Lettere al direttore

Cambiare religione nell’islam comporta serie difficoltà. Una sentenza del giurista Suad Saleh rimescola le carte.
24 Ottobre 2007 | di

 LETTERA DEL MESE


Quando la conversione mette a rischio la vita

«Dalle cronache dei giornali di tanto in tanto rimbalza qualche storia tormentata di islamici che, nel loro Paese, si convertono al cristianesimo. Tutti ricordano, nella primavera del 2006, la fuga di Abdul Rahman (nella foto), rifugiatosi in Italia. Caro padre, le chiedo se questo atteggiamento oscurantista che non concede alla persona la libertà di cambiare religione è previsto dal Corano o se si tratta di una formulazione successiva e non identica in tutti gli stati a maggioranza musulmana. Come si può rischiare la pena capitale solo per il fatto di aver esercitato la propria libertà di coscienza, e quindi senza aver fatto del male a nessuno?».

Lettera firmata


Libertà di coscienza e libertà religiosa sono acquisizioni recenti nella storia dell’umanità. Le scritture sacre delle grandi religioni monoteiste, redatte in tempi ormai lontani, non concepiscono simili libertà. Il «popolo di Dio» di cui parla l’Antico Testamento come la umma (= comunità di fedeli) musulmana sono concetti in cui la sfera etnica e la sfera religiosa tendono a sovrapporsi: per la legge mosaica come per quella islamica «tradire» la propria fede (apostatare) equivale a tradire la patria, la propria gente. Questa concezione tradizionale è sanzionata nel Corano, secondo cui «coloro che credettero, poi rifiutarono la fede, poi cedettero [di nuovo], poi rifiutarono la fede, poi crebbero in infedeltà ancora, Iddio non potrà più perdonarli né guidarli per una retta via» (sura IV, 137). Nel Corano, in realtà, Dio sembra perdere la pazienza solo dopo due «rifiuti», e probabilmente il testo citato si riferisce al caso di quei cittadini di Medina che si erano mostrati titubanti nell’accettare il messaggio di Maometto. Più chiaro e perentorio è Maometto il quale, interpellato su come comportarsi con un apostata, risponde: «Non è lecito uccidere un musulmano se non in uno di questi tre casi: omicidio, adulterio e apostasia». Nel tempo i dottori dell’islam, collegando questi due passi, hanno stabilito che l’apostasia è reato che non ammette valido pentimento e comporta la pena di morte. Nella pratica la condanna a morte dell’apostata è rara, almeno finché non vi sia pubblico scandalo. Più che la pena di morte, ha sempre funzionato da valido deterrente la forte censura sociale: l’apostata corre il rischio più immediato di essere messo al bando dai parenti, di vedere sciolto d’autorità il suo matrimonio, di venire cacciato dal proprio villaggio. Questo tipo di mentalità ostile all’apostata risulta tuttora diffuso anche in stati che – a seguito di un processo di secolarizzazione iniziato a metà ’800 – hanno da tempo formalmente abolito il reato di apostasia. Di recente, a segnalare quanto ancora la questione sia scottante, è intervenuta un’importante sentenza (fatwa) di Suad Saleh, giurista, muftì e rettore di al-Azhar, l’università islamica del Cairo, la più prestigiosa di tutto l’Islam sunnita. Dovendo giudicare su un caso di conversione al cristianesimo, il rettore ha sentenziato – shari’a alla mano – che l’apostata deve essere messo a morte, ma ha fatto anche due precisazioni. La prima: la sentenza deve essere eseguita dallo Stato, con ciò chiudendo le porte a ogni tentazione di giustizia sommaria. La seconda precisazione è però quella decisiva, destinata – data l’autorevolezza del personaggio – a lasciare il segno: «Gli apostati che non si vantano e non annunciano in pubblico la loro apostasia non sono passibili di morte». È la sanzione ufficiale di una condotta pratica vigente da tempo, ma questo pubblico riconoscimento cambia davvero le cose, perché cambia il diritto in materia. Più importante ancora è l’implicito riconoscimento che la fede ha un suo ambito privato, libero, che deve essere rispettato, cosa finora non scontata. Insomma, siamo ancora lontani da una piena libertà religiosa, ma la sentenza del muftì di al-Azhar è coraggiosa e va nella direzione giusta.

LETTERE AL DIRETTORE


Infestati dal far west di condominio

«Sono esterrefatta da certe reazioni violente che ormai ci hanno resi incivili e cinici. Non è raro sentire di liti di condominio per le quali non solo si ricorre alla querela, ma si viene alle mani, oppure, in un raptus di follia, ci scappa il morto. Fino a giungere a certi crimini efferati, nei quali si parla di dieci o venti coltellate inflitte alla vittima. Stiamo forse impazzendo tutti?».

