Lettere al direttore

Di fronte a certe situazioni il perdono sembra impossibile. Solo il dono della grazia invocata e accolta può compiere il miracolo.
21 Dicembre 2006 | di

LETTERA DEL MESE

Il perdono: sforzo dell’uomo e capolavoro della grazia di Dio


«Non avrei mai creduto possibile una cosa del genere, eppure è accaduta proprio a me. Dopo la morte del papà, io e mia sorella abbiamo avuto a che dire per questioni riguardanti l’eredità. Sono volate anche parole pesanti e accuse reciproche, che hanno rivangato fatti dolorosi di anni lontani. Mi rendo conto che forse tutt’e due stavamo vivendo una situazione personale poco felice (mia sorella si era appena separata dal marito, e io stavo affrontando seri problemi di salute), ma mi riesce difficile, se non impossibile, perdonare il suo atteggiamento sprezzante. Tengo a dire che più volte ho aiutato anche dal punto di vista finanziario mia sorella e la sua famiglia. E ora, per essere una buona cristiana, dovrei fare io il primo passo?».

Lettera firmata


La sua lettera, troppo sintetica, non permette – e forse è meglio così – di stabilire con precisione la dinamica dell’accaduto, e fa solo riferimento alle «parole pesanti» e alle «accuse reciproche», dure ripicche tra sorelle che pure si sono volute bene e che nel momento del bisogno hanno rafforzato il loro legame. Il tema che rimbalza con tutta evidenza dalla sua versione dei fatti è piuttosto la difficoltà di perdonare, partendo dalla premessa – della quale tra l’altro è ben consapevole – che un buon cristiano è qualcuno che perdona. Riporto, solo per rinfrescare la memoria, le parole con le quali Gesù risponde a Pietro che lo interroga sulla portata del perdono: «“Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”» (Mt 18,21-22). Presso i giudei la larghezza del perdono prevedeva di giungere a perdonare per ben tre volte. Pietro, quando ipotizza un perdono che si ripete per sette volte, sa di esagerare e di andare oltre ogni limite umanamente pensabile. La parola di Gesù, spiazzante e paradossale come sempre, indica invece un perdono illimitato, senza condizioni, spezzando ogni proporzionalità tra l’offesa subita e l’offerta di perdono. Scrive a proposito Godfried Danneels, un cardinale che è anche abile scrittore di riflessioni spirituali: «Bisogna semplicemente perdonare sempre. Qui (cioè in Mt 18,21-22) non c’è il “fai con fermezza il tuo possibile”, ma il “rimettiti a Dio”. Di fatto il perdonare sempre non è più una legge o una regola destinata a mettere ordine nella vita della società; è l’entrare nel comportamento proprio di Dio, nella sua morale. È il lasciarsi impregnare del suo modo di vivere, l’adottare i suoi segreti di convivialità. Accordare il perdono è dunque trasmettere all’altro quello che ci è già stato prestato da Dio» (Perdonare. Sforzo dell’uomo, dono di Dio, pp. 48-49). Proprio così, il perdono non ha a che fare prima di tutto con il protagonismo dell’uomo, con la sua ferrea volontà di essere fedele al comando divino. Se lo sforzo dell’uomo è da mettere in conto come ingrediente base di ogni possibile perdono (che è e rimane costitutivamente un atto umano), il «coraggio» e la «forza» di perdonare sono doni che vengono dall’alto. Non si tratta di accanirsi per giungere alfine a perdonare, quanto piuttosto di permettere che la nostra volontà sia plasmata dalla volontà di Dio, lasciando che lui agisca. E il mezzo migliore per rendere possibile la creazione di uno spazio dentro il quale l’azione di Dio si dispieghi, non può che essere la preghiera. Nel libro sopra citato il cardinal Danneels osserva con acutezza: «Sulla croce Gesù non ha detto ai suoi carnefici: “Io vi perdono”, ma ha detto a suo Padre: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34)» (p. 51). La invito dunque a pregare perché il Padre di ogni misericordia la conduca sulla via del perdono, spezzando le catene del risentimento che la tengono prigioniera e permettendole così di ricominciare a voler bene nella libertà e nella gratitudine.




