’anno del maiale, ma la principale televisione di Stato, la Cctv, ha impedito che fossero messe in onda immagini del suino, «per rispetto». Stiamo parlando dello stesso Paese che reprime le minoranze religiose (musulmana compresa), che arresta i contestatori, che sistematicamente calpesta i più elementari diritti umani. Chiara quindi l’operazione «di facciata», che tiene conto pure degli interessi commerciali cinesi in Africa e Medio Oriente. Insomma, una soluzione di marketing, come appare anche quella olandese. In termini economici può essere comprensibile, ma non tiriamo fuori motivazioni culturali o religiose per un maialino di porcellana. Sono ben altri i problemi del dialogo interculturale, e le soluzioni da adottare per accogliere la diversità.

 LETTERA DEL MESE

Laicità cercasi per una società plurale

Oggi si esige un ripensamento del valore della laicità, oltre le semplificazioni e i pregiudizi.

«Caro padre, in Italia si fa un gran parlare di laicità, e la Chiesa è sempre e comunque sul banco degli imputati. È mai possibile?».

Lettera firmata

Il tema della laicità in Italia, e non solo, si è fatto caldo. La prima causa va individuata nel rafforzamento e nel reingresso della religione (meglio al plurale: delle religioni) nella sfera pubblica. Negli ultimi decenni, dopo il fallimento sul campo del teorema della morte di Dio, quella religiosità che sembrava definitivamente relegata e in qualche modo «tollerata» all’interno del perimetro della soggettività, tende a venire allo scoperto e ritrova fiato per un discorso che vuole essere valido anche in ambito pubblico.

Più concretamente, quello che vediamo e che i media amano enfatizzare, almeno qui da noi, sono le contrapposizioni tra due schieramenti su alcuni temi di fondo: presenza o invisibilità del cattolicesimo nella sfera sociale; correttezza o meno del riferimento alle radici cristiane nella costruzione della nuova Europa; per non entrare nei labirinti delle discussioni che animano la bioetica. Abbiamo parlato di due schieramenti, raccolti in modo semplicistico sotto le etichette laici e credenti, con conseguente cortocircuito linguistico. Il laico sarebbe colui che non crede, ancor meglio se caratterizzato da residui di anticlericalismo; il credente sarebbe invece colui che fatica a integrare nella sua visione la prospettiva «laica». Spirito libero quello del laico, dunque, spirito asservito e sempre a rischio di integralismo quello del credente.

Premesso il fatto che il rispetto laico della ragione non è garantito a priori né da chi fa sua né da chi nega la prospettiva di fede, si può affermare che nessuno può sequestrare la laicità e riferirla a un unico sistema di valori. Infatti, la laicità è innanzitutto un metodo, un modo di guardare alle cose, di misurarle con libertà e verità, sempre nel confronto. «La laicità – puntualizza Claudio Magris – non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l’attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici» («Corriere della Sera», 20 gennaio 2008). Da una parte, sostiene Magris, l’opposizione alle ingerenze della Chiesa nella politica (che lo scrittore triestino intravede) perde significato quando si traduce in atteggiamenti d’intolleranza: è accaduto in gennaio alla Sapienza di Roma; dall’altra parte la Chiesa deve sempre ritornare all’ispirazione evangelica dell’autentica laicità, vale a dire alla necessità di distinguere tra Dio e Cesare. In un intervento del 9 aprile 2003, commentando la Nota della Congregazione per la dottrina della fede sull’Impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, l’allora cardinal Ratzinger puntualizzava che «la politica non si desume dalla fede, ma dalla ragione, e la distinzione tra la sfera della politica e la sfera della fede appartiene proprio alla tradizione centrale del cristianesimo: la troviamo nella parola di Cristo “Date all’imperatore quanto è dell’imperatore, a Dio quanto è di Dio”». Anche se, naturalmente, distinzione non significa estraneità e tanto meno incomunicabilità tra comunità di fede e comunità civile. Infatti, la stessa Nota precisa che «per la dottrina morale cattolica la laicità intesa come autonomia della sfera civile e politica da quella religiosa ed ecclesiastica – ma non da quella morale – è un valore acquisito e riconosciuto dalla Chiesa».

La Chiesa, dunque, è convinta di avere voce in capitolo nella determinazione dell’etica pubblica, ed entra alla pari nel dibattito in corso, senza pretendere privilegi ma anche senza alcun senso di inferiorità. Lo fa con argomentazioni razionali, quindi laicamente; dovrebbe farlo anche vigilando sempre sul suo stile comunicativo, per non rischiare di tradire con i toni la buona e preziosa sostanza della sua proposta.



Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017