Lettere al Direttore

Un certo sentire comune ritiene che il fatto di credere in Dio risparmi il credente da prove e problemi.
22 Agosto 2006 | di

LETTERA DEL MESE

Chi crede in Dio ha la vita più facile?

«Mi capita a volte di sentire frasi del tipo: chi crede non può dubitare, perché ha già pronta la risposta ai propri dubbi sulle scelte della vita e soprattutto alla questione decisiva, cioè quella sul destino dell’uomo quando la vita si chiude. Personalmente non mi sento alleggerito della mia responsabilità perché credo in Dio. Anche se aver fede è un dono prezioso del quale ringraziare continuamente, non è detto poi che si venga esentati dalle prove e dalle fatiche dell’esistenza».
G. L.


Nella lunga lettera che mi scrive, qui ripresa nel passaggio centrale e interrogativo, lei mette a fuoco una questione di non poco conto, che ha a che fare con l’identità del cristiano, credente e praticante, e l’identità di chi invece cristiano non è, e imputa a coloro che vivono la fede a trecentosessanta gradi una sorta di extraterritorialità rispetto ai problemi cruciali dell’esistenza: malattia, fallimento, angoscia e morte. Avendo già la risposta in tasca – Dio esiste; è un Dio di amore; la storia è nelle Sue mani; siamo attesi nell’aldilà dal Suo abbraccio di padre, ecc. –, per chi crede anche le domande più radicali, compresa quella acutissima sul dolore innocente, sarebbero artificiose, per il semplice fatto che alla fine i conti tornano sempre. Il cerchio si chiude, e gli interrogativi più inquietanti sono placati da lineari e solide teorie che giustificano Dio e lo tolgono dall’impaccio.
In verità le cose non stanno in questo modo, e proprio chi ha fatto della fede il cuore della vita avverte l’inconsistenza di quel diffuso pregiudizio che vede i cristiani garantiti dal dubbio, non esposti alle contraddizioni, risparmiati dalle lacerazioni. Ma ascoltiamo una voce fuori campo, come può essere quella del giornalista e scrittore Didier Decoin: «Credere è comodo, mi dicono. E aggiungono: per chi fonda la propria vita su Dio tutto diventa singolarmente chiaro, definito. La fede sarebbe così come una specie d’esistenza su palafitte, che non ha più molto da temere dalle domande essenziali, dagli interrogativi che sconvolgono. Con Dio, mi dicono ancora, tutto si spiega. Come mi fa ridere la vostra invidia! Per trenta minuscoli secondi provate a credere in Dio, e capirete… Illuminante la fede? Sicuro, un po’ come quelle albe invernali quando delle nubi viola tengono prigioniero, nell’imperturbabilità livida del cielo, un sole spento».
Scusandomi per le tinte forti di questa citazione, che però fanno da contrappeso alla rozza faciloneria di chi in modo magico ritiene la fede una sorta di assicurazione «casco» sugli imprevisti della vita, è possibile mettere in campo la finezza di indagine che sulla questione del dubbio ha elaborato papa Ratzinger quasi quarant’anni fa. Nel suo best e long seller dal titolo invitante Introduzione al cristianesimo, il giovane e brillante professore di teologia cerca, nel primo capitolo, di rispondere alla domanda: è ancora possibile credere nel mondo attuale?, e individua nel dubbio e nella fede le due situazioni dell’uomo di fronte a Dio. «Nessuno può sfuggire completamente al dubbio, ma nemmeno alla fede; per l’uno [chi crede] la fede si rende presente contro il dubbio, per l’altro [chi non crede] attraverso il dubbio e sotto forma di dubbio». Se questo è vero, il dubbio diviene l’antidoto che impedisce a credenti e increduli di chiudersi nell’isolamento e li fa rimanere perciò aperti al dialogo, alla comunicazione leale e sincera. In questa prospettiva è possibile affermare che chiunque non cerchi di fuggire da se stesso e abbia passione per la ricerca della verità, non può sottrarsi a percorsi esigenti, sia egli credente insidiato dal dubbio oppure incredulo inquietato dalla possibilità della fede. La via della vita facile (se così si può dire) è piuttosto quella dei non-pensanti, dei superficiali cronici, di coloro che non cercano risposte perché hanno anestetizzato le domande.

