LETTERE AL DIRETTORE

22 Febbraio 2008 | di


Con chi potrà correre Pistorius?

«La vicenda di Pistorius mi ha prima entusiasmato e poi profondamente deluso per il suo esito negativo. Finalmente un atleta con gravissimi problemi fisici (praticamente senza due gambe!) era riuscito a emergere tra le stelle dell’atletica. Ma i giudici della Iaaf (Federazione internazionale di atletica) gli hanno impedito di raggiungere la meta agognata: le Olimpiadi di Pechino nell’agosto di quest’anno. Non è un impoverimento per lo sport e un giudizio troppo pesante nei confronti del mondo dei disabili?».

Lettera firmata


Il 13 luglio scorso, per puro caso, ho visto in diretta tv l’emozionante recupero di Oscar Pistorius al Golden Gala di atletica di Roma sui 400 metri. Con poderose ed elastiche falcate (supportate da due lame piatte a forma di J) l’allora ventenne atleta sudafricano è risalito dagli ultimi posti fino al secondo e la folla è andata in visibilio. Il fatto che Pistorius, avendo entrambe le gambe amputate fin da bambino, corra grazie a protesi in fibra di carbonio, (un prolungamento degli arti inferiori ad alta tecnologia) è stato però considerato doping tecnologico. Questo, dopo alcuni mesi di posizioni altalenanti, è l’autorevole parere della Iaaf che mette fine alle speranze di una possibile partecipazione dell’atleta ai Giochi mondiali di Pechino.

Da parte mia, credo che Pistorius, in ogni caso, abbia già vinto la sua olimpiade facendo riflettere molti sulla possibilità che un disabile si misuri con atleti «normali». La grande forza di volontà dimostrata e la corrispondenza del pubblico la dicono lunga. In futuro, su questo punto, ci aspettiamo nuovi sviluppi, anche perché – a quanto pare – alcuni atleti diversamente abili hanno fatto ricorso chiedendo che Pistorius non gareggi più nemmeno nella loro categoria perché troppo favorito dalle protesi. Con chi potrà correre, d’ora in poi, questo grande atleta?


Perché i single non possono adottare?

«Caro direttore, sono una signora non sposata, di mezza età. Non sono ricca, ma ho un lavoro stabile che mi permette di vivere in modo dignitoso. Con gli anni ho sviluppato in me il desiderio di adottare un bambino, italiano o straniero, ma mi sono scontrata con la nostra legge che non lo consente. Perché l’Italia è l’unico Paese in Europa a non contemplare questa possibilità per i single?».

Lettera firmata


Non è del tutto esatto affermare che in Italia un single non può adottare. Infatti la legge prevede alcuni casi specifici di adozione, ad esempio quando il bambino abbandonato e l’adulto adottante sono parenti, o legati da un preesistente rapporto stabile e duraturo.

Ma alla radice del problema c’è un’altra questione, che sta alla base dell’attuale legislazione italiana in materia di adozioni: secondo la legge deve sempre prevalere il punto di vista del bambino, per il semplice fatto che l’adozione non è un diritto soggettivo di chi vuole adottare. Non si tratta primariamente di «dare ai genitori un figlio», ma è piuttosto il bambino ad avere diritto, per crescere e svilupparsi armoniosamente, a una mamma e a un papà. C’è anche chi sostiene: «Tra il rimanere in un istituto o l’essere adottato da un single, bisogna scegliere il male minore: la seconda ipotesi è pur sempre meglio di niente». Ma è un’alternativa illusoria. Infatti, il numero delle coppie coniugate pronte ad adottare, sia sul fronte nazionale come su quello internazionale, è di gran lunga superiore al numero dei bambini dichiarati adottabili. Ovvio quindi che i servizi, anche potendo scegliere, preferiscano affidare il minore a due genitori piuttosto che a uno solo.