Lettera firmata


Scoppi d’ira di persone che tutti giudicavano miti agnellini. Aggressività di teppisti ancora adolescenti che sfasciano quel che capita sottomano, generalmente beni altrui. Veri e propri momenti di follia che spingono qualcuno a farsi giustizia da sé brandendo un’arma, e non raramente sparando a bruciapelo. Non sono più soltanto fatti che succedono lontano, in quartieri malfamati o in periferie abbrutite dal degrado, ma si tratta sempre più spesso della famiglia che abita nello stesso condominio o del vicino di casa. Brava gente, insomma, di quella che lavora, guarda la televisione e si fa i fatti suoi. Per questo la sua domanda è del tutto pertinente. Cosa sta succedendo in verità? Stiamo forse diventando insopportabili gli uni per gli altri? Perché tanta aggressività repressa che poi balena in lampi di odio distruttivo, moltiplicandosi in tragiche reazioni a catena? Ha ragione Massimo Gramellini quando dalla sua finestra su «La Stampa» fa osservare che «dai campi di calcio ai pianerottoli in cui si consumano derby sempre più mortali tra vicini di casa, è come se la soglia minima di sopportazione degli individui si fosse repentinamente abbassata». Inoltre, continua il giornalista, «l’ira funesta assurge a modello di autoaffermazione». Una statistica del Censis registra il fatto che in Italia ci sono almeno 800 mila cause motivate da cattivo vicinato condominiale, in genere per rumori molesti e occupazione indebita di spazi comuni, il che vuol dire che in ogni condominio si finisce in tribunale almeno una volta l’anno. A quanto pare siamo bravissimi a creare tensioni, ad alimentarle, a passare per vittime o a fomentare il vittimismo altrui, guerrieri indomiti nel far west da pianerottolo.

Anche un tempo c’erano liti, e pure liti con i fiocchi e rancori covati troppo a lungo, ma suppliva una cultura diffusa della solidarietà e della convivialità. Certamente circolava meno competizione e, di conseguenza, meno stress. Oggi è tutto più complicato e l’altro, il vicino, non è, per principio, uno del quale fidarsi. La cultura del sospetto e della diffidenza, quando ci si lascia prendere la mano, può giungere a togliere l’altro di mezzo, a cancellarlo, anche fisicamente.


Anche i figli sono da onorare e rispettare

«Sono un’insegnante di scuola media ora in pensione. Leggo il “Messaggero” da molti anni, poiché già mia nonna era abbonata, e lo trovo interessante e attuale. Mi soffermo in particolare sulle risposte che lei esaurientemente dà alle richieste dei suoi lettori. Desidero anch’io porle una domanda e sarò sintetica. Osservando la realtà umana passata e presente, mi chiedo perché nei dieci comandamenti del catechismo della Chiesa non trovi posto uno importantissimo e cioè: “Ama e rispetta i figli, di qualsiasi età”.

«Perché questa dimenticanza? È ancora possibile inserire un undicesimo comandamento? Se ciò fosse stato fatto prima, si sarebbero potute evitare tante sofferenze. A tutti si è pensato, meno che a loro, i quali inoltre non hanno neanche chiesto di venire al mondo, ma ci si sono trovati. Aspetto con ansia una sua risposta sulla rivista».

Anna Spessot


Il quarto comandamento, che ci ricorda la necessità di onorare il padre e la madre, va innanzitutto inserito nel suo tempo (una società tribale di circa tremila anni fa) e dev’essere considerato come un cardine della vita relazionale-familiare, poiché quasi tutto, nel mondo antico, passava attraverso la famiglia. Se noi l’abbiamo ridotto al dovere di obbedire ai genitori da parte dei bambini, abbiamo superficialmente adattato questo comandamento a tutt’altro contesto, non fosse altro per il semplice fatto che i comandamenti si rivolgono a persone adulte. I fanciulli e anche i giovani, a quel tempo, non avevano rilevanza sociale e quindi voce in capitolo.

Si tratta, in senso stretto, del rapporto tra l’adulto e i genitori ormai anziani, bisognosi di assistenza e di cure, di essere accolti anche nel difficile momento della decadenza fisica e mentale. Cosa ovviamente non sempre facile, ieri come oggi, per cui a questo comando divino è associata una promessa: «Perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio».