 

LETTERE AL DIRETTORE


Dialogo a oltranza con un figlio adolescente

«Sono un padre-vedovo di quattro figli. Giorni fa, entrando nel soggiorno di casa, senza volerlo, vedo mio figlio diciassettenne che sta facendo l’amore con la sua ragazza; istintivamente chiedo scusa e me ne vado, ma da allora non riesco più a rivolgergli la parola.
«Mi è sembrato assurdo che mio figlio non abbia neanche avuto il pudore di nascondersi, e che anzi si sia piazzato in una stanza accessibile a tutti, anche al più piccolo di casa. Forse è un desiderio inconscio di farsi vedere da tutti?!
«Fatto sta che ne sono rimasto molto turbato. Mi è sembrato un esercizio gratuito di menefreghismo. Questo problema, secondo me, si può iscrivere in quello più ampio dell’allontanamento degli adolescenti, dopo la cresima, dalla Chiesa. Problema che nessuno, compreso me, riesce a risolvere. I ragazzi, allontanatisi dai valori di base, dal concetto di bene e di male, sono alla mercé di bombardamenti pubblicitari di ogni tipo (di solito basati su un messaggio “sessuale” più o meno latente).
«Questa, ovviamente, è solo una diagnosi molto grossolana del problema.
«La colpa è anche di noi “padri” che non sappiamo avere più nessuna autorevolezza! I genitori non sanno essere più autorevoli e i figli non sanno più obbedire. Mi può aiutare a capire? Grazie».

Lettera firmata


Non voglio subito moralizzare il discorso, perché sarebbe troppo facile e scontato. Di quel che lei racconta, con grande sofferenza e meticolosa precisione, anche riguardo ai sentimenti provati in relazione al fatto in causa, mi hanno colpito in particolare le parole: «Istintivamente chiedo scusa e me ne vado». In questa reazione, soprattutto se rapportata alla rozza superficialità del figlio diciassettenne chiuso nella sua logica isolazionistica, leggo la distanza che separa due generazioni, la fatica di usare gli stessi codici comunicativi, gli approdi diversi – quando non divergenti – di storie che sono maturate dentro percorsi tra loro lontanissimi. Anche un po’ di pudore, per quel che vale, non sarebbe stato fuori luogo, visto che in quella casa il giovanotto non vive solo, ma con un padre che se ne prende carico dal punto di vista economico (presumo) e fratelli anche piccoli da rispettare nella loro ancora fragile identità. Certi «esibizionismi», allora, fanno cadere le braccia, suscitando domande e interrogativi su possibili errori formativi in famiglia ma anche all’interno degli ambienti di Chiesa, su alcuni valori ormai in «caduta libera», derisi e disertati dai più.
Ma torniamo a focalizzare il caso da lei esposto, che è e resta concretissimo, e per rispondere al quale non bastano né il comprensibile sfogo di un padre che sente sconfessata – se non inutile – la propria fatica educativa, né generali valutazioni sul declino di certi valori o sull’inosservanza delle leggi morali della Chiesa. Capisco che, dopo quanto è accaduto, lei sia rimasto bloccato, incapace, almeno fino al momento in cui ha deciso di scrivermi, di riaprire e rilanciare il dialogo con un figlio che ha tradito la sua fiducia, che si è comportato con estrema leggerezza e irresponsabilità. Pur non intendendo giustificare nulla di quanto è accaduto e condividendo appieno il suo disagio di padre, credo che anche e soprattutto in una situazione come questa, vada ripreso e riaperto il dialogo. Così come una reazione solo punitiva rischierebbe di congelare la situazione e forse di peggiorare le cose, anche un suo prolungato silenzio potrebbe essere interpretato come incapacità di reagire, indecisione sul da farsi, rassegnata accettazione del fatto.
È difficile sapere, in questi casi, cosa frulla nella testa di un diciassettenne. E proprio la giovane età del figlio in questione rende urgente la necessità di parlare, di parlarsi, affrontando con coraggio, in maniera prolungata e in profondità, una materia così delicata, così personale e intima. Si tratta, lo comprendo bene, di riagganciare suo figlio a partire dal vissuto, dalla sua intenzionalità, probabilmente confusa o poco chiara. Mi riesce difficile pensare a una sfida lanciata volutamente alla figura paterna, ma anche se così fosse, ci sono cose importanti che dovete dirvi e che solo un atteggiamento di ascolto farà venire alla luce. L’adolescenza è anche tempo di sbandamenti, di gesti sproporzionati, di atteggiamenti trasgressivi, e riannodare con pazienza il filo del dialogo spetta agli adulti, ai formatori, ai genitori. È comunque un’età nella quale il ramo storto si può ancora raddrizzare, perché, anche quando è tenace, è ancora tenero. Certo il dialogo non è sempre corrisposto, quasi mai nella misura che si vorrebbe, e in particolare gli adolescenti sanno essere stressanti nel loro trincerarsi dietro un mutismo carico di aggressività o anche soltanto di disinteresse e di distacco (almeno apparente) dal mondo che li circonda. Ma il messaggio della disponibilità a dialogare fa breccia, mi creda. Lanci questo messaggio e rimanga sulla soglia, attendendo con fiducia. Non le compete di fare il passo che solo suo figlio può decidere di fare, nella libertà, stimolato da un clima di autentico interessamento e di caldo amore paterno per la sua vita e il suo futuro.