Ciò detto, e per rispondere all’appello della lettrice, può essere doloroso da parte di persone single dover rinunciare alla speranza di adottare un bambino, come d’altra parte è ammirevole la dedizione di molte coppie che hanno intrapreso da anni l’iter burocratico senza ottenere riscontri concreti. Ma in nome dell’amore questa delusione può avere un senso: sarà lo stesso amore a indicare altre strade di maternità o paternità percorribili in pienezza, come – senza mettere limiti alla creatività – l’adozione a distanza, il volontariato, l’affido.


Chi gioca con la vita non sa amarla

«Provo fastidio e paura alla notizia di una nuova “moda” che fiorisce tra gli adolescenti inglesi e non solo. Questi si filmano col cellulare mentre schivano treni lanciati a tutta velocità, oppure si stendono tra una rotaia e l’altra mentre il convoglio passa sopra le loro teste. Assurdo! Mi dica, che cosa sta succedendo?».

Lettera firmata


La tentazione di fronte ai fenomeni da lei descritti è di etichettarli come insensati, pura follia in azione. In fondo che cosa significa «vita», oppure «morte», per questo bullismo autolesionista? Il valore dell’esistenza, dell’essere al mondo come soggetti liberi e responsabili, appare del tutto decontestualizzato; la persona esiste, nell’assoluta solitudine, solo in riferimento a se stessa, e cerca nell’esibizionismo estremo e scioccante una forma di comunicazione che è autoesaltazione, scarica di adrenalina, fama di invincibilità. La realtà viene confusa con un videogioco, anche se non sempre a game over (gioco finito) ci sarà una seconda possibilità. Vedo molta immaturità – non saprei come chiamarla altrimenti – in queste vite condotte in modo stupidamente e pericolosamente (per sé e per gli altri) superficiale. La bolla di irrealtà in cui si trovano isolate e intrappolate non può che preoccupare. Possibile che questi ragazzi non si accorgano della rigida prigione che si autoinfliggono costruendo mondi paralleli rispetto alla realtà, quella vera, fatta di relazioni, di paure e di rischi che non c’è bisogno di andarsi a cercare, di emozioni anche forti garantite dalla giovane età e dall’inesperienza? Il rischio è di buttare via qualcosa che non si conosce, di volersi procacciare situazioni limite da registrare (col solito cellulare) come trofeo di cui fregiarsi di fronte al branco o, a più largo raggio, al pubblico anonimo e voyeuristico di internet. «Esisto se sono visto», è la filosofia che muove tanti a tanto, e poiché c’è ben poco da mostrare, si ricorre al gesto paradossale, al «colpo di matto», danzando con la morte.
Certamente fenomeni come questi non si scoraggiano sorvegliando le tratte ferroviarie. Bisogna ridare profondità alla vita, quella degli adulti come quella dei giovani tentati di fuggire di fronte alla realtà; il che significa mettere radici nel passato e tendere lo sguardo al futuro, proiettati in avanti per costruire qualcosa di positivo. Solo a queste condizioni il modello life is now (la vita è ora) funziona, riempie di gusto e di amabilità il presente, e non si riduce a una fruizione dell’istante, dal quale bisogna spremere tutto, anche a costo di giocarsi la vita.


Chierichetti con scarpe da ginnastica

«Le scrivo per una questione che può sembrare di poco conto, visti i problemi ai quali la Chiesa deve far fronte. Quando ero giovane esisteva il cosiddetto “piccolo clero”, ragazzi che avevano il compito di servire Messa. Erano ben preparati e seguiti dal giovane sacerdote della parrocchia. Oggi non si capisce più niente, e sull’altare si vede un po’ di tutto: non esiste quasi più l’uniforme di una volta e in certe chiese si vedono addirittura sgargianti scarpe da ginnastica spuntare da sotto la candida tunica bianca».

Lettera firmata


Cara signora, non si consideri «all’antica». Lei è solo una persona che ha buon gusto e senso del decoro, e che desidera vederli rispecchiati proprio in quelle occasioni in cui la bellezza, sotto tutti gli aspetti, deve essere tenuta in alta considerazione. Mi riferisco, ovviamente, alla liturgia.