Dichiarazione di nullità del matrimonio


«Le scrivo per una delucidazione circa l’annullamento del matrimonio da parte della Sacra Rota. La mia storia è questa: sono stata sposata due anni con un uomo che mi ha sempre tradita e umiliata, e poi, una domenica mattina, mi ha abbandonato per andare a convivere con un’altra. Tengo a precisare il suo rifiuto ostinato ad avere dei figli con me, mentre io consideravo questa eventualità in coerenza con i miei principi cristiani. Ora ho incontrato una persona sincera che mi ama e desidera formarsi una famiglia. È possibile nel mio caso ottenere l’annullamento da parte dell’autorità ecclesiastica? Quali sono le procedure da seguire e a chi bisogna rivolgersi?».

Lettera firmata


Gentile signora, il rifiuto ostinato di avere figli da parte di uno dei due coniugi, ma anche da parte di entrambi, è un motivo che può portare alla dichiarazione di nullità del matrimonio qualora tale rifiuto risulti già presente, nelle intenzioni dei soggetti interessati, nel momento in cui il matrimonio è stato celebrato. Il fatto delle infedeltà, poi, può condurre alla dichiarazione di nullità del matrimonio quando il coniuge infedele, già al momento della celebrazione del matrimonio, abbia avuto l’intenzione di mantenere relazioni con altri partner o coltivato il proposito di non obbligare se stesso all’impegno della fedeltà.
Per ottenere la dichiarazione di nullità del matrimonio è necessario rivolgersi al Tribunale ecclesiastico competente. In Italia ci sono diciotto tribunali ecclesiastici regionali di primo grado e, nel concreto, ci si deve rivolgere al tribunale del luogo in cui il matrimonio è stato celebrato, oppure in quello del luogo dove abita l’altra parte rispetto a chi vuole il processo.
Comunque ogni tribunale, per disposizione della Conferenza episcopale italiana, ha un servizio gratuito di consulenza a cui tutti i fedeli possono rivolgersi per esporre il proprio caso ed essere informati nel dettaglio sulla procedura da seguire. Rivolgendosi presso la curia vescovile della diocesi di appartenenza o anche attraverso il proprio parroco, si può ottenere l’informazione esatta su come contattare questo servizio.
Ricordi che per ottenere la dichiarazione di nullità è necessario portare delle prove a sostegno delle proprie affermazioni. Per esempio, se lei dice che suo marito non voleva assolutamente avere figli da lei, è necessario sostenere questa affermazione, cosa che può avvenire con l’ammissione del marito stesso che riconosce la verità del fatto e, magari, spiega il motivo della sua presa di posizione; inoltre, si devono trovare delle persone che avendovi conosciuti, possibilmente già dall’epoca del fidanzamento, possano confermare e testimoniare che i fatti portati in processo (il rifiuto dei figli e le infedeltà) corrispondono al vero.
Qualora il tribunale che accoglie la domanda arrivi a dichiarare provata la nullità del matrimonio, d’ufficio la causa viene trasmessa al tribunale d’appello (per esempio, le cause decise dal Tribunale ecclesiastico triveneto appellano al Tribunale ecclesiastico lombardo), a meno che una delle due parti interessate non decida di appellarsi direttamente alla Rota Romana.
Mi rendo conto che questo itinerario appare piuttosto laborioso e forse scoraggiante. Molti non se la sentono di intraprendere un simile procedimento, che richiede di passare al setaccio la propria vita e di rivivere episodi a volte molto dolorosi, ma, nell’arco di circa due anni, una persona che ha promosso la causa di nullità può ragionevolmente sperare di sposarsi nuovamente davanti alla Chiesa.



