Lettere al direttore

A volte il rito della penitenza è celebrato con una certa disinvoltura, per cui il penitente resta perplesso e dubbioso.
24 Ottobre 2006 | di

LETTERA DEL MESE


Esprimere attraverso i segni l’accoglienza e la misericordia di Dio

«Di questi tempi, quando andiamo a confessarci troviamo le situazioni e le fogge più disparate: vi sono sacerdoti in veste talare con rocchetto e stola, altri solo con la stola, altri ancora vestiti con il maglione. All’assoluzione, poi, alcuni esprimono la formula completa imponendo le mani sul capo e assolvono con un gran segno di croce, altri si limitano a dire “io ti assolvo”, altri borbottano qualcosa e abbozzano un segno di croce.
«Perché questa disparità di comportamento? Non esistono norme a cui attenersi? Molti, tra quelli più anziani, tornano dalla confessione con dubbi e scrupoli sulla validità dell’assoluzione e del Sacramento. Perciò le chiedo: è necessario che il confessore indossi determinati accessori, compia gesti specifici e reciti particolari formule nella loro completezza?».

Lettera firmata


La lettera mette il dito nella piaga, e le sue parole descrivono una realtà che talora è più diffusa di quanto non si creda, con grave disagio per chi vuol celebrare in verità il sacramento. La risposta più eloquente e persuasiva per tutti, ministri della riconciliazione e penitenti, è quella che si trova nel libro ufficiale di questo sacramento, il Rito della penitenza (edito in italiano nel 1974), che ogni sacerdote dovrebbe conoscere alla perfezione.
Circa l’abito si legge al n. 14: «... si stia alle norme stabilite dagli Ordinari dei luoghi». Ora tutti sanno che in Italia l’abito per le celebrazioni liturgiche è o il camice e la stola, o la cotta e la stola sulla talare. Ne va della dignità di un’azione umana e divina insieme; basterebbe un minimo di buon gusto oltre che di rispetto per il fedele e per la Chiesa.
Con riferimento al luogo, oggi il fedele si trova di fronte a confessionali di vario genere. La presenza della grata può favorire la privacy, sempre doverosa, ma può anche nascondere il gesto essenziale dell’imposizione della mano al momento dell’assoluzione. Quest’ultimo è reso meglio visibile da altri «luoghi penitenziali» che favoriscono il linguaggio liturgico: anche in un ambiente senza grata, con un po’ di accortezza psicologica da parte del confessore (postura della testa, gestione degli sguardi...) è possibile salvare la riservatezza del momento sacramentale e insieme la veritas del gesto del perdono (assoluzione) centro del sacramento.
Ma quello che più spesso viene a mancare è l’attenzione alla dimensione celebrativa, come ricorda lo stesso Rito, quindi una celebrazione dignitosa e seria che manifesti l’occasione sacramentale dell’esperienza della misericordia di Dio. In questa linea è interessante ripercorrere la pedagogia dei vari momenti del sacramento: la preparazione del sacerdote e del penitente (n. 15), l’accoglienza del penitente (n. 16), la lettura della Parola di Dio (n. 17), la confessione dei peccati e l’accettazione della soddisfazione (n. 18), la preghiera del penitente e l’assoluzione del sacerdote (n. 19), il rendimento di grazie e il congedo (n. 20).
La lettera chiama in causa anche la formula dell’assoluzione. È opportuno rileggere insieme il testo che, al n. 19 del Rito, suona così: «... il sacerdote, tenendo stese le mani, o almeno la mano destra, sul capo del penitente stesso, pronunzia la formula dell’assoluzione, nella quale sono essenziali le parole: “Io ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Nel pronunciare queste ultime parole, il sacerdote traccia sul penitente il segno della croce».
Le norme, come si vede, esistono. Talvolta una disparità di comportamento può essere determinata da circostanze particolari (lunghe file in occasione del Natale, della Pasqua, del santo Patrono...); talaltra è frutto di sciatteria da parte di chi dovrebbe manifestare, proprio attraverso i diversi linguaggi della celebrazione, i segni dell’accoglienza e della misericordia di Dio, la bellezza della vita di grazia che passa attraverso formule e linguaggi che sono propri della liturgia e che da soli, quando sono ben attivati e gestiti, esprimono sia il pentimento che il dono della grazia.