Condivido la lettura dei fatti che il suo scritto mette bene in rilievo. Se ci sono dei chierichetti vestiti «come capita», la colpa non è certamente loro. Si sa, i ragazzi vanno vestiti come li si veste in famiglia e come, in chiesa, il parroco permette. Con tutti i distinguo del caso, perché è anche vero che oggi alcuni ragazzi non hanno altro che scarpe da ginnastica, e magari la domenica in chiesa usano le migliori, convinti in buona fede di fare la loro parte. E con l’aggiunta del fatto che i preti, pressati da mille problemi, non hanno tempo di pensare alle tuniche e alle scarpe dei chierichetti. Voglio dire, riassumendo, che il problema in sé non sarebbe così grave se non fosse rivelatore di una superficialità che troppe volte offende e rimuove anche solo la possibilità remota di recuperare quel linguaggio della bellezza, o almeno della sobria eleganza, che non può essere considerato sempre e solo soggettivo. Se la liturgia non segue le mode, questo dovrebbe valere anche per tutti coloro che svolgono un ministero all’altare, chierichetti compresi. Senza censure, ma aumentando le dosi e gli esercizi di buona educazione. Il bello, poco per volta, si può anche imparare. Meno per imposizione, più per contagio.


Una moratoria del «dolore evitabile»?

«Nei mesi scorsi le cronache sono state occupate dalla notizia della moratoria sulla pena di morte votata dall’Onu su iniziativa italiana. Subito dopo è stata la volta della moratoria contro l’aborto. Tutte iniziative encomiabili e condivisibili, per carità. Ma perché nessuno si occupa mai delle persone morenti? Perché non si affronta il tema delle cure palliative, che potrebbero garantire una fine dignitosa a tanti ammalati terminali, e si preferisce parlare piuttosto di eutanasia e testamento biologico? Perché non lanciare anche una sorta di moratoria del dolore evitabile?».

Lettera firmata


Non si può che condividere l’entusiasmo che ha accolto la moratoria sulle esecuzioni capitali e altrettanto interessante appare l’apertura del dibattito sull’aborto, non solo nella prospettiva delle libertà della donna, ma anche e soprattutto dei diritti del soggetto più debole: l’embrione e il feto. Anche il rilievo dato dai mass-media a queste notizie può risultare molto utile per un confronto ampio e per far maturare un forte senso critico a favore di quella «cultura della vita» tenacemente difesa dalla Chiesa. Di questa cultura, che si prefigge di promuovere la dignità della persona in ogni fase della sua esistenza, fa parte, a pieno titolo, anche il capitolo delle cure palliative, che il Catechismo della Chiesa Cattolica non esita a definire «forma eccellente di amore gratuito» (2279). Esse, infatti, favoriscono un decorso meno drammatico della malattia terminale e contribuiscono a umanizzare la sofferenza, costituendo la vera alternativa pratica a ogni forma di eutanasia o di accanimento terapeutico, entrambi indegni della persona umana. In linea generale anche per il credente la soppressione del dolore è positiva perché può facilitare la distensione interiore, la preghiera e il fiducioso abbandono alla volontà di Dio. Se questa è la limpida e confortante posizione del Magistero, c’è bisogno di ulteriore impegno per diffondere una mentalità favorevole alla lotta al dolore evitabile e alla formazione adeguata degli operatori sanitari. Per questo risultano significative le riforme legislative, introdotte a partire dal 2001, in favore della terapia del dolore e di un’organizzazione assistenziale più attenta ai trattamenti palliativi. Molto resta ancora da fare. Come per esempio accrescere in tutti la consapevolezza che chiunque sperimenta la sofferenza fisica e il dramma del morire è una persona bisognosa di essere accompagnata dal punto di vista umano, cristiano e professionale, e di essere sostenuta da medici e infermieri anche attraverso la preziosa risorsa della terapia del dolore.

Celibato dei preti da ripensare?


Si tratta di una questione nella quale, purtroppo, si riparte sempre da capo, senza memoria.


