Lettere al direttore

La nostra sessualità è insieme linguaggio e impegno. Solo quando queste due prospettive si saldano è possibile parlare di Amore.
25 Settembre 2006 | di

LETTERA DEL MESE


Giovani fidanzati: bruciare le tappe o rispettarle?

«Mi trovo ad affrontare una situazione delicata con il mio ragazzo, con il quale sto da quattro mesi. Sono molto innamorata di lui e vorrei risolvere il problema. Il motivo del contrasto nasce dal fatto che abbiamo bruciato le tappe, concedendoci l’uno all’altro. Questo ha generato in me un senso di colpa, poiché un regalo di Dio deve essere custodito secondo i suoi insegnamenti e non calpestato. So di averlo fatto principalmente perché temevo di perderlo. Ora vorrei trovare le parole giuste per fargli capire che il sentimento e il rispetto sono i valori più importanti in un rapporto, e che possiamo scegliere la via della castità fino al matrimonio».


Lettera firmata


Cara lettrice, anche se non dichiara la sua età né quella del suo ragazzo, dal contesto desumo che lei sia una giovane che ha incontrato da poco (quattro mesi) il grande amore, forse il primo, e insieme al grande amore il problema comune a tutte le coppie di stabilire tempi, regole, codici di comportamento per entrare senza invadenza l’uno nel passo dell’altro. In questa fase si tratta di gustare tutta la forza e la bellezza del nuovo senti-mento che inebria, e insieme di rispettare la propria e altrui identità fatta di ritmi, sensibilità, convinzioni e valori importanti.
Probabilmente, riflette-re ad alta voce sulla questione che lei pone sul tappeto sembrerà a molti tempo perso, perché in «queste cose» – soprattutto in «queste» – pare che ognuno ormai si ritagli i propri criteri, li assolutizzi e subito li generalizzi come incontestabili, alla faccia del diritto di pensarla diversamente. In questo caso anche solo una mezza obiezione è considerata «politicamente scorretta», del tutto inappropriata e sconveniente, come un’invasione di campo che disturba una partita dal risultato già deciso.
Anche molti adulti, estenuati da un compito formativo al quale loro stessi a volte non sono stati preparati, hanno gettato la spugna, e si muovono tra un rigido proibizionismo che stenta però a trovare le ragioni che fondano questo o quell’altro modo di agire, e un lassismo che tutto permette, disinibito all’eccesso, compiacente e complice. Quindi incapacità o rinuncia (le due cose si intrecciano vistosamente) ad attivare un pur minimo accompagnamento educativo, con conseguente abbattimento di ogni segnaletica di carattere etico.
Apprezzo, cara lettrice, la delicatezza del suo animo, e la sua ferma decisione di mettere ordine in un rapporto che è sì importante, anzi importantissimo, ma non può essere fondato sul «concedersi per paura di perderlo». Se così è, c’è ancora molto da consolidare prima di spiccare il volo, e dovete darvi il tempo di costruire, di vivere fino in fondo le tappe dell’amore, quei passaggi che mettendolo alla prova lo rendono affidabile. La nostra sessualità è insieme linguaggio e impegno, e solo quando queste due prospettive si saldano è possibile parlare di amore con la A maiuscola. Inoltre chi pensa che fino al matrimonio, a motivo di severi divieti o norme repressive, sia interdetta ogni forma di intimità (ricordiamo che non esiste solo quella sessuale-genitale), è rimandato a studiare i fondamentali dell’amore stesso. Scrive L. Evely: «Fidanzati che non hanno conosciuto a lungo la gioia incredibile di guardarsi soltanto negli occhi, sono dei barbari dell’amore. Non si visita un paese attraversandolo! Se bruciate le tappe è perché non sapete gustare il paesaggio. Ogni fretta è segno di noia».
Nel suo libro Interminabile adolescenza, uno psicanalista francese, Tony Anatrella, fa notare come gli scambi sessuali vissuti come pura ricerca di sé non aiutano certo ad accettare l’altro, così come la sessualità vissuta unicamente come piacere, come attività impulsiva, non si lascia facilmente integrare in un progetto di amore e di fedeltà inscritto nella durata.
Faccia capire al suo ragazzo che lei intende rispettare le tappe dell’amore, per fare in modo che questo amore cresca e si costruisca nella libertà e nella verità, alla luce del sole, proprio perché gli vuole bene.

