Lettere al direttore

Condurre a Cristo e ripresentare il Vangelo. Ecco il sigillo che autentica le apparizioni mariane.
19 Aprile 2006 | di
LETTERA DEL MESE
 
 
Apparizioni mariane: per orientare a Cristo e al Vangelo
 
Caro padre, vorrei sapere che cosa ne pensa delle apparizioni della Vergine, di quelle approvate dalla Chiesa, ma anche di quelle che, pur attirando molta gente, sono ancora sotto il giudizio dell’autorità ecclesiastica. Non crede che intorno a certe apparizioni recenti ci sia un po’ di fanatismo, un fanatismo che rischia di creare divisioni se non discordie nelle comunità cristiane? Esagerando il ruolo di Maria, non si sminuisce in qualche modo la centralità di Cristo per la salvezza?
L. B.
 
Gentile signore, non senza una certa durezza lei solleva una questione sulla quale il dibattito nella Chiesa subisce continui rilanci, con tempi di relativa quiete e altri più turbolenti, anche se recentemente questi ultimi sembrano prevalere. Le domande che pone sono molto precise e circostanziate, e suonano come un invito ad affrontare la cosa di petto, senza alzare cortine fumogene, oppure, che è ancor peggio, dirottare il discorso su aspetti marginali. Prima di risponderle o, meglio, di abbozzare una risposta, desidero però condividere con lei una curiosa esperienza di alcuni anni fa, alla quale torno spesso sia per l’impressione che ne ho ricevuto, sia per l’insegnamento prezioso che ne è sortito e che ancora porto con me.
Ecco quanto: come teologo mi è capitato spesso di essere invitato in parrocchie, piccole e grandi, a parlare dei più svariati argomenti della fede, e devo dire che alcune volte mi sono trovato di fronte un pubblico davvero numeroso, altre volte un pubblico ridotto, altre ancora il classico «resto d’Israele» (gli organizzatori dell’incontro e poco più). Un’unica volta, però, mi è capitato di trovarmi in una sala parrocchiale di dimensioni più che ampie (adibita anche a proiezioni cinematografiche) con gente accalcata e accampata fuori perché i posti a sedere, ma anche quelli in piedi, erano del tutto esauriti. Come può ben immaginare, l’argomento sul quale ero stato invitato a intervenire (da un parroco di buon fiuto pastorale che da qualche tempo si era trovato a gestire contrapposizioni poco edificanti, con qualche reciproco colpo basso, fra gruppi di preghiera di diversa matrice) era quello delle apparizioni. Fu così che, dopo essermi informato scrupolosamente sul pensiero della Chiesa e averlo collocato nell’attuale contesto socio-religioso, tenni la mia conferenza in quella sede affollata. Essendo lo scorcio del mese di maggio, le porte laterali del salone rimasero aperte, affinché tutti potessero sentire. E il clima di ascolto fu particolarmente intenso. In ogni caso si trattò, percentualmente (spazio disponibile diviso persone), della conferenza più affollata che mai mi sia capitato di tenere.
Dopo qualche mese, solo in piccolissima parte per merito delle mie parole, ma molto più per il sapiente lavoro di cucitura che il parroco seppe avviare, le cose si raddrizzarono. Da parte mia, ricordo che quella sera ritornai più volte sullo stesso punto: come Maria, nella sua sobria e decisiva presenza all’interno delle narrazioni evangeliche, indica sempre suo Figlio Gesù: «Fate quello che vi dirà» (Giovanni 2,5), così fanno le «vere» apparizioni, né più né meno. Nel suo Commento teologico al terzo segreto di Fatima, l’allora cardinal Ratzinger scriveva: «Il criterio per la verità e il valore di una rivelazione privata è il suo orientamento a Cristo stesso. Quando essa ci allontana da lui, quando essa si rende autonoma o addirittura si fa passare come un altro e migliore disegno di salvezza, più importante del Vangelo, allora essa non viene certamente dallo Spirito Santo, che ci guida all’interno del Vangelo e non fuori di esso». Con le parole del Montfort: «Se tu dici “Maria”, ella risponde “Cristo”». Fissato questo punto, mi pare, il più è fatto.

 

Futuro incerto senza esempi e veri testimoni 

«Oggi ciò che conta sono solo i soldi. Denaro, denaro e ancora denaro. Anche la vita del mercato si sta trasformando nel “mercato della vita”, e la politica senza un’etica fa diventare tutto una semplice operazione contabile. Sono sicuramente il più illetterato tra i suoi lettori (ho solo la licenza elementare), ma mi par di capire che se non saremo o diventeremo un po’ più cristiani, non ci sarà un bel futuro per il nostro Paese e per i nostri figli. Però cristiani nei fatti, perché di parole se ne dicono fin troppe. Per scuotere i cristiani inariditi dall’indifferenza e persi nell’inseguire miti vuoti di senso, servono esempi forti, testimoni credibili. Dico bene?».
A. B.
 
