Lettere al direttore

Fare chiarezza sui temi centrali della fede,è oggi un’esigenza molto avvertita.
23 Maggio 2006 | di

LETTERA DEL MESE

Si può dire che lo Spirito Santo è Dio?

«Sono abbonato al “Messaggero di sant’Antonio” da oltre vent’anni. È superfluo dirvi che leggo il vostro mensile con molto interesse, e che questo ha contribuito a farmi crescere nella fede: sono diventato un cristiano credente e praticante. Ciò premesso, passo al motivo che mi ha spinto a indirizzarvi la presente. Dio è Uno e Trino: Tre Persone distinte in una Unità. Domando: “Dicendo: il Padre è Dio, il Figlio (Gesù Cristo) è Dio, lo Spirito Santo è Dio; dico bene o dico storto?”. Vi prego di illuminarmi in merito. Alcuni giorni fa, parlando con un mio amico, anch’egli credente e praticante, mi è stato detto che sono “eretico” quando, mentre discorrevamo sui dogmi della nostra fede, io ho detto che “lo Spirito Santo è Dio”».

C. G.


Nella solennità della Santissima Trinità, che la Chiesa celebra la domenica dopo Pentecoste (quest’anno l’11 giugno), nel Prefazio, vale a dire la preghiera che il sacerdote recita prima della consacrazione, vengono pronunciate le seguenti parole: «È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno. Con il tuo unico Figlio e con lo Spirito Santo sei un solo Dio, un solo Signore, non nell’unità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza». Non si tratta di un rompicapo e nemmeno di una complicazione per esperti, ma del vertice della fede cristiana che riconosce un solo Dio in tre Persone uguali e distinte che sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Per la sua linearità, il ragionamento svolto dal Catechismo della chiesa cattolica, a partire dal n. 232, può aiutare a fare chiarezza: i cristiani, si dice, sono tali perché battezzati «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (Matteo 28,19). Essi, quindi, sono battezzati «nel nome» e non «nei nomi» del Padre-Figlio-Spirito Santo; «infatti non vi è che un solo Dio, il Padre onnipotente e il Figlio suo unigenito, e lo Spirito Santo: la Santissima Trinità» (n. 233).
A questo punto è collocata quell’affermazione che tutti conosciamo fin troppo bene, e che non raramente viene usata per scusare la nostra pigrizia intellettuale: la Trinità è un «mistero della fede». «Mistero», però, in senso cristiano, non vuol dire soltanto buio e caligine, muraglia insuperabile, verità inaccessibile, per cui non ci resta che allargare le braccia e rinunciare a ogni impresa conoscitiva. Piuttosto la conoscenza del mistero avanza, insieme ai percorsi della ragione, attraverso l’accoglienza nella fede della rivelazione che Dio fa di se stesso, cioè la rivelazione di Dio come Trinità. E per questo non possiamo che volgere lo sguardo alla Scrittura, alla Parola di Dio, non fosse altro perché solo Dio parla bene di se stesso. Nella Scrittura è Gesù di Nazaret a rivelarci la novità di Dio che è Padre (cfr. Matteo 11,27) e lo è in senso inaudito, e al contempo «l’invio della Persona dello Spirito dopo la glorificazione di Gesù rivela in pienezza il mistero della Santa Trinità» (n. 244). Lo Spirito, dunque, è una terza persona divina in rapporto a Gesù e al Padre, per cui lei non «dice storto». Nessuna eresia trapela dalle sue affermazioni, che risultano corrette.
Mi rendo conto, in ogni caso, di aver condensato in poche righe dei concetti molto alti che andrebbero diluiti e tradotti nel linguaggio comune, soprattutto rapportati alla vita. Con una bella immagine, è sant’Ireneo ad affermare che «il Figlio e lo Spirito Santo sono le due mani del Padre» che hanno il compito di innestare l’uomo nella vita trinitaria, fatta di unità, diversità e relazione.
Queste caratteristiche della Trinità sono, di riflesso, anche dimensioni costitutive della persona, per cui è possibile dire, insieme a Emil Brunner: «Dimmi che Dio hai e ti dirò qual è la tua umanità».