LETTERE AL DIRETTORE


E se il sacerdote volta le spalle all’assemblea?


«Ho letto che papa Benedetto XVI vuole riportare gli altari a prima del Concilio Vaticano II. Questo significa che durante la consacrazione il sacerdote, anziché essere rivolto verso i fedeli, tornerebbe a voltare loro le spalle. Sarà teologicamente più esatto così, ma allora il Concilio Vaticano II ha sbagliato?
Avendo notato, e non solo nelle cerimonie ufficiali ma un po’ ovunque, un consistente e rapido ritorno ai canti e alle letture in latino, il mio grosso timore è che, passo dopo passo, questo Papa voglia lentamente – ma non troppo – riportare tutta la celebrazione della Santa Messa alla lingua latina. Se così fosse, siccome non capivo niente durante la Messa neanche quand’ero studente, nonostante i miei studi classici, capirei ancora meno il latino adesso che sto per compiere 66 anni. Infatti io ritengo che la Santa Messa debba essere una funzione partecipata, gustando in italiano la bellezza delle Sacre Scritture, non un atto di presenza senza capire niente come un tempo. Allora il Concilio ha sbagliato anche qui? Le confesso che se dovesse succedere quello che temo non so se andrei ancora a Messa».

Lettera firmata


Caro signore, mi piacerebbe sapere dove ha letto questa notizia, perché, quando si parla di cose che riguardano la Chiesa, ho l’impressione che i mass media facciano un po’ di confusione, soprattutto là dove leggono gli avvenimenti ecclesiali con categorie del tutto inadeguate: innovatori e tradizionalisti, progressisti e preconciliari, e via dicendo. Forse, inquadrando meglio la questione, molto seria, che lei pone sul tappeto, e la genesi del dibat-tito al quale fa riferimento, sarà possibile rendere un buon servizio alla verità dei fatti.
«Per coloro che abitualmente frequentano la chiesa i due effetti più evidenti della riforma liturgica del Concilio Vaticano II sembrano essere la scomparsa del latino e l’altare orientato verso il popolo. Chi ha letto i testi al riguardo si renderà conto con stupore che, in realtà, i decreti del Concilio non prevedono nulla di tutto questo». Si tratta delle prime frasi di una breve ma densa introduzione che l’allora cardinale Ratzinger (siamo nel 2003) scrisse per l’edizione tedesca del libro di Uwe Michael Lang, oratoriano residente in Inghilterra, dal titolo Conversi ad Dominum, subito tradotto in lingua inglese e recentemente pubblicato in Italia dalla lungimirante editrice Cantagalli di Siena: Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica. È stata questa pubblicazione, valorizzata tra l’altro da una presentazione di alto livello presso l’Augustinianum (Istituto patristico, situato accanto a piazza San Pietro) in data 27 aprile di quest’anno, a rilanciare il dibattito, purtroppo nelle sue scontate estremizzazioni e con poco o nessun ascolto della controparte. 
Ma vediamo, in breve, qual è la tesi di Lang e il primo effetto del suo discusso volume: innanzitutto c’è da dire che egli porta la questione, fino a quel momento dibattuta soprattutto tra esperti (teologi, liturgisti, pastoralisti, ecc.), al di là della ristretta cerchia degli studiosi, sostenendo che l’orientamento della preghiera sia dei fedeli sia del celebrante dev’essere a est, e che quindi è necessario ritornare, in fedeltà alla tradizione, a quell’orientamento. Solo così infatti si potrà recuperare la dimensione escatologica (cioè l’apertura alla realtà trascendente e ultima) della fede. Il faccia a faccia continuativo (tra sacerdote e assemblea) di molte liturgie eucaristiche, fatica a mettere in evidenza che il Mistero che si celebra è sì presente, ma rimanda anche oltre. Per di più rischia di favorire un certo «protagonismo» celebrativo, in particolare da parte del sacerdote e, se rende ragione del carattere conviviale dell’eucaristia, non mette sufficientemente in evidenza il carattere sacrificale della stessa.
Nelle poche righe che abbiamo ancora a disposizione, vorrei riportare due posizioni sull’argomento che condivido pienamente. La prima è stata espressa da Enzo Bianchi, firma ben conosciuta dai nostri lettori, nel discorso di apertura al IV Convegno Liturgico Internazionale «Lo spazio liturgico e il suo orientamento» (Bose 1-3 giugno 2006). Il priore di Bose, dopo aver citato il n. 1382 del Catechismo della Chiesa cattolica, là dove si dice che «la Messa è ad un tempo e inseparabilmente il memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della croce, e il sacro banchetto della Comunione al Corpo e al Sangue del Signore», considera come entrambe le posizioni (verso il popolo e verso oriente) siano legittime, significative, senza poter vantare però alcuna superiorità l’una sull’altra. «Occorre riconoscere con lucidità e coraggio che ciascuna delle due posizioni, oggi ingenuamente contrapposte, è da se stessa insufficiente per rendere conto della totalità del mistero celebrato». Non si può allora non convenire sul fatto che, come afferma Ratzinger nella citata introduzione, «la direzione intima dell’azione liturgica, che non è mai possibile esprimere nella sua totalità per mezzo di forme esteriori, è comune al sacerdote e ai fedeli: verso il Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo». Quel «che non è mai possibile esprimere nella sua totalità per mezzo di forme esteriori», dà da pensare. Se capitasse dunque che, in alcune parti della Messa, il sacerdote dovesse volgere le spalle ai fedeli (penso alla preghiera eucaristica), non si tratterebbe di un atteggiamento poco educato, e tanto meno separatista, ma, al contrario, di profonda sintonia con l’orientamento di tutta l’assemblea verso Dio.
La seconda suggestione la mutuo dal blog (21 aprile 2006) del vaticanista del «Corriere della Sera» Luigi Accattoli, il quale sottolinea la libertà che l’allora cardinale Ratzinger dimostrò nei confronti della riforma liturgica attuata nel postconcilio in buona parte da Paolo VI. «Non mi pare che altri Papi dell’ultimo secolo – scrive Accattoli – fossero stati pubblicamente altrettanto critici, da cardinali, di un loro predecessore. Vedo qui una delle novità liberanti di questo pontificato».
Mi rendo conto, a questo punto, di aver risposto solo alla prima delle due questioni da lei formulate. Per quanto riguarda il latino, non credo proprio che si ritornerà diffusamente e comunemente alla Santa Messa in questa lingua ai più ignota. Questo non significa che non si possa, in certe particolari occasioni, utilizzare la lingua latina per la celebrazione eucaristica.



La pratica immorale della tortura
«Vorrei chiarimenti su una questione molto delicata e controversa, quella della tortura, una pratica oggettivamente ignobile e immorale. Purtroppo, anche ai nostri giorni, alcuni Stati la legittimano. Mi chiedo: un cristiano può scegliere volonta-riamente di infliggere un dolore fisico o psichico per ricavarne un bene? Per quanto la ragione mi dica che lo strumento della tortura, in una particolare situazione, può contribuire a salvare molte vite di civili o militari, sento che la mia coscienza si oppone».

Lettera firmata


Gentile lettore, la sua richiesta di chiarimento in merito alla moralità della tortura ci consente di sostare su una questione che di certo, in questi tempi, interessa molte persone. Infatti, a ridosso dello spaventoso attacco terroristico sventato dai servizi segreti inglesi lo scorso mese di agosto, su alcuni noti quotidiani sono rimbalzati i seguenti inquietanti interrogativi: se nella lotta contro il terrorismo di matrice islamica l’elemento strategicamente determinante è il possesso delle informazioni, non si dovrebbe tentare di acquisire dati rilevanti anche mediante la tortura? Al fine di prevenire l’uccisione di migliaia di persone, pur riconoscendo per principio la non liceità morale e giuridica della tortura, non ci si dovrebbe assumere la responsabilità politica di poter decidere, di volta in volta e a seconda delle situazioni, circa l’utilizzo della stessa? Posto in questi termini, caro lettore, mi sembra che l’argomento rispecchi alme-no in parte la sua opinione circa l’efficacia della tortura. «Eppure – lei confessa – sento che la mia coscienza si oppone». Da qui la formulazione della domanda: «Un cristiano può scegliere volontariamente di infliggere un dolore fisico o psichico per ricavarne un bene?».
Premesso che non è affatto certo che la tortura sia un mezzo efficace per ricavare informazioni «vere» (siamo sicuri che un terrorista disposto a farsi saltare in aria sia pronto a confessare la verità invece che sviare le indagini delle forze di sicurezza?), non possiamo dimenticare quanto affermato in merito dal Magistero della Chiesa. Se, infatti, nei secoli passati la tradizione cristiana non è stata immune da pesanti ambiguità (basti pensare alla lotta contro gli eretici, condotta anche attraverso la legittimazione giuridica di alcune forme di tortura), negli ultimi decenni la condanna di tale pratica è quanto mai netta e vincolante per la coscienza dei credenti. Il Concilio Vaticano II indica come «certamente vergognoso» e «fortemente lesivo dell’onore del Creatore… tutto ciò che viola l’integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentarne l’intimo dello spirito» (Gaudium et spes n. 27). In questa linea, il recente Compendio della dottrina sociale della Chiesa, dopo aver richiamato che «nell’espletamento delle indagini va scrupolosamente osservata la regola che interdice la pratica della tortura, anche nel caso dei reati più gravi», afferma: «Il discepolo di Cristo respinge ogni ricorso a simili mezzi, che nulla potrebbe giustificare e in cui la dignità dell’uomo viene avvilita tanto in colui che viene colpito quanto nel suo carnefice» (n. 404).
Il richiamo della sua coscienza, allora, gentile lettore, rispecchia al meglio la lettera e lo spirito dell’insegnamento ecclesiale: il valore di ogni essere umano in quanto creato «a immagine di Dio» è tale che non può essere calpestato da nessuno per nessun motivo.
Di conseguenza, la pratica della tortura offende radicalmente sia la dignità della persona sia la santità di Dio Creatore, qualificandosi non solo come «colpa» nei confronti della vita umana, ma anche come «peccato».



È proprio vero che esistono oratori così?

«Mi ha fatto riflettere un articolo pubblicato sul numero di luglio-agosto della rivista, precisamente quello dedicato all’oratorio. Lì si parla dell’oratorio come ponte tra la Chiesa e la strada, ma a me sembra che si tratti di un ponte lunghissimo, sul quale tra l’altro passa poca gente, perché ormai la maggior parte dei giovani se ne sta ben lontana da luoghi che sanno di sacrestia, di formazione di un certo tipo, e nei quali soprattutto si predica una morale rigida e difficilmente praticabile.
Chiedo scusa dell’analisi che può sembrare spietata, ma sono curiosa di sapere dove sono questi nuovi oratori per nuovi giovani».

Anna ’62


Dalla sua domanda è facile capire come lei faccia ancora riferimento agli oratori di un tempo, probabilmente quelli della sua adolescenza e giovinezza. Oggi, in quella forma, non esistono più. Nell’artico-lo da lei citato – provi a rileggerlo – lo sguardo è piuttosto rivolto al futuro, nella convinzione che ancora oggi è importante offrire ai giovani (anche se pochi rispondono, ma non è questione di far numero) dei luoghi accoglienti nei quali incontrare ma anche elaborare proposte. Si parla di un patronato trasparente, senza muri discriminatori, dove ognuno può liberamente entrare e uscire, giocare ma anche confrontarsi, essere aiutato a realizzare le sue iniziative, i suoi sogni a vantaggio di tutti. Come dice il mio amico padre Nicola, ispiratore di quel laboratorio che è ormai da alcuni anni l’oratorio della parrocchia dei Frari a Venezia (la invito a passare di là), un vero e proprio «tetto per le idee»: le mie, le tue, le nostre e le loro. In questo senso, oratorio estroverso, dove i giovani sono formati a misurare la fede con la vita reale.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017