Dice molto bene: servono esempi forti e testimoni davvero credibili per scuotere i cristiani dal torpore e dall’indifferenza di una società in cui la «vita del mercato» rischia di diventare «mercato della vita». Ma dove si trovano esempi forti e testimoni credibili? La risposta è relativamente semplice: nei santi. Come del resto ci ricorda anche Benedetto XVI nella sua prima enciclica Dio è amore con le seguenti parole: «Guardiamo ai santi…, sono i veri portatori di luce all’interno della storia, perché sono uomini e donne di fede, di speranza e di amore» (n. 40).
I santi dunque sono uomini e donne di fede, di speranza e di amore come lo furono Francesco d’Assisi, Ignazio di Loyola, Giovanni di Dio, Camillo de Lellis, Vincenzo de’ Paoli, Luisa de Marillac, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Giovanni Bosco, Luigi Orione, Teresa di Calcutta, solo per citare alcuni modelli insigni di carità che il Papa in modo esplicito ci propone. Tra i santi, ovviamente, eccelle Maria, madre del Signore. Essa è donna di fede: crede alle promesse di Dio; donna di speranza: attende la salvezza d’Israele; donna di amore: crede, spera, ma soprattutto ama.
Forse dovremmo tornare a rileggere il Vangelo, nella sua semplicità e radicalità, o anche accostarci a quel Vangelo vissuto che sono, appunto, le vite dei santi: ce ne sono molte e molto belle. Senza per altro dimenticare che uno dei più grandi doni che ci ha fatto il Concilio Vaticano II è stato quello di richiamarci tutti alla necessità, ma ancor più alla bellezza, di essere e di farci santi. La chiamata alla santità non riguarda truppe specializzate all’interno della Chiesa, in altre parole chi se lo può permettere, sia perché ha tempo di coltivare la propria interiorità, sia perché dotato di un’indole particolarmente docile.
Nel cammino di santità si entra con tutta la propria personalità, arricchita dai mirabili doni di Dio, ed è lo sviluppo di questi doni a richiedere quelle dolorose potature che in genere vengono viste solo al negativo. La santità non ci fa entrare negli schemi rigidi di una religiosità che penalizza o impoverisce la nostra umanità, quasi deformandola.
Insieme con Benedetto XVI non bisogna stancarsi di ripetere che Dio non ruba spazio all’uomo, anzi crea in chi lo accoglie nuovi spazi di libertà, di autonomia, di creatività, così come accade nelle relazioni paterna e filiale. È di questa santità che hanno bisogno la Chiesa e il mondo, per un presente meno arido e per un futuro meno incerto, più ricco dei valori del Vangelo.
Lei sottolinea in particolare il rischio che tutto venga mercificato. Oggi questo succede non solo per le cose, ma anche e soprattutto per le relazioni, nei rapporti personali come in quelli a più vasto raggio, quindi a livello di società civile e ancor più politica. È vero, il denaro è un idolo potente e molto suadente, che falsifica la prospettiva di lettura della realtà, e anche noi cristiani facciamo fatica a sottrarci alle sue lusinghe. Su questo versante (dell’uso dei beni, del possesso delle cose, dell’accumulo di denaro) dovrebbe forse emergere con maggiore convinzione e concretezza una figura di santità cristiana contemporanea legata alla sobrietà, alla gratuità, alla condivisione. Non fuori dal mondo, ma dentro il mondo e la storia con la capacità di trasfigurali.
 