La croce, prezzo della fedeltà e dell’amore

«Ho qualche difficoltà a comprendere il sacrificio della croce: posso capire che Dio, per redimere l’umanità, si sia fatto uomo egli stesso in modo da chiedere (a se stesso?), a nome dell’umanità, il perdono dei peccati; ma non mi riesce di capire perché Gesù, per espiare tali peccati, abbia dovuto subire il martirio della croce. Si deve forse intendere tale sacrificio come una penitenza che il Figlio di Dio fatto uomo ha scontato a nome di tutta l’umanità? Se è così, è possibile che Dio, che è amore, chieda all’uomo una penitenza così atroce?».
Lettera firmata

Caro lettore, lei non è il solo ad aver «qualche difficoltà a comprendere il sacrificio della croce». Questo capita perché, molto spesso, il nostro modo di guardare alle verità di fede è condizionato da depistanti precomprensioni: quando, ad esempio, leggiamo nella Lettera agli Ebrei che Gesù ha annullato il peccato «mediante il sacrificio di se stesso» (Eb 9,26), oppure quando nella Messa ascoltiamo il ricordo del gesto e delle parole di Gesù nell’ultima cena: «Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi», tendiamo spontaneamente a partire da un’idea generale di «sacrificio» per poi applicarla a quello che Gesù ha fatto con la sua vita.
L’idea generale che abbiamo in testa, dunque la nostra «precomprensione», considera il sacrificio un atto con il quale l’uomo ristabilisce il suo rapporto con Dio mediante la rinuncia a qualcosa che gli appartiene: il frutto del suo lavoro, la vita di un animale, ma anche quella di un figlio o la propria. Questo modo di rapportarsi alla divinità è presente in molte religioni, non solo in quelle antiche: esso esprime l’esigenza di ristabilire l’ordine compromesso dal peccato, da una trasgressione delle leggi morali o religiose (quelle del culto, per intenderci). Se interpretiamo in questa chiave il «sacrificio» di Gesù, egli rischia di apparire come qualcuno che, in nome di una legge superiore, ha dovuto pagare con la vita il ristabilimento di un ordine divino turbato. Dentro questa logica, colui che Gesù chiama «il Padre suo», può facilmente assumere il volto di una potenza preoccupata più dell’ordine delle cose che del Figlio amato.
Se però ci mettiamo in ascolto della testimonianza biblica, così come risuona nell’Antico e nel Nuovo Testamento, scopriamo che la direzione da percorrere è un’altra: bisogna partire da quello che Gesù ha detto e ha fatto, dal modo in cui è vissuto ed è morto, per comprendere il senso autentico del suo «sacrificio». Il «sacrificio» – abbiamo detto – tende a ristabilire il giusto rapporto con Dio: ebbene, Gesù ha mostrato che il modo con cui Dio si rapporta con noi uomini è caratterizzato dalla volontà di rendere tutti partecipi della sua stessa vita; per questo egli ha mangiato con i peccatori, ha guarito i malati, ha lavato i piedi ai discepoli… Allo stesso tempo, con la sua vita Gesù ha mostrato in che modo ogni uomo è chiamato a rapportarsi con Dio: con la fiducia e la libertà propria dei figli, non con un atteggiamento da schiavi.
Il giusto rapporto con Dio, dunque, si stabilisce quando una persona si relaziona con sé, con gli altri e con le realtà terrene nella maniera che è stata propria di Gesù. Questi è stato messo a morte da persone che erano guidate dalla volontà di mostrare come il suo non fosse il modo corretto di rapportarsi con Dio. Ma di fronte alla scelta tra la testimonianza fedele dell’essere e dell’agire di Dio, suo Padre, e la salvaguardia della propria vita terrena, Gesù ha scelto a favore della prima. È rimasto fedele, «ha sacrificato se stesso», per mostrare a tutti l’autentico volto di Dio. Risuscitandolo da morte, Dio Padre ha riconosciuto pubblicamente la coerenza e la verità della scelta di Gesù. Quindi, alla radice, il senso autentico del sacrificio, del dono di sé (nei molti modi in cui tale dono può esprimersi), consiste nella fedeltà a Dio e alla sua volontà buona nei confronti delle creature, anche quando questa fedeltà va pagata con un prezzo molto alto.


Una mamma invadente e ricattatrice

«È da anni che vivo una situazione insostenibile, ma non ho mai trovato una persona con cui sia riuscita a confidarmi. Sono sposata da dodici anni e ho una bimba di due. Fin dall’inizio mia madre (ora settantenne) è stata sempre molto presente nella nostra vita, fino a essere sfacciatamente invadente. Non passava giorno che non venisse a casa nostra e che telefonasse quattro o cinque volte. Da qualche anno, però, si è trasferita nell’appartamento di fronte al nostro, e la situazione è davvero precipitata. È sempre da noi, complice il fatto che ha avuto problemi di salute, e ora dorme addirittura in casa nostra. Come se non bastasse, quando usciamo per qualunque motivo, pretende sempre di accompagnarci. Pur avvertendo la tensione che si viene a creare, dice che avremo tempo di stare da soli quando lei sarà morta.
«Io e mio marito le vogliamo bene, e abbiamo riorganizzato tutta la nostra vita intorno alle sue esigenze; pensi che mio marito ha scelto di lavorare sempre di notte per farle compagnia di giorno, quando io lavoro, ma vorremmo almeno che capisse che siamo giovani e abbiamo diritto a una nostra vita. Invece, non solo non capisce, ma mi fa sentire cattiva nei suoi confronti, e a mio marito parla male di me.
«Ha le chiavi, entra ed esce come le pare. Se provo a chiederle di darci qualche ora di respiro, lei si offende, minacciando di andarsene per sempre senza dirci dove, e questo ci fa soffrire. Ho chiesto tante volte aiuto con la preghiera, senza trovare risposta. Vorrei solo avere un rapporto meno soffocante con mia madre e, soprattutto, non vorrei rovinare il mio matrimonio a causa sua, come purtroppo sta accadendo. Consigliatemi voi su cosa fare, e pregate per me. Grazie di cuore».
Ada

Il nodo problematico dei rapporti con la famiglia d’origine è stato trattato quest’anno sulla nostra rivista da Gillini e Zattoni nella rubrica «Vivere insieme». Lì potrà trovare validi spunti anche in riferimento alla sua situazione, in particolare negli articoli pubblicati nel numero di aprile e di maggio.
Dal punto di vista biblico-spirituale, è di grande intensità la riflessione di Enzo Bianchi a p. 58 del numero di luglio-agosto. In rapporto ai genitori, si parla della necessità di un vero e proprio «strappo», sul presupposto che la relazione tra uomo e donna nel matrimonio è una relazione interpersonale più profonda di quella filiale. Questa prospettiva, fondata sulla Parola di Dio, non conduce certo a trascurare il vincolo di rispetto e di affetto che deve legare ogni persona ai propri genitori, a chi cioè gli ha dato la vita, ma pone con tutta serietà l’impegno di costruire guardando in avanti, senza pericolose ricadute nel passato. Dunque buona lettura, o rilettura! Da parte mia non mancherò di affidarla al Signore nella preghiera.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017