Tutto è cambiato nulla è cambiato dopo calciopoli

«Tutti sappiamo come veramente è andato a finire lo scandalo di calciopoli: con uno sconto da saldi di fine stagione, più o meno per tutti. Ci si è limitati, insomma, ad alcune penalizzazioni subito mitigate da vistosi ripensamenti dell’ultimo minuto e dalla stesura della lista dei cattivi, la cosiddetta “cupola”, perché altri potessero sentirsi pienamente assolti. Perché dopo fatti così gravi, l’entusiasmo per il calcio e il tifo becero e violento non hanno subìto, se non un crollo, almeno una battuta d’arresto?».

Lettera firmata


Siamo davvero sicuri che calciopoli sia finita? La causa profonda che ha generato tanti guasti è infatti tutt’altro che estirpata. Essa infatti risiede nell’irrompere di una mole abnorme di denaro nel mondo del calcio, in concomitanza con l’ingresso massiccio degli sponsor e delle pay-tv, oltre che con la trasformazione di alcune squadre in società per azioni quotate in Borsa. Tanto denaro e tanti interessi hanno scatenato appetiti non sempre e non tutti equi. Poche società sono riuscite a controllare di fatto la Lega calcio e la Federazione italiana gioco calcio, e a spartirsi la fetta più cospicua dei diritti televisivi, lasciando le briciole ai piccoli, costretti a «chiedere l’elemosina» ai grandi per poter sopravvivere. Il mondo del calcio, diventato più complesso e più ricco, esigeva nuove regole severe; invece, ne rimaneva sostanzialmente privo. Ora, di regole nuove, certe e severe non ne sono state ancora varate; nel momento in cui scriviamo, nuovi dirigenti estranei alle passate gestioni e nuove norme per distribuire il denaro delle tv non ce ne sono. E i processi sportivi? A pensarci bene, ne sappiamo pochissimo. Juventus a parte, travolta dalle imbarazzanti telefonate di Luciano Moggi, le altre squadre di che cosa esattamente sono state riconosciute colpevoli? Quanto agli «sconti», poi, la vera questione era ed è la partecipazione alla Champions League, che garantisce introiti per decine di milioni di euro, partecipazione garantita al Milan e negata, di fatto per due anni, alla Fiorentina… E l’entusiasmo? Le nude cifre sembrano dire che è calato, eccome! Gli abbonamenti agli stadi hanno subìto un drastico ridimensionamento. Il clima è più mesto. Buona cosa, se dovesse servire a un serio ripensamento su ciò che per tutti noi è lo sport, da considerare non solo né prevalentemente nel suo aspetto finanziario. Meno soldi, più cuore, più etica, più cultura sportiva; e regole ferree che siano rispettate: questa potrebbe essere la formula per uscire davvero da calciopoli.



Bambini da asporto e da collezione

«Chi conosce, come la sottoscritta, le attese estenuanti per ottenere un’adozione, non può che indignarsi per quanto invece succede allorquando, a motivo della fama e dei soldi, questa viene concessa – o, meglio, strappata – in meno di due settimane: così è stato, poco tempo fa, per la celebre rockstar Madonna che in tempo record ha adottato un bimbo del Malawi. Come pure mi indigna il fatto che la celebre coppia Brad Pitt e Angelina Jolie stiano collezionando una famiglia multietnica: Maddox (cambogiano), Zahara Marley Jolie (etiope), Shiloh Nouvel (figlia biologica, cioè fatta in proprio) e – se è vero quanto scrivono alcune riviste – un bebé indiano che intenderebbero chiamare India, indipendentemente dal sesso».

Lettera firmata


In effetti sono sempre più numerosi i divi di Hollywood o le stelle del rock che adottano bambini di ogni etnia. Tanti bambini. In tempi così rapidi da far sorgere il sospetto che abbiano avuto la strada spianata, mentre i comuni mortali procedono a rilento e a fatica.
In proposito, le «scuole di pensiero» (chiamiamole così) sono almeno due. La prima è benevola e dalla parte dei divi. Fanno bene non solo ad adottare tanti bambini, ma anche a esibirli accanto a sé, perché così sensibilizzano l’opinione pubblica; i divi sanno che molta gente fa di tutto per imitarli, e in questo modo l’imitazione avrà effetti positivi. La seconda interpretazione è invece severa. L’adozione è una cosa seria, anzi serissima. Ma quella dei divi assomiglia più a un gioco di società: bambini esotici, africani o asiatici, con nomi improbabili che sembrano inventati apposta per fare gli originali a tutti i costi, inoltre esibiti come accessori qualsiasi…
Ripeto: è un’interpretazione molto severa. Quale sarà quella giusta? Nessuno può scrutare nelle coscienze altrui, neppure dei divi. Ma i loro comportamenti pubblici, proprio perché tali, possono essere sottoposti a giudizio critico. E allora a suscitare perplessità è l’attenzione spasmodica ai sentimenti dei genitori divi, al loro «diritto» a diventare genitori adottivi. Il rischio è di dimenticarci che l’unico vero diritto (senza virgolette) è quello dei bambini ad avere un padre e una madre che pensino innanzitutto al bene dei propri figli, proteggendoli da un’esposizione ai flash e alle telecamere che a loro non può certo giovare.
E le agevolazioni di cui godrebbero? Tutti i gesti generosi sono da ammirare. In questo caso, generosità non è soltanto adottare bimbi in serie ma, da genitori in attesa, famosi e privilegiati, significa anche e soprattutto pensare ai tantissimi altri genitori in attesa né famosi né privilegiati. Significa mettersi in fila con loro, accanto a loro. Se i divi facessero così, saremmo loro grati più che per un bel film o una bella canzone.



Come posso farmi accettare dai compagni?

«Devo ammettere che in classe non mi trovo molto bene con i miei compagni: quando mi avvicino a loro, durante la ricreazione, mi mandano via dicendo che stanno parlando di cose che non mi riguardano e non posso sentire; qualche mio compagno mi prende in giro, continuando a darmi calci e pugni senza motivo. Talvolta reagisco anch’io allo stesso modo, oppure uso le parole. Due miei amici mi hanno consigliato di lasciar perdere e di dimostrare indifferenza, senza dire niente ai professori. Prima ancora di parlarne con i miei genitori, ho pensato di rivolgermi a te. Cosa posso fare di fronte a questi atteggiamenti dei miei compagni? Come posso farmi accettare dagli altri ed entrare così in un gruppo?
«Questi miei coetanei sono ragazzi semplici che non usano indumenti firmati, ma sono anche tipi un po’ chiusi che non aprono i loro confini. Vorrei poter uscire con loro anche al di fuori dell’ambiente scolastico. Aspetto pazientemente una tua risposta».

Lettera firmata


Comprendo il tuo stato d’animo. È molto doloroso non sentirti accettato dai compagni di classe, con i quali oltretutto trascorri buona parte della tua giornata. Potrei dirti che è un problema loro, come in effetti è (il loro atteggiamento di chiusura denota serie difficoltà rela ionali), ma questo non servirebbe certo a farti stare meglio. D’altra parte, credo che nemmeno tu possa fare nulla per inserirti in un gruppo così chiuso. Anzi, in un contesto simile spesso più sforzi si fanno e più si ottiene l’effetto contrario.
Ci sono però alcuni accorgimenti che potrebbero aiutarti. Innanzitutto, cerca di ignorare il gruppo di «bulletti». Prova a ribellarti alle loro provocazioni, in modo pacato ma assolutamente assertivo (può essere sufficiente anche un «basta!» detto in modo chiaro e sicuro). Non farti vedere arrabbiato, non reagire utilizzando gli stessi codici comunicativi (violenza o disprezzo, per esempio). Infine, parla del problema con qualche adulto di tua fiducia: i genitori, un professore, un bidello, il preside. Portare alla luce la questione può aiutarti a ridimensionarla. Ti posso anticipare, infine, che sul «Messaggero di sant’Antonio» del mese di febbraio, dedicheremo al bullismo (perché di questo, in fondo, si tratta) un ampio dossier, ricco di utili consigli anche per chi, come te, si trova coinvolto direttamente nel problema.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017