 
Padre separato e figlio che non lo vuol vedere
 
«Sono padre di due figli maggiorenni. Dopo la separazione voluta dalla moglie, dovetti lasciare la casa e vedere i figli nei tempi consentiti dalla legge. Nonostante ciò, ho fatto il possibile per essere un buon padre, cercando di trasmettere loro una sana educazione. Crescendo, però, uno dei figli ha cominciato a non accettare più né rimproveri né osservazioni, minacciando che, se avessi insistito, non si sarebbe più fatto vedere. Capisco anche che, vivendo con un’altra figura maschile che gli può garantire un tenore di vita più elevato di quello che potrei offrirgli io, il distacco sia inevitabile. Sono due anni che, nonostante i miei inviti, lui si nega. Come devo comportarmi? Ignorare la situazione? Cercarlo in continuazione? Si sa che, diventati adulti, i ragazzi devono fare la loro vita, ma a noi padri basterebbe anche solo un piccolo gesto o una parola di affetto».
Lettera firmata
Comprendo quanto sia intenso in lei il bisogno, ora urgente, di sentirsi ancora «padre» per quel figlio che di sicuro mai ha smesso di amare e che, anche nei momenti più difficili della vostra storia familiare, ha cercato di accompagnare lungo il suo percorso di crescita segnato da nuovi riassetti familiari ed equilibri da ritrovare.
Tanti sono i fattori che possono aver appesantito e condizionato il delicato lavoro di ricostruzione del vostro rapporto affettivo: come non considerare probabili accuse e rancori tra genitori, afflizioni e senso di inadeguatezza scaturiti dal fallimento matrimoniale, l’incomprensione dei figli stessi verso scelte genitoriali magari troppo complesse o contraddittorie e, da qui, il loro dolore, la delusione e il giudizio stroncante nei vostri riguardi?
Sicuramente si tratta di un fardello pesante da portare, soprattutto quando l’amarezza e la solitudine sfiancano l’anima ed è forte la tentazione di non credere più nella possibilità di mettere in salvo un amore, un amore grande come quello di un padre verso il proprio figlio. Due anni di silenzio e negazione anche di una semplice parola gentile sono tanti, eterni, per chi come lei desidera ancora viversi nel ruolo di padre. Tuttavia, dubito che scegliere di sparire dalla vita di suo figlio, come anche tempestarlo di richieste o condannare irrevocabilmente il suo atteggiamento evitante, siano comportamen-
ti che servano a tenere aperta e magari in un futuro a riaprire una porta di dialogo e perdono tra voi. In ogni caso, la presenza di una nuova figura maschile nella vita di suo figlio, non deve creare in lei un giudizio di autosvalutazione, tra l’altro dettato da un confronto di natura puramente economica, e, ancor meno, rappresentare una scusa per tirarsi indietro dalle sue responsabilità di padre.
Con discrezione, ma anche con fermezza, dimostri a suo figlio di amarlo profondamente, rispettando – anche se le costa fatica – i suoi silenzi e i suoi tempi di reazione e decisione. Se ne ha l’occasione, gli proponga la condivisione di piccole cose (una partita di calcio, una passeggiata, un evento accaduto…), e rilanci un dialogo all’insegna della serenità e della sincerità, guardando più al futuro che al passato, con un pizzico di ottimismo. Auguro a lei e a suo figlio di riscoprire presto la gioia che deriva da cammini fatti insieme.
 
 
Impegno politico: giustizia mai senza amore
 
«Penso che oggi, forse più che di un impegno del cristiano in politica, dovremmo parlare di impegno politico del cristiano nel testimoniare l’incontro con Dio nella vita, secondo i princìpi del Vangelo. Anche prendendo posizione di fronte a decisioni importanti per tutti, senza fare il gioco di chi mira solo agli interessi propri o del partito. Io credo – e lei, padre, mi dica se sbaglio –, che sia determinante richiamare le coscienze alle responsabilità personali, impresa decisamente ardua in tempi di confusione. Bisogna indirizzare le proprie risorse nel vivere la realtà quotidiana, lasciandosi condurre da una logica improntata al dialogo e alla carità, sforzandosi di compiere fino in fondo la propria parte, mettendo in conto anche la possibilità del fallimento. Sono riflessioni che faccio spesso, e mi chiedo: sono giuste? E se sono giuste, perché non riescono a diventare motivo di impegno per ridare valori e speranza a una società che mi pare un po’ persa e confusa? Le comunità cristiane sentono questo problema?».
Lettera firmata
 
Già, le comunità cristiane sentono questo problema? A me sembra di no. O, forse meglio, non lo sentono abbastanza. Lei dice correttamente: più che di «impegno del cristiano in politica» dovremmo parlare di «impegno politico del cristiano». Dove sta la differenza? Nel fatto che non tutti si devono impegnare in politica, mentre tutti devono impegnarsi politicamente a vivere e testimoniare i princìpi del Vangelo. Uno di questi princìpi, sappiamo, è la giustizia: «Se la vostra giustizia – dice Gesù – non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20).
Di quale giustizia parlava Gesù? Ovviamente di una giustizia che scaturisce dall’amore. Un amore senza giustizia non ha gambe. D’altra parte, una giustizia senza amore non ha cuore. Sono modi di dire che ci ricordano una verità: giustizia e amore vanno sempre insieme. L’amore è l’anima della giustizia; la giustizia è il corpo dell’amore. Una politica degna di questo nome non dovrebbe mai dimenticare due cose: primo, norma fondamentale della società e dello Stato è il perseguimento della giustizia; secondo, il giusto ordine della società e dello Stato è compito della politica. Di una politica però – e qui rispondo alle sue domande – che non sia mera tecnica volta a plasmare e a far funzionare i pubblici ordinamenti, ma, in quanto animata dall’amore e protesa alla giustizia, rivesta una valenza etica che impegni, da una parte, i politici, dall’altra, ciascuno di noi a dare un volto concreto all’amore di Dio per tutti gli uomini.
Qui si situa anche il compito della fede, della Chiesa, della dottrina sociale cristiana in rapporto all’impegno del cristiano in politica e all’impegno politico dei cristiani. Per quanto riguarda questo secondo ambito che lei, caro lettore, ha sottolineato come prioritario, credo sia veramente urgente che le comunità cristiane continuino e, qualora il loro impegno si sia affievolito, riprendano a illuminare e a provocare le coscienze di tutti, tentando di aprire una breccia nel torpore che addormenta i sensi e le intelligenze.
Solo così si può rivitalizzare quello spazio civile o «pre-politico» – ambito del quotidiano si potrebbe dire – entro cui seminare e/o ricercare il seme del Vