Lettere al direttore

La Chiesa è contro l'evasione fiscale, ma al contempo richiama la necessità di un sistema tributario equo.
23 Novembre 2006 | di




LETTERA DEL MESE


Perché la Chiesa non condanna gli evasori?

La Chiesa è contro l’evasione fiscale, ma al contempo richiama la necessità di un sistema tributario equo.
«La Chiesa spesso interviene nel condannare alcune scelte o progetti di famosi scienziati. Recentemente ha minacciato la scomunica nei confronti di coloro che si impegneranno nello studio delle cellule staminali embrionali. Per quale motivo non rivolge una severa condanna morale verso coloro che praticano regolarmente l’evasione fiscale, calpestando il comandamento divino “non rubare”?».

Lettera firmata


Gentile lettore, la sua domanda, formulata in termini molto chiari, tocca un vero e proprio «nervo scoperto» del dibattito politico ed economico di questi ultimi mesi dedicati al varo della legge finanziaria. La pratica sistematica dell’evasione fiscale, infatti, rappresenta un grave e inquietante malcostume tipicamente italiano. Da anni ormai si sprecano le ricette di carattere tecnico per affrontare e risolvere la questione, ma sembra che il fenomeno sia quasi impossibile da sradicare. In questo contesto, allora, ci si può legittimamente chiedere: la Chiesa dispone di «parole» da suggerire alle coscienze, oppure è destinata a recitare la parte della spettatrice silenziosa e inoperosa? La risposta a questo interrogativo, secondo noi, non può che essere articolata intorno a due livelli di discorso. Il primo, quello relativo ai pronunciamenti ufficiali, è il più facile da ricostruire. Sinteticamente possiamo ricordare che l’insegnamento magisteriale sui temi fiscali, pur non presentando i requisiti di un pensiero sistematico e completo sull’argomento (del resto, come ricorda l’enciclica di Giovanni Paolo II Sollicitudo rei socialis, al n. 41: «La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire […] non propone sistemi o programmi economici e politici […]»), non rinuncia a stigmatizzare la pratica dell’evasione fiscale, senza tuttavia trascurare di richiamare la necessità che il sistema tributario sia organizzato in base a criteri ben precisi. Circa la riprovazione morale di coloro che, non curandosi del dovere di solidarietà, eludono le normative fiscali, Gaudium et spes, al n. 30, afferma: «Molti, in vari paesi, tengono in poco conto le leggi e le prescrizioni sociali. Non pochi non si vergognano di evadere, con vari sotterfugi e frodi, le giuste imposte o altri obblighi sociali». Quanto alle caratteristiche di un sistema fiscale, invece, il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, al n. 355, chiede che nell’imposizione dei tributi ci sia «razionalità ed equità», per impedire che gli oneri siano sproporzionati rispetto alla capacità contributiva dei cittadini (preoccupazione richiamata dall’enciclica Mater et magistra, al n. 120). Il tutto – come recita il documento ecclesiale più esauriente in merito – senza che «il riscontro, anche fortemente critico, di distorsioni e inefficienze» vada «confuso con un inaccettabile beneplacito ad atteggiamenti di evasione o di elusione» (Diocesi di Milano-Commissione «Giustizia e pace», Sulla questione fiscale. Contributo alla riflessione [2000], n. 2).
Come si può vedere, allora, le indicazioni magisteriali non mancano. Purtroppo – e qui tocchiamo il secondo livello del nostro argomento – ben più arduo è verificare la reale incidenza di questi pronunciamenti sia sulle scelte di ciascun cittadino sia sul modo con cui le autorità ecclesiastiche interpretano e incarnano la missione sociale della Chiesa. La complessità strutturale della questione fiscale può giustificare, almeno in parte, il fatto che la Chiesa si pronunci con cautela. L’urgenza di contribuire a una crescita «adulta e solidale» della società, in obbedienza alle istanze evangeliche della giustizia e dell’amore, non può però esonerare né dal compito di denuncia delle gravi violazioni perpetrate in questo campo, né dalla ricerca paziente di soluzioni alternative, né tanto meno dall’impegno educativo volto a promuovere il senso di autentica cittadinanza.

 

LETTERE AL DIRETTORE


Donne e violenza: il pericolo non è solo fuori

«Ho una figlia di 15 anni che inizia a pressarmi ogni giorno di più con le sue richieste di libertà e autonomia. Vuole uscire da sola e, soprattutto, vuole uscire la sera. Mi spaventano la sua immaturità e lo sprezzo del pericolo che vedo in lei e nei suoi coetanei. Mi viene in mente mia madre con i suoi ricatti morali e il suo inondarmi di paure ogni volta che mettevo un piede fuori casa. La consideravo angosciante e anacronistica. Adesso eccomi qui, trent’anni dopo, esattamente nella stessa situazione. In particolare, sono turbata dall’escalation di violenze e stupri alle donne. Il mondo fuori mi sembra più pericoloso che mai, specie per una ragazzina. Lei che cosa farebbe?».

Lettera firmata

In effetti sua figlia è ancora molto giovane, per cui sarebbe importante, a mio avviso, farle capire che una maggiore autonomia non è solo un diritto, ma una conquista che richiede tempo e impegno sia da parte sua che da parte di voi genitori. Questo significa che lei dovrà imparare gradualmente a prendersi delle responsabilità, e voi, altrettanto gradualmente, dovrete imparare a darle la fiducia necessaria perché possa crescere. Passando al tema della violenza alle donne, che tanto la preoccupa, direi che non è di certo una paura ingiustificata. Dubito comunque che i tanti stupri riportati dalle cronache negli ultimi tempi segnino una recrudescenza del fenomeno; temo piuttosto che questo tipo di violenza (che i media fanno bene a registrare, perché si tenga alta la guardia) faccia emergere un retaggio che ha radici lontane e che quindi proprio per questo è così duro a morire. Alla doverosa e costante vigilanza, perciò, si deve aggiungere un ampio e convinto sforzo educativo: il tutto, cioè, non può esaurirsi in un’attenzione saltuaria e sensazionalistica, com’è d’abitudine. Se infatti sappiamo che lo stupro è desiderio di sopraffazione, sfregio, umiliazione profonda, riflettere sul perché accada, anche in culture che si reputano evolute, significa andare alla radice del problema. Inoltre, se la violenza fuori casa è una drammatica realtà di fatto, che non si può assolutamente ignorare, sarebbe però fuorviante credere che il rischio sia solo esterno. I centri antiviolenza italiani ci informano del fatto che il maggior numero di stupri e violenze avvengono in casa, e che i violenti sono spesso gli stessi familiari, i parenti, gli amici, i vicini e i colleghi piuttosto che sconosciuti passanti. Fa pensare, a questo proposito, il caso della ragazzina che a cuor leggero ha accusato ingiustamente di stupro un extracomunitario, quasi che il male possa venire solo da chi è ritenuto diverso e lontano.
Faccia dunque capire a sua figlia che chi è veramente «grande» non è «sprezzante del pericolo», ma sa far bene due cose: riconoscere le situazioni di rischio in qualsiasi contesto, e, soprattutto, evitarle dicendo «no» anche quando il gruppo o gli amici spingerebbero a fare il contrario. Solo quando si è attrezzati di solida fiducia e di salutare diffidenza, si può andare in capo al mondo.



Evoluzione e creazione. Cosa credere?

«Si fa un gran parlare, soprattutto negli Stati Uniti, di conflitto crescente tra evoluzionismo e creazionismo, ai quali ora si aggiunge l’ipotesi del disegno intelligente. Potrebbe spiegarmi in termini chiari il significato di queste teorie e dirmi che cosa i cristiani sono tenuti a credere e che cosa a rifiutare? Non mi faccia però il solito giro in tondo per arrivare a dire che andiamo tutti d’amore e d’accordo».