LETTERE AL DIRETTORE

Nel baratro della depressione. Che fare?

«Da alcuni mesi a questa parte sono caduta nel baratro della depressione. Com’è brutta padre! Ho l’impressione che il mondo mi crolli addosso, giorno dopo giorno. Alla sera mi accascio sul letto stremata, incapace anche di una breve preghiera, e al mattino mi risveglio già stanca, con l’angoscia nel cuore. Da me si sono allontanati amici e parenti e anche mio marito non mi capisce più. Dice che devo reagire, perché se continuo così rovinerò anche la sua vita e quella dei nostri figli. Ma come posso reagire se non ho nemmeno la forza per vivere?».

Lettera firmata


È davvero intensa la sofferenza che caratterizza uno stato depressivo, e la cupa tristezza che ne deriva e di cui a volte non si sa indicare la causa precisa, coinvolge la persona in modo pervasivo, quasi paralizzandola. Il senso di impotenza, di svalutazione e di angoscia che imprigionano la mente e il cuore, esplodono in tutta la loro forza invalidante in modo apparentemente improvviso; in realtà, quando non si possono spiegare come reazione adeguata e transitoria a certi eventi dolorosi e imprevisti della vita (ad esempio un lutto, un abbandono, ecc.), essi sono manifestazione esterna di un malessere più «lontano», radicatosi silenziosamente tra le pieghe di un vissuto faticoso e conflittuale.
La depressione deforma la visione di sé e complica le dinamiche relazionali: la comunicazione si impoverisce nei suoi tratti di scambio vivace e reciproco, le parole danno voce a pensieri per lo più negativi, e per chi ascolta il costante richiamo a un male così poco circoscrivibile e «oggettivabile» (come può essere, invece, una malattia fisica) rende non facile innanzitutto la comprensione, ma anche l’accoglienza e la vicinanza amorevole. Mi spiego: il dolore che nasce dall’assistere impotenti alla sofferenza tanto struggente quanto irraggiungibile di una persona che si ama, sa rendere impazienti e anche esasperare, liberando piccole o grandi dosi di aggressività. Con tutte le buone intenzioni, naturalmente: smuovere l’altro dalla sua situazione stagnante, provocarlo a ritrovare risorse depositate chissà dove, spingerlo a reagire, portarlo a rialzare la testa.
Queste molteplici strategie, in alcuni casi, non fanno che aumentare la sofferenza di tutti e rendere ancora più acuto il distacco tra chi è schiacciato dalla depressione e il resto del mondo, prossimo o lontano, innalzando barriere di solitudine e rendendo più acuti i sensi di colpa (di chi non riesce a guarire, a sentirsi bene, «come prima», e di chi non riesce ad aiutare come vorrebbe, con efficacia o almeno ottenendo qualche risultato). Come prima cosa, occorre perciò interrompere un simile circolo vizioso, fatto di patimenti e senso di impotenza: la persona depressa va ascoltata, incoraggiata e stimolata tanto quanto va sostenuta e consigliata la sua famiglia, rendendo ogni elemento del gruppo familiare maggiormente capace di gestire il proprio e altrui disagio. Per questo, sono da inventariare realisticamente e da reinvestire positivamente le risorse interiori e di competenza che ciascuno (ai diversi livelli: nella comunità, nel gruppo, nella famiglia, nella coppia) porta in sé, valorizzando al massimo tutto il bene che, per amore, è stato seminato e che, con legittima speranza, può ancora essere raccolto.
E la fede? C’entra qualcosa in tutto questo? Sicuramente, anche se va detto che quando sono scosse le fondamenta del vissuto personale, è da mettere in conto una vera e propria purificazione della fede, anche attraverso dolorosi momenti di crisi e di rifiuto della stessa. La purificazione, tra l’altro, può portare a un irrobustimento del modo di credere. Spesso si scoprono forme più autentiche, perché disarmate, di affidamento; si sperimentano nuovi stili di invocazione e di preghiera; si può incontrare, proprio a partire dall’estrema fragilità, il volto di un Dio che salva nella debolezza, nella condivisione, che accoglie come padre e come madre i nostri passi, anche piccoli, lenti e impacciati.


