Lettere al direttore

Per scappare dalla prigione del tempo, è necessario uscire dalla porta principale.
22 Giugno 2006 | di

LETTERA DEL MESE

In ascolto dei «tempi altrui»

«Vivo una vita assorbita dal lavoro, al quale sacrifico tutte le mie energie, anche perché gli anni sono quello che sono e per restare sul mercato bisogna spingere l’acceleratore e non guardare in faccia nessuno. Il fatto di avere famiglia – una splendida moglie e un figlio di due anni – da una parte è una grande forza che mi sostiene, mentre dall’altra è un peso: lamentele continue per i rientri tardivi, per le partenze improvvise, per i viaggi all’estero… Certi giorni non posso permettermi di perdere un solo minuto, per cui corro da mattina a sera, e, una volta a casa, crollo. Capisco che così non posso andare avanti. Padre, mi dia lei una dritta».
E. S.

Non sono riuscito a capire bene che lavoro lei faccia, ma credo di capire molto bene – da quanto dice – la sensazione che prova a vivere come alle prese con una interminabile corsa a ostacoli, nella quale il traguardo si allontana sempre di più, imprendibile o forse inesistente. Lei sperimenta sulla pelle la dolorosa condizione di gran parte dei contemporanei, che si trovano a gestire situazioni lavorative sempre più complesse, esigenti e generalmente stressanti. Il tempo non basta mai, il tempo va inseguito, custodito gelosamente, spremuto in tutte le possibilità che offre. Guai a perdere tempo! Sensi di colpa lancinanti vengono subito a galla e non ci danno tregua finché non ci rituffiamo nel flusso lavorativo, trovando lì il tranquillante delle nostre inascoltate inquietudini. Una bella schiavitù, in verità, non avere un minuto da perdere, sentirsi dentro la gabbia di due lancette che camminano e segnano inesorabilmente il perimetro del nostro raggio d’azione, la gittata di ciò che è possibile e di quanto ci viene negato.
Che cosa dire? Per scappare dalla prigione del tempo, è necessario uscire dalla porta principale: non si tratta solo di ritagliare e concedere scampoli più consistenti di disponibilità per le persone care (magari più per evitare i rimproveri che per convinzione), e nemmeno di rallentare la corsa tutto d’un tratto e di simulare un’innaturale velocità di crociera, ma si tratta soprattutto di mettersi in ascolto dei «tempi altrui», a partire dalle persone che ci sono vicine e care, per umanizzare così, attraverso la relazione ritrovata e risignificata, il senso del nostro stesso vivere.
Solo se intensificato nella direzione della relazione, del coinvolgimento faccia a faccia, dell’azione totalmente gratuita, il tempo segna tappe di crescita significative e ci fa guadagnare quote di autentica umanità. Una volta abbandonata la presa sul tempo, scardinato il senso di possesso e di potere che a esso ci lega a filo doppio, possiamo approdare alla piazza della vita, della festa, finalmente all’aperto, lontani dall’idolatria: staccati (ma anche liberi) dagli idoli del passato che, mentre ci infondono fiducia, ci mettono al collo rassicuranti e pesanti catene; disincantati rispetto agli ambigui presagi di un futuro o troppo abbellito o troppo detestato; quindi abitatori del presente, dell’unico tempo di cui disponiamo per vivere, un tempo che scorre e fluisce lento e maestoso, che è ora, adesso, tutt’intero, unico e prezioso. Non un gioco di specchi, ma un invito a esserci, a rientrare in noi stessi dalle molte «periferie» nelle quali ci siamo persi e sprecati; non un labirinto per girare a vuoto in modo futile e giullaresco, ma una strada maestra sulla quale stare e camminare, fermi e convinti.
Quand’è così, il nostro sguardo si fa essenziale, ed è in grado di cogliere ciò che ci giova, permettendoci di andare oltre i ricatti messi in atto dal tempo che fluisce e dalle paure indotte dal suo accumularsi sulle nostre spalle, dal suo incrostarsi sui nostri volti, dal suo appesantire i nostri cuori. Signor E. S., le auguro di regalarsi di tanto in tanto «un minuto da perdere» (anche qualcosa di più, in verità!), e di fare lo stesso con la sua famiglia.


LETTERE AL DIRETTORE

Diamo fiducia ai giovani incoraggiandoli

«Troppo spesso si sente criticare i giovani, perché non vogliono impegni, non hanno ideali, non sanno fare sacrifici e non vanno più in Chiesa, dimenticando che forse i loro comportamenti sono frutto dei nostri esempi. All’interno della nostra parrocchia, ad esempio, si è formato un gruppo di ragazzi tra i 14 e i 24 anni che, con entusiasmo, si dedicano ad aiutare il prossimo. Nonostante mettano a disposizione della collettività parte del loro tempo libero, organizzando giornate di svago in oratorio e partecipando a tutte le funzioni religiose, non sempre vengono apprezzati. Si vuol cercare a tutti i costi il classico pelo nell’uovo pur di non ammettere che in fondo questi giovani, se stimolati, ascoltati e responsabilizzati, non sono poi così “inutili”, ma ci possono dare e insegnare molto. Per chi lo desidera, secondo me, c’è parecchio da imparare.
Lettera firmata


Quando si parla dei giovani è facile, troppo facile, fare di ogni erba un fascio, enfatizzandone la fragilità, l’incostanza, l’incoerenza, come se l’età giovanile fosse solo un’età ibrida e infida, contraddittoria e sterile. A ben vedere, però, lo stereotipo del giovane senza valori e spensieratamente irresponsabile, è forse più un bisogno di rassicurazione di sé di cui necessitano le persone cosiddette adulte, che un dato di realtà. Se da una parte, infatti, non mancano giovani poco responsabili e immaturi, quindi superficiali nei confronti della vita e della serietà di impegno che essa esige, dall’altra si incontrano veri e propri percorsi di dedizione al prossimo e di generosità pagati di persona.
Il mondo delle comunità parrocchiali, soprattutto là dove sopravvive la prassi di rigidi e angusti itinerari formativi, che sarebbe bene aggiornare, è forse il luogo più disponibile a manifestazioni di insofferenza nei confronti del facile bersaglio (dipinto con tinte fosche, proprio per essere meglio colpito) del mondo giovanile. Ma com’è possibile che non si sappia concedere spazio e dare fiducia a quello che si prospetta come il futuro di tutti noi, atteggiandosi a censori impietosi di vizi (veri o presunti) e senza mai promuovere il bene che pure dev’esserci? Vale la pena di ricordare Giovanni Paolo II, il quale, proprio dando fiducia ai giovani, è riuscito ad attirarli e a entrare in dialogo con loro. Anche il suo successore, Benedetto XVI, non manca mai di incoraggiarli, come si può leggere, ad esempio, nella sua prima enciclica al n. 30: «Un fenomeno importante del nostro tempo è il sorgere e il diffondersi di diverse forme di volontariato, che si fanno carico di una molteplicità di servizi. Vorrei qui indirizzare una particolare parola di apprezzamento e di ringraziamento a tutti coloro che partecipano in vario modo a queste attività. Tale impegno diffuso costituisce per i giovani una scuola di vita che educa alla solidarietà e alla disponibilità a dare non semplicemente qualcosa, ma se stessi. All’anti-cultura della morte, che si esprime per esempio nella droga, si contrappone così l’amore che non cerca se stesso, ma che, proprio nella disponibilità a “perdere se stesso” per l’altro (cfr. Lc 17,33), si rivela come cultura della vita». Quella dei due Papi appena citati è una paternità che coinvolge e responsabilizza, e che, mediante l’ascolto e la simpatia, libera nei giovani le energie migliori. Un esempio da seguire.



La preghiera accorata di un papà

«Mi chiamo Francesco, ho 81 anni e sono abbonato al “Messaggero” da più di 40 anni. Alcuni mesi fa vi feci sapere che ho un figlio che faceva uso di droghe da tanti anni, senza venirne fuori, e che a quel tempo non lavorava. Vi domandai di pregare il grande sant’Antonio che smuovesse un po’ le cose. Qualcosa è cambiato, sta lavorando, ma con le droghe è sempre più compromesso. Lo richiamo continuamente perché smetta, ma è sordo a tutti gli ammonimenti, anche alla galera.
«Ormai è un uomo di 43 anni, e vi lascio immaginare la vita che conduco con questo figlio testardo. Vi chiedo, ancora una volta, di pregare il grande sant’Antonio affinché prenda contromisure energiche per farlo rientrare nella norma di una vita sana».
Lettera firmata


La sua preghiera di padre che ha vissuto e sta vivendo un doloroso calvario a motivo di un figlio, non più giovane, ricaduto nella dipendenza da droga, mi ha colpito profondamente, e non le farò mancare il mio ricordo davanti al Signore. Dalla lettera di alcuni mesi fa, comunque, qualcosa è cambiato in positivo: ora, come lei dice in questo aggiornamento sulla situazione, suo figlio ha ripreso a lavorare, anche se resta un’ombra cupa che incombe, non facile da diradare.
Capita che per alcuni giovani l’esperienza della droga rappresenti un momento passeggero, per cui si limita a una fase della vita, superata la quale (per ferma decisione personale o attraverso l’aiuto di un trattamento medico unito spesso a un percorso di recupero vissuto in una «comunità») il soggetto guadagna uno sguardo nuovo su di sé e sul mondo circostante. Il tossicodipendente, cioè, riprende in mano la sua esistenza e la riprogetta, lasciandosi alle spalle il passato.
Suo figlio, che lei chiama «figlio testardo» perché vorrebbe scuoterlo e vederlo finalmente «libero», è però ormai una persona adulta, la quale né si spaventa di fronte ai rimproveri, anche ripetuti, di un anziano e buon genitore, né intende cambiare stile di vita perché qualcuno lo orienta in quella direzione con accorate esortazioni. Ci vuole ben altro! Ma che cosa? Difficile dirlo, poiché ogni caso andrebbe esaminato a fondo: quali droghe, in quali dosi, da quanto tempo, e via dicendo. Ma anche quale stabilità affettiva, quali amicizie, quante perdite subite: lavoro, credibilità personale, senso della vita, tentativi per raggiungere la condizione drug free (completa astinenza da ogni tipo di droga), oppure una situazione che si trascina da anni senza decisioni e scelte importanti. Mi limito a darle un consiglio semplice, fors’anche già preso in considerazione e praticato: contatti il suo parroco e s’informi se nella zona operano «comunità» residenziali, definite ufficialmente terapeutiche, o anche semiresidenziali (che accolgono di giorno, permettendo che ognuno, la sera, se ne torni a casa propria), oppure anche semplici centri di accoglienza o «comunità aperte», che offrono alcuni servizi fondamentali, lasciando i pazienti liberi di entrare e di uscire. Faccia in modo che a parlare con suo figlio sia o il parroco stesso, o una persona da lui delegata, comunque competente.
E che sant’Antonio illumini il cuore del suo «figlio testardo» e testardamente amato. Chi è padre lo è per sempre, e non ha scelta.



Gli eccidi delle foibe: verità e perdono


«Sono un assiduo lettore della vostra rivista e ho notato che, sia nel numero di febbraio del 2005 sia in quello dello stesso mese del 2006, non avete menzionato la Giornata del Ricordo, che intende rendere onore alle migliaia di vittime infoibate tra la fine del 1943 e il 1945 dalle truppe comuniste di Tito e da italiani che erano dalla sua parte. Per troppi anni quegli eccidi sono rimasti sepolti nelle pieghe della storia, cancellati dai libri di testo, ignorati dall’opinione pubblica. Finalmente oggi si è resa giustizia, almeno nella memoria, istituendo una giornata di ricordo. È doveroso prenderne atto, non le pare?».
B. L.