 

LETTERE AL DIRETTORE


Eutanasia: dolce morte o tragico inganno?

«Ha fatto bene il nostro presidente Napolitano ad aprire un dialogo a livello istituzionale sull’eutanasia, dopo l’appello rivoltogli recentemente da un malato terminale? Se ne sostenessimo le ragioni, saremmo costretti edonisticamente ad affermare che la fede è inutile nella ricerca del valore della vita.
Viceversa io, da cattolica apostolica romana, vorrei invitare i nichilisti che la pensano così a guardare, invece, alla vita come a una scelta orientata in senso religioso.
«Di fatto, il valore della vita, a mio parere, dipende dalla capacità di seguire i percorsi esistenziali che ci indica la nostra fede. Senza dimenticare che una delle fatiche più grandi dell’esistenza sta nel riconoscere che questo nostro cammino terreno è solo temporaneo e che, d’altra parte, non disponiamo in tutto e per tutto di quella vita che ci è stata affidata in dono».

Lettera firmata


Quando si trova di fronte alla morte, sull’ultima soglia, l’uomo, qualunque uomo, si scopre nudo e debole. Il dolore spaventa chiunque. Perfino Gesù Cristo, pur rimettendosi alla volontà del Padre, lo pregò affinché gli risparmiasse la prova della croce, avvertendo, lui Figlio di Dio, tutto il peso della carne umana. Questo sarebbe l’atto più umano, misericordioso, amorevole e ragionevole: investire tutte le nostre energie – denaro e ingegno – per alleviare il dolore, senza accanimenti terapeutici, ma senza mai sostituirci a Dio. E chi non possiede il dono della fede? Per chi è convinto che quella terrena sia l’unica vita e Dio non esista, le cose cambiano. Può ritenere insopportabile una vita «non degna», ossia fortemente menomata, e quindi esigere il diritto di essere aiutato a togliersela. In realtà, anche senza appellarsi alla fede, l’eutanasia resta comunque un subdolo inganno. Chi e come deciderà quando una vita non è abbastanza «degna» di essere vissuta? Ma soprattutto, chi chiede di essere soppresso è sempre una persona affondata nella solitudine, a cui la malattia ha intaccato non solo il corpo, ma anche l’anima. L’eutanasia è una terribile scorciatoia: in Gran Bretagna, ad esempio, l’associazione «Dignitas» – quanta tragica, involontaria ironia in questo nome – ha chiesto alla Suprema Corte il suicidio assistito anche per i depressi. Nell’ottobre scorso abbiamo parlato della vicenda dell’ex calciatore Pessotto. Depresso, tenta il suicidio ma viene salvato, e oggi ringrazia i suoi salvatori. Dove sarebbe adesso se, nel momento di maggior dolore e debolezza, avesse potuto chiedere e ottenere la dolce morte di Stato?



Immigrazione: oltre ogni illusione ottica
 
«A interessarmi più di tutto, oggi, è la situazione in cui si trova l’Italia riguardo alla “immigrazione-invasione”. Quello che sta succedendo mi fa paura. Temo per i nostri figli e nipoti futuri, che si troveranno a vivere in un’Italia priva di identità e di valori cristiani. So per certo che Gesù ha predicato l’amore, ma so anche che l’ospite deve adeguarsi alle leggi di chi lo accoglie. Inoltre c’è da dire che gli immigrati non cercano l’integrazione nella nostra società, ma restano saldamente ancorati alle loro tradizioni. Vivo male questi anni carichi di problemi, e in ogni sbarco di clandestini vedo dei nemici che minacciano la stabilità del nostro Paese».