Nella sua lettera lei sottolinea la necessità, in qualche modo, di integrare i comandamenti, aggiungendone uno alla lista dei dieci canonici. Si tratterebbe di «comandare» il rispetto e l’amore nei confronti dei figli di qualsiasi età. «Perché questa dimenticanza?», si chiede. Non credo si tratti di dimenticanza, ma di una prospettiva data per scontata, in una società dove i figli e il loro numero elevato erano segno di particolare benedizione da parte del Signore. Dei figli si dice: «Beato l’uomo che ne ha piena la faretra: non resterà confuso quando verrà a trattare alla porta con i propri nemici» (Salmo 126,5). Anche se probabilmente non mancava né il paternalismo da una parte né la necessaria e a volte faticosa sottomissione dall’altra, magari con qualche eccesso, ma ogni cosa va collocata nel suo contesto.

Del comportamento dei padri nei confronti dei figli troviamo dei testi significativi nel Nuovo Testamento. «E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell’educazione e nella disciplina del Signore» (Ef 6,4). «Voi padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino» (Col 3,21). Detto al positivo, qui si parla di dolcezza e comunicazione di sani principi religiosi nonché di fiducia, e non è poco. Gesù stesso è convinto che un cuore di padre sia sempre aperto e disponibile per dare ai propri figli le cose migliori: «Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe?» (Lc 11,11). La comparazione viene fatta con l’amore del Padre che è nei cieli e che dona senza misura, modello insuperabile di ogni autentica paternità. Non solo i genitori, ma tutti i cristiani devono vivere l’alta aspirazione a essere «perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5,48). Ciò che lei trova mancante nei dieci comandamenti è al cuore del Vangelo, nelle parole stesse di Gesù. Ogni cristiano, i figli verso i padri (come si legge nel decalogo) ma anche viceversa (come dovrebbe essere normale, anche se non sempre è così), deve avere un cuore paterno.


Ma la Chiesa gode di privilegi fiscali?

«Dopo l’intervento estivo di Prodi circa il silenzio omiletico della Chiesa sull’evasione fiscale, qualcuno ha ipotizzato che questo silenzio dipenda anche dal fatto che la Chiesa per prima non paga le tasse su molti immobili, beneficiando di un sistema di privilegi contrario alla Costituzione. Se così fosse ne sarei molto dispiaciuto, visto che pagare le tasse è duro per tutti e rimane comunque un dovere per ogni cittadino».

Lettera firmata


Il ragionamento «i preti non parlano di tasse nelle loro prediche perché la Chiesa è la prima a non pagarle» è un ragionamento strampalato. Nessun prete ha mai ragionato in questo modo, e se ne conosce anche uno solo la prego di presentarmelo. La chiarezza con la quale il cardinale Bertone ha parlato al Meeting di Rimini, invitando ogni cittadino a pagare le tasse (che dovrebbero servire in primo luogo per i più deboli e poveri), esclude ogni possibile dietrologia. Sbandierare poi l’intervento di Bruxelles contro il presunto regalo dell’Ici alla Chiesa cattolica, è comprendere poco della situazione particolare della nazione italiana e del ruolo in essa svolto dalla Chiesa cattolica. Innanzitutto c’è da dire che la Chiesa in Italia rispetta le leggi vigenti in materia fiscale, per cui non è possibile parlare né di elusione né tanto meno di evasione fiscale. Anche la parola «privilegio» è del tutto fuori luogo, nel senso che lo Stato italiano riconosce la stessa possibilità (esenzione da alcune imposte per chi svolge attività specifiche) a tutti gli enti non commerciali sia religiosi che laici, sia cattolici che di altre religioni. Si pensi alla galassia delle associazioni di volontariato, agli organismi no profit, Ong e Onlus. Come mette in chiaro il giurista Giuseppe Dalla Torre in uno dei suoi reiterati interventi (contro luoghi comuni a quanto pare invincibili) sull’argomento, non si possono paragonare i locali nei quali la Caritas prepara e mette a disposizione pasti caldi con un ristorante di lusso. Se e dove ci fossero delle ambiguità di attribuzione (ambienti non utilizzati per i fini previsti dalla legge) spetta di diritto all’autorità competente di intervenire.

Più in generale, ultimamente rammarica il tentativo di equiparare la Chiesa alla «casta» dei politici, come se l’8 per mille fosse una tassa imposta e non una libera scelta. Alcuni, a quanto pare, non riconoscono la preziosità della presenza della Chiesa nella società, ma molti, senza fare clamori, non la pensano così.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017