Come avrà letto o sentito, il problema è venuto a galla anche di recente, durante l’elezione del presidente di uno dei due rami del Parlamento. Fausto Bertinotti, neoeletto al vertice della Camera, nel breve discorso di ringraziamento ha evocato la Resistenza, i suoi valori e le sue vittime, senza accennare alla tragedia delle foibe. Il mancato ricordo di questi eccidi è stato prontamente rimarcato da esponenti del centrodestra. Evidentemente si tratta di un nervo scoperto della nostra storia, di una pagina ancora oscura, alla quale ne vanno aggiunte altre, intrise del sangue di sacerdoti (centotrenta) e di un gran numero di esponenti del laicato cattolico, trucidati dai partigiani comunisti tra il 1944 e il 1947. Per una di quest’ultima e ampia tipologia di vittime – il seminarista reggiano Rolando Rivi, ucciso il 13 aprile 1945 – è stata introdotta, lo scorso gennaio, la causa di beatificazione.
Pagine oscure, dunque, sulle quali prima o poi bisognerà fare piena luce per stabilire, con verità, tutta l’atrocia di assurdi eccidi, chiunque ne sia l’autore. Si tratta, senza mezzi termini, di barbara violenza, per la quale nessuna giustificazione, ideologica o razionale, può essere accampata. Si tratta dei frutti amari di giorni bui, nei quali l’uomo ha dato il peggio di sé (e, purtroppo, non sono mancati gli imitatori).
Per questo è giusto che sia stata istituita, con voto bipartisan e da celebrare ogni anno in data 10 febbraio, la «Giornata del Ricordo» (che ci ripromettiamo, nei prossimi anni, di non passare sotto silenzio), per togliere dall’immeritato oblio molte vittime innocenti, troppo a lungo dimenticate. Ma forse la cosa migliore sarebbe un’unica giornata per ricordare insieme le vittime di tutti gli eccidi. Per farlo, com’è facile immaginare, dovrebbe esserci però da una parte la disponibilità ad accettare la verità dei fatti, e dall’altra il coraggio di perdonare: per mettersi così alle spalle il tragico passato e intraprendere, insieme e riconciliati, nuovi cammini. Mi rendo conto di aver usato parole (quali «verità» e «riconciliazione») per tutti molto esigenti e difficili da declinare nella concretezza della vita, ma, come più volte ha ribadito Giovanni Paolo II con parole profetiche, la riconciliazione rappresenta il fine di un autentico recupero della memoria, la vera garanzia che l’orrore non si ripeta.



Cosa vuol dire: Dio è ovunque. Non capisco.

 
«Egregio direttore, da tempo sento il bisogno di verificare la concezione cristiana della presenza di Dio. Mi è sempre stato detto che Dio è in ogni luogo, in ogni cosa, in ogni essere, in me stessa. Ascolto queste affermazioni, ma non riesco a coglierne con precisione il significato. Mi guardo attorno e vedo che tutto è ben fatto e segue una sequenza e un divenire logici, indipendentemente da Dio. Ad esempio, il seme diventa albero, fa il fiore e poi il frutto, tutto secondo le leggi della natura. Dov’è Dio? In tutto, lei mi risponderà. Questa affermazione, però, mi lascia perplessa, e personalmente non la trovo esauriente. Mi chiedo: perché non capisco? Gradirei, se possibile, una spiegazione un po’ diversa o, eventualmente, l’indicazione di qualche testo che mi aiuti ad approfondire la questione».
Lettera firmata

 
Gentile lettrice, lei solleva in poche righe questioni che hanno fatto versare i classici fiumi d’inchiostro: dov’è Dio? Come interviene nella storia? In quale modo discernere la sua presenza negli eventi del mondo, a livello personale e collettivo? Le consiglierei di riprendersi in mano il Catechismo della Chiesa Cattolica e di rileggere con molta calma il n. 300, là dove si parla, insieme, della trascendenza di Dio e della sua presenza rispetto al mondo. Se è possibile, infatti, allontanare così violentemente Dio dagli eventi del mondo, fino a farne un estraneo, una realtà tutto sommato superflua, è anche possibile, d’altra parte, tirarlo troppo facilmente e interessatamente dentro la trama della storia («in ogni luogo, in ogni cosa, in ogni essere, in me stessa» sono espressioni da intendere bene) facendone un «pezzo di mondo» a supporto della nostra limitatezza. Non avendo molto spazio per entrare nei dettagli, le consiglio una lettura che le sarà di giovamento: si tratta del secondo capitolo (in particolare la sezione «Dov’è Dio?», pp. 93-97) del volume dal titolo Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio (San Paolo, 2001), frutto del colloquio, tenutosi nell’abbazia benedettina di Montecassino, fra il cardinale Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e il giornalista tedesco Peter Seewald.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017