Donare: scelta di vita e motivo di gioia

«Ho appena sostenuto il progetto della Caritas antoniana per la costruzione di un centro ospedaliero in Burkina Faso. Ho vent’anni e il mio più grande desiderio e piacere è aiutare le persone meno fortunate. Anch’io, fin dalla nascita, soffro di una lieve paresi, ma mi ritengo comunque fortunato perché ho genitori splendidi.
«Per questo, cerco nel mio piccolo di fare la mia parte: metto via i soldi per aiutare soprattutto i bambini, e, da due anni, ne ho adottato uno in Ruanda. Sono molto fiero di ciò che faccio: piuttosto che impiegare i miei soldi per comprare stupidaggini, preferisco usarli per fare del bene ai bambini del Terzo mondo e, di riflesso, anche a me stesso».

Lettera firmata


Un giorno parlavo con Carlos, un confratello missionario, in visita in Italia. Mi descriveva la sua quotidianità in missione: in quattro in una stanza, poco cibo, poca acqua, un solo cambio d’abito, una vita di povertà assoluta, come quella che conducevano i suoi parrocchiani. Sorrideva bonariamente quando mi riportava le espressioni ammirate della gente di qui, alla fine della messa: «Fra Carlos, ma come fai? Quanti sacrifici!». Lui evidentemente non si riteneva un eroe: «Se sapessero il senso di pienezza che si prova! È più quello che si riceve di quello che si dà» mi confidava, capovolgendo il senso comune del sacrificio e della gioia.
Fra Carlos esprimeva in modo semplice una verità oggi teorizzata da insigni studiosi: donare non è un’azione a senso unico. Per essere autentica, richiede reciprocità. Si ha vero donare, spiega l’economista Stefano Zamagni, «quando in un dono fatto c’è anche un dono accolto; il donare non è semplicemente un “far del bene”, ma è costruzione di relazioni, di socialità».
Per un altro economista, Pier Luigi Sacco, chi dona cerca un senso per sé, vuol fare un cammino di crescita che lo coinvolga. Per questo è bene farsi domande sul significato del proprio donare e renderlo parte integrante del vissuto quotidiano.
Per arrivare a questa maturazione, bisogna rifuggire «la dimensione pietistica del dare», perché altrimenti il dare si riduce a pura «reazione impulsiva»: un episodio emotivo, casuale, non una scelta fondamentale e ponderata per la propria vita.
Mi congratulo con lei, perché, alla sua giovane età, ha già scoperto il significato autentico del donare come scelta di vita e motivo di gioia anche per sé. Non un gesto estemporaneo, quindi, ma un’attitudine che la porterà a una maturazione vera, rendendola sempre di più cittadino del mondo.



Sono condannata all’infelicità? Chiedo aiuto

«Sono una moglie e madre di due figli, il primo dei quali avuto proprio grazie a un’ardente preghiera rivolta a sant’Antonio quando, dopo un anno di matrimonio, pensavo di non poter diventare mamma.
«Ho bisogno di un parere e di un consiglio cristiano, ovvero secondo il pensiero di Dio, riguardo a un grosso problema che mi assilla da molto tempo: mio marito mi odia, calpesta la mia dignità di persona, per lui io non sono nemmeno all’ultimo posto nella sua vita, perché prima di me vengono sua madre, i suoi amici, i suoi hobby.
«La famiglia gli pesa come una palla al piede. È menzognero e imbroglione, per cui non c’è dialogo. Quando tento di parlare diventa iroso, si arrabbia, bestemmia, e mi dice che devo essere solamente una donna di servizio. In questa vita coniugale non ci vedo nulla di positivo; ho sopportato sempre e solo perché nella volontà di Dio il ma-trimonio è indissolubile, ma sento di non aver più quella forza di sopportare che avevo nella giovinezza.
«Mi chiedo: ma questo marito è proprio quello che Dio, nei suoi piani, aveva destinato a me? Se io avessi distorto o distorcessi i piani di Dio, sarei condannata a una infelicità permanente? Quello che ho scritto forse non illustra il problema nella sua interezza, ma vi chiedo ugualmente di confortare la mia angoscia e di mettere ordine ai pensieri della mia mente e ai sentimenti del mio cuore. Grazie!».