«Carissimo padre, mi pongo e le pongo una domanda: perché i pastori protestanti possono sposarsi? Sarebbe così sbagliato se anche i preti potessero farlo? Abbiamo il caso di laici profondamente credenti e fondatori di opere meritorie che sono felicemente sposati. È così difficile per la Chiesa romana accettare l’eventuale sposalizio dei preti? Persone che hanno scelto la vita consacrata non potrebbero viverla cristianamente anche unendosi in matrimonio?».

Lettera firmata


Rispondo alla sua domanda con alcune considerazioni che aiutano a entrare nell’argomento, non certo a esaurirlo. Bisogna innanzitutto evitare di parlare del celibato dei preti come se si trattasse di una questione «umanitaria», dal momento che la scelta del celibato non viene imposta a nessuno ma è liberamente abbracciata da chi intende, nella Chiesa cattolica, accedere al ministero ordinato. Non è così, oltre che per gli ortodossi, per i cattolici di rito orientale: in quelle comunità sussiste una diversa disciplina che accetta il matrimonio dei preti, non comunque dei vescovi; mentre per il pastorato (o anche l’episcopato) dei protestanti, sia maschile che femminile, il problema non sussiste, visto che in genere il ministero ordinato non è ritenuto un sacramento. Va inoltre chiarito che l’espressione «preti sposati» è scorretta, perché anche nelle chiese ortodosse o cattoliche di rito orientale è solo e sempre un uomo sposato che diventa prete. Se in quel contesto qualcuno si fa prete senza essersi prima sposato, significa che rinuncia per sempre al matrimonio.

Perché dunque il celibato? Rispondo per cenni. 1) Gesù non si è mai sposato, nonostante alcuni filoni ereticheggianti abbiano cercato in tutti i modi di mettergli tra le braccia Maria Maddalena. 2) A partire dal IV secolo, con il Sinodo di Elvira (306, Spagna), la prassi ecclesiastica del celibato si afferma progressivamente nella Chiesa, anche se non sono mancate difficoltà e contrasti. 3) Una cosa sono i religiosi, che emettono i voti perpetui (celibato, povertà, obbedienza) prima del sacerdozio, altra cosa sono i preti cosiddetti diocesani, per i quali il celibato è insieme «carisma» (dono particolare dello Spirito) e legge ecclesiastica. 4) Se è vero che tra celibato e sacerdozio non sussiste un vincolo di assoluta necessità (come si deduce guardando alla tradizione delle Chiese orientali) è anche vero che «il celibato ha molteplici rapporti di convenienza con il sacerdozio» (Vaticano II, Decreto sul ministero e sulla vita dei presbiteri, 7.12.1965, n. 16). Paolo VI nella sua lettera apostolica Il celibato sacerdotale (1967) adduce tre motivi principali: cristologico, ecclesiologico, escatologico. Unione con Cristo ed espressione della sua forma di vita, servizio e dedizione alla Chiesa, anticipazione e testimonianza della vita futura. 5) Dev’essere chiaro, in ogni caso, che la pura motivazione pragmatica (più disponibilità al servizio della comunità) non basta; a essere in gioco è la conformazione a Cristo «sposo» oltre che «pastore» e «capo» della Chiesa (si veda il documento Pastores dabo vobis, 1992, nn. 22 e 29, ma anche il più recente Sacramentum caritatis, 2007, n. 24). 6) Il celibato non può essere letto soltanto come negazione o rinuncia, ma esprime un modo diverso e alternativo di amare, sia a livello umano che spirituale. 7) Di cosa si tratta precisamente? Di testimoniare (anche con molte approssimazioni e imperfezioni) il fatto che il vertice della relazione non è il rapporto erotico-sessuale tra uomo e donna, essendo il primo «tu» di ogni uomo e donna innanzitutto Dio.

Concludendo: dopo un autorevole magistero come quello di Paolo VI, ma anche di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, che tiene strettamente uniti ministero ordinato e celibato, perché ripartire sempre da capo? Non si tratta di un dogma, ma di una dottrina sicura attinente alla santità ed efficacia del ministero sacerdotale di rito latino. E che non pregiudica il carattere pienamente cattolico del sacerdozio uxorato («ammogliato») orientale.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017