Lettera firmata


La sua preoccupazione è quella di tanti altri italiani. Ma se fossimo tutti vittime di una sorta di illusione ottica? Gli immigrati che delinquono, assaltano le ville, o gestiscono il traffico delle prostitute-schiave o lo spaccio degli stupefacenti, salendo ai disonori della cronaca sono molto più visibili di quelli – e sono la larga maggioranza – giunti tra noi per sfuggire alla povertà estrema, per dare un futuro alle proprie famiglie e svolgere mestieri che gli italiani rifiutano, come quello di operaio e muratore, oppure di badante, visto che tanti nostri anziani sono costretti a vivere soli. Qualcosa di simile accadde, ad esempio, negli Usa tra Ottocento e Novecento. Migliaia di italiani sbarcavano a New York. La maggioranza si mise duramente al lavoro, contribuendo al benessere proprio e della nazione americana. Alcuni si misero invece a delinquere, allo stesso modo di immigrati di altra provenienza. Italiani tutti mafiosi? La sola idea ci offende… Occorre, come lei ben dice, che gli immigrati, nel pretendere rispetto, a loro volta rispettino le leggi, la cultura, la religione del Paese che li ospita. Ed è quanto accade, per fortuna, in innumerevoli circostanze. Questi immigrati, i cui figli sono cittadini italiani a tutti gli effetti, nati in Italia, possono essere i primi alleati nell’impegno a isolare i pochi facinorosi che gettano fango anche sugli onesti e laboriosi.
Quanto a noi, ci viene chiesto di aprire bene gli occhi e non restare vittime dell’illusione ottica. E, da credenti, di testimoniare fino in fondo, con generosità, il valore cristiano dell’accoglienza: «Ero forestiero, e mi avete ospitato» (Mt 25,35).



Nel dolore dare un senso alla vita
 
«Le scrivo per parlarle di mio nipote di 26 anni, deceduto tragicamente il 24 luglio 2006. Le sue ultime parole alla mamma sono state: “Vado a fare un giro in moto”; e non è più tornato, proprio lui che amava così tanto la vita, era fidanzato da un anno e aveva deciso di costruirsi una famiglia. Quanti perché, ai quali non sappiamo trovare risposta, affollano la mente. Siamo tutti sconcertati, nonostante la fede, e il dolore ci impedisce di dare un senso al nostro cammino».

Lettera firmata


La ringrazio innanzitutto per aver voluto condividere il «suo» («vostro») dolore con me e con i frati della mia comunità. Ogni giorno preghiamo per situazioni difficili, per passaggi «duri» caratterizzati da malattie e sofferenze, per distacchi e addii difficili da realizzare, quando tutto sembra diventare insensato e la vita si ferma – come è accaduto per Flavio – alle ore 12,15 di un giorno tutto buio, da dimenticare. «Perché, perché Padre?», è la domanda incalzante che lei solleva da tanto dolore, mentre la fede sembra vacillare. Poi si aggrappa al ricordo luminoso di una scia di bontà che ha lasciato il segno: «Lo chiamavano il gigante buono, perché con la sua grandezza sovrastava tutti, ma aveva anche un cuore grande, pronto ad aiutare tutti». Infine si riaffida nelle mani di Dio, invocando la forza di sperare e di continuare a credere.
Nella sua lettera, che ho riportato solo nell’essenziale, lei compie un vero e proprio cammino di fede, dal dramma all’invocazione passando attraverso il rifiuto e la ricerca affannosa di risposte. Solo nell’invocazione e nell’affidamento il brulichio dei pensieri si acquieta, l’ansia e la paura lasciano la presa, ed è possibile tornare nel solco di una vita che riacquista il suo senso.



Analfabetismo emotivo e santa indignazione

«Di recente ho letto un lungo articolo, pubblicato a tutta pagina da un quotidiano italiano ad alta tiratura, che parlava dell’Occidente e della sua rimozione – un misto di indifferenza e insensibilità – nei confronti dell’estrema povertà del cosiddetto Terzo mondo. Il fatto poi – sosteneva l’autore – che dai media ci venga sbattuta in faccia una situazione così drammatica e irrimediabile, di fronte alla quale cioè il singolo si sente impotente perché non può provvedere ad alcunché, non fa che creare nei cittadini benestanti, ma anche semplicemente nel cittadino qualunque del privilegiato primo mondo, “una sorta di analfabetismo emotivo”. È proprio vero che siamo diventati così insensibili, incapaci di indignarci e di reagire?».

Lettera firmata


Credo di aver letto il lungo articolo al quale fa riferimento. Le ragioni portate dall’autore dell’intervento che lei riassume in poche battute sono molteplici, complesse e tra loro correlate, e portano a una conclusione tanto radicale quanto deludente. Assediati da statistiche disastrose, colpiti senza ritegno da immagini crude e paralizzanti, schiacciati da tabelle comparative che ci mettono dalla parte dei profittatori (ad esempio: il 18 per cento della popolazione mondiale dispone dell’83 per cento del reddito mondiale), non siamo più in grado di accogliere e rielaborare una realtà che risulta troppo scomoda. La reazione individuale è fiacca, quando non rinunciataria o del tutto inesistente, e questo non vedere la povertà, soprattutto nella lunga catena di concause (nella quale non siamo poi così estranei) che appare con sempre più evidenza, rende noi – tutti noi intendo – più poveri: di emozioni vere, di sentimenti proporzionati alla gravità dei fatti, di capacità e forza di reagire, di ragioni che non siano dettate da autoinganno. Sì, è vero, siamo diventati tutti un po’ più insensibili, assuefatti al benessere di cui non sappiamo più godere, alla povertà e alla miseria dei popoli e delle folle che non sappiamo e non vogliamo riconoscere.
Per fortuna esistono ancora molti (moltissimi!) animi nobili che vedono lontano, che hanno un cuore grande e ospitale, che sanno prendersi cura delle sventure del mondo: cominciando da un angolo qualsiasi della terra a rimboccarsi le maniche e a far cambiare le cose, se stessi se non altro. Non è vero che la «santa indignazione» non è più di casa in Occidente, nei Paesi dell’opulenza e della sazietà. Forse non è più movimento di popolo, come qualche decennio fa, o fors’anche si è un po’ professionalizzata e quindi burocratizzata. Di certo esiste ancora e mobilita la vita di molti cristiani e non.



L’amore verso Dio non abolisce l’affettività umana

«Ho parlato con una suora dell’asilo del mio paese, piuttosto giovane e carina. Ha solo trent’anni e ha rinunciato per sempre a una vita affettiva, ad avere un marito e dei figli, e tra l’altro vive tra consorelle molto anziane. Mi ha spiegato che è felice così e che non riuscirebbe a immaginare diversamente la sua vita. Tra l’altro è anche stata fidanzata per alcuni anni. Poi, dopo un ritiro spirituale e un’indecisione durata qualche mese, un taglio netto e via. Che cos’è questa “vocazione” che fa rinunciare all’amore umano per scegliere solo Dio?».

Lettera firmata


Faccio innanzitutto una correzione di linguaggio, che mi sembra importante: se la suora che lei conosce ha rinunciato a un marito e a dei figli, non è però in suo potere rinunciare a una vita affettiva. Tutti hanno, che sia riuscita o meno, una propria affettività. Inoltre va detto che questa può essere vissuta bene anche senza sposarsi e fare sesso, a patto che la propria esistenza sia centrata su valori umani o trascendenti molto profondi. Infine le ricordo che l’affettività comprende un numero pressoché infinito di registri comunicativi che la vicinanza a Dio non sradica, ma piuttosto affina. Che cos’è questa «vocazione»? La vocazione di una suora, forse è questo ciò che lei vuole dire, mette in alternativa l’amore per Dio con l’amore concreto (fisico) per un uomo. La risposta è sì, anche se resta vero che Dio è l’unico che si può amare in modo assoluto senza voltare le spalle a nessuno. In altri termini, non si ama Dio scappando da qualcuno, ma solo per attrazione e convinzione. Il Vangelo parla della perla preziosa, trovata la quale tutto il resto scolorisce e passa in second’ordine. Precludersi la via del matrimonio, perciò, non significa rendere sterile, deformata e inutile, quasi sprecata, la propria esistenza.
Matrimonio e celibato vissuto in comunità (nella vita consacrata) sono due modi diversi e complementari di vivere l’amore di Dio, di renderlo concretamente presente di fronte agli uomini del nostro tempo.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017