Lucia

 

Cara Lucia, le sue parole dipingono con chiarezza il disagio sommerso che per lunghi anni ha custodito soffrendo in silenzio, e che ora sta emergendo in tutta la sua complessità sotto la spinta del pressante desiderio di dar voce alle ferite profonde (provocate da un’esasperante e continuativa situazione conflittuale) che le bruciano dentro.
Di fronte a una situazione così pesante da portare e certamente non più accettabile, credo che sarebbe per lei fonte di grande aiuto rivolgersi a una persona competente, la quale con amore e consapevolezza accolga, comprenda e condivida il suo disagio, e piano piano la indirizzi verso il giusto cammino. La prima tappa di questo cammino, valutando dalla mia limitata prospettiva, dovrebbe consistere nel raggiungimento di un minimo di serenità interiore, attraverso la valorizzazione della sua identità di donna, di sposa e di madre, e quindi il recupero della sua personale dignità.
A nessuno mai dobbiamo permettere di calpestarla, di manipolarla, di prendersene gioco, tanto meno se si tratta di persone con le quali abbiamo dei legami affettivi di lunga data e impegnativi.
Va inoltre ricostruita una visione equilibrata e realistica della vostra esperienza di coppia (sì, di lei e suo marito, insieme!) fino ad ora vissuta da parte sua con la totale presa in carico di ogni responsabilità e conseguente fatica.
Nel matrimonio – è bene ogni tanto ricordarlo a se stessi e all’«altro» – entrambi gli sposi sono chiamati a progettare e a realizzare l’alleanza sponsale nella reciproca accoglienza. Per rinverdire e riattualizzare questa dimensione profonda che nasce in modo del tutto speciale da una prospettiva di fede, un sacerdote potrebbe essere il giusto referente, soprattutto per la possibilità di affrontare a carte scoperte anche il risvolto «religioso» della sua crisi.
È molto bello che, davanti a una situazione così dura fino a essere umiliante, lei ribadisca con forza la sua fede, il tenace desiderio di rimanere fedele al progetto di Dio sulla sua vita, non rinunciando a far affiorare le «grandi domande». Ora però è buio, per cui più facilmente la paura paralizza la mente e i sensi di colpa offuscano la lucidità, ma è necessario uscire allo scoperto, perché più di così è difficile stare male… Dio Padre buono, che resta buono anche dietro le nuvole delle nostre disavventure, l’attende per un appuntamento di verità e di amore.
Chieda al Signore (e io pregherò insieme a lei per lo stesso motivo) la forza di comunicare a suo marito l’urgenza che avverte di «ripulire» una relazione che da troppo tempo vi tiene insieme ma non più uniti. Sarà una ricostruzione che parte da lontano, con tanti cocci da raccogliere. Anche se non sarà facile, vale comunque la pena di provare.



Paura degli esami e preghiera

«Questo per me è un anno importante perché dovrò affrontare l’esame di maturità. Anche se mi sono impegnato nello studio, mi sento paralizzato da una paura che mi impedisce di essere sereno. Le chiedo di pregare sant’Antonio affinché mi aiuti a superare nel modo migliore questa prova».
Matteo

Essendo Padova una città universitaria, non mancano studenti che, prima di affrontare un esame, passano in basilica per una preghiera. A dirla tutta, a molti tra i lettori, vicini o lontani, sarà capitato di invocare aiuto dall’alto di fronte a ostacoli di carattere scolastico, e non solo.
La maturità, si sa, è un esame particolarissimo, ed è fondamentale che lei si sia impegnato nello studio. Questo fatto distingue la sua richiesta, che accolgo volentieri, da sollecitazioni un po’ superficiali dell’intercessione del Santo.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017