Lettera firmata

L’evoluzionismo è la teoria scientifica di Charles Darwin (1809-1882), che vede le diverse specie (e dunque anche quella umana) provenire da altre preesistenti, tramite un meccanismo di «selezione naturale».
Il creazionismo, invece, è la posizione – diffusa nel protestantesimo fondamentalista statunitense della prima metà del secolo scorso – che ritiene le specie, così come le vediamo oggi, direttamente create da Dio. Le due posizioni sono evidentemente incompatibili e le controversie – anche legali – tra di esse hanno segnato la storia del Novecento negli Usa.
Diversi anche i rispettivi fondamenti: l’evoluzionismo si riferisce a fatti osservati e al ragionamento scientifico, mentre il creazionismo può basarsi solo su un’interpretazione letterale del testo biblico. La forma «pura e dura» di creazionismo è, comunque, oggi sempre meno sostenibile: anche gli ambienti in cui essa è sorta hanno dovuto riconoscere l’evoluzione delle specie come un fatto, verificato da osservazioni ed esperimenti. A partire dagli anni Novanta ci si è spostati, allora, sull’ipotesi del disegno intelligente: si riconosce sì l’esistenza dell’evoluzione biologica, ma non si considera convincente la spiegazione offertane dal darwinismo.
Al di là delle cause individuate dalla biologia, per spiegare il sorgere e lo sviluppo della vita (specie quella umana) occorrerebbe quindi ipotizzare un vero e proprio progetto dell’evoluzione, e dunque l’esistenza di un progettista trascendente, di un Dio creatore.
A uno sguardo più attento, però, si ha l’impressione che anche tale prospettiva sottovalu-ti un po’ le capacità di spiega-zione della biologia evoluzionista, molto efficace nell’interpretare le dinamiche del mondo della vita. Del resto, riconoscere l’efficacia della spiegazione scientifica non è un problema per la fede cristiana: essa afferma certamente un Dio che opera per la vita della sua creazione – anche attraverso i dinamismi dell’evoluzione –, ma sa che Egli può farlo anche in forme nascoste, inaccessibili alla scienza. E, d’altra parte, possiamo confessare Dio come il Creatore del mondo senza dover pensare che il racconto biblico sia una cronaca della sua azione.
Nessuna contrapposizione, insomma, tra la fede e quell’evoluzionismo biologico che solo alcuni pensatori – davvero con troppa leggerezza – si ostinano a considerare necessariamente ateo (lo è naturalmente quando pretende, esulando dal campo della scienza, di contrastare ideologicamente l’esistenza di un Dio Creatore). «Non possiamo dire: creazione o evoluzione. La formula esatta è creazione ed evoluzione», scrive il teologo Ratzinger nella raccolta di saggi In principio Dio creò il cielo e la terra, Lindau 2006 (originale del 1985).
Il racconto biblico della polvere della terra e dell’alito di Dio (Genesi, c. 2) individua chi è l’uomo nella sua origine più intima e nella sua essenza, cioè in rapporto al Creatore, mentre l’evoluzione va alla ricerca dei processi biologici che hanno portato la vita ad affermarsi e a svilupparsi. Due questioni che si integrano senza escludersi.



Mio figlio torna a casa «brillo». Come reagire?

«Ho un figlio sedicenne con ottimi risultati scolastici e ben inserito in un gruppo parrocchiale, insomma il classico bravo ragazzo, o almeno così credevo fino a qualche tempo fa. Da alcuni mesi, infatti, il suo atteggiamento è cambiato: il sabato sera rientra sempre più tardi e soprattutto, la qual cosa mi preoccupa non poco, in più di qualche occasione è tornato a casa un po’ “brillo”. L’ho affrontato e gli ho chiesto chiarimenti, ma non sono riuscita a ricavarne altro che un semplice: “Sta’ tranquilla ma’, non sono mica alcolizzato. Bevo un po’ in compagnia, come tutti”.
Sono indecisa sul da farsi. Secondo lei, padre, si tratta di eccessi destinati a ridimensionarsi, o mi devo preoccupare?».

Lettera firmata

La sua, cara lettrice, non è l’unica lettera che mi è giunta sull’argomento. Sono tanti i genitori preoccupati (e io aggiungo, giustamente) per una sorta di improvvisa (ma non imprevedibile, come vedremo) «deriva alcolista» dei propri figli. I dati Istat (2003) elaborati di recente dall’Istituto superiore di sanità, dicono che in Italia i giovani tra i 14 e i 16 anni che dichiarano di bere sono 770 mila, circa 100 mila in meno rispetto al precedente studio (dati Istat 2001). Un segnale positivo? Solo parzialmente, purtroppo. Infatti, «a leggere i dati – dichiara Emanuele Scafato, responsabile della ricerca – in realtà ci si accorge che, se complessivamente i giovanissimi bevitori sono diminuiti, tale diminuzione è registrabile nella fascia 15-16 anni, mentre tra i quattordicenni si è verificato addirittura un aumento». Un fenomeno preoccupante, che conferma ancora una volta l’abbassamento dell’età di avvicinamento all’alcol, che in Italia è la più bassa d’Europa: 12 anni contro i 14,6 della media europea. Che cosa sta accadendo? Questa impennata dei consumi, secondo gli esperti, sarebbe figlia di una strategia precisa, avviata negli anni Novanta. Allora, infatti, furono introdotte sul mercato nuove tipologie di bevande (chiamate in gergo «alcolpops») studiate a tavolino e curate in ogni dettaglio per essere apprezzate dai giovanissimi. Esse contengono dosi minime di superalcolici, diluite però in miscele gassate o in succo di frutta che invogliano i giovani a berne in gran quantità. In definitiva, quindi, i rischi per i più giovani sono notevoli: in Europa l’alcol è il primo fattore di rischio di invalidità, mortalità prematura e malattia cronica tra i giovani, ed è causa di un decesso su quattro tra i ragazzi di età compresa tra i 15 e i 29 anni (dati Oms e Iss).
Il mio consiglio, dunque, è innanzitutto di cercare il dialogo con suo figlio, chiedendo, se necessario, aiuto a qualche esperto (uno psicologo, un educatore di qualche centro per alcolisti).
Non sottovaluti il problema facendosi sviare, come spesso accade, da un comune sentire che vede nell’assunzione di bevande alcoliche un’abitudine del tutto innocua. Magari, iniziando a chiamare quello che definisce un «eccesso» con il suo vero nome.



Perché a messa? Genitori decisi, non ossessionati

«Da un paio d’anni mio figlio ha abbandonato la partecipazione alla Messa domenicale. Prima con piccole scuse, poi motivando il suo no con il fatto che nessuno dei suoi compagni ci va e che si tratta di una cosa noiosa, che lui non capisce. Perché andare a Messa? Che cosa deve rispondere un genitore?».

Lettera firmata

Un genitore deve vivere, possibilmente insieme al coniuge, la sua vita cristiana con coerenza e quindi partecipare con convinzione alla Messa domenicale. La formazione cristiana dei figli comincia da qui, perché non si tratta di «mandare i ragazzi o i giovani a Messa», quanto di mostrare loro che la Messa è per persone mature e in gamba, che non hanno paura di andare controcorrente e credono che nella vita il rapporto con Dio sia qualcosa di fondamentale, e comunque non solo un fatto individuale. Per persone, quindi, le quali pensano che la comunità cristiana, quando si ritrova intorno alla mensa eucaristica, realizza nel modo più alto il suo essere Chiesa.
Scrive Bruno Forte, un vescovo-teologo, in un piccolo libro dal titolo, appunto, Perché andare a Messa la domenica?: «Di domenica in domenica la Messa è una grande scuola di vita, una sorgente straordinaria di luce e di bellezza, un incontro contagioso di amore. È nell’appuntamento domenicale che ci scopriamo popolo di Dio, comunità».
Lei mi dirà: «Padre, questi sono pensieri troppo alti; mio figlio adolescente vola basso, molto basso, e io concretamente che cosa posso dire?».Trascinare, che significa anche «disturbare», con l’esempio – l’abbiamo già accennato –, ma anche «sfidare» suo figlio nella valutazione delle alternative: stare a letto un po’ di più; omogeneizzarsi con il gruppo degli amici, ecc. L’importante è non mollare mai la presa, senza farne, però, un’ossessione. È infatti consigliabile, in questi casi, un po’ di buon umorismo genitoriale (che non mira a umiliare, ma a far riflettere) nei confronti dell’adolescente che pensa in proprio e vuole autogestirsi. Gli agganci con la vita, in tal senso, sono pressoché infiniti. Se, ad esempio, suo figlio dice di non capire la Messa, lo prenda sul serio e gliela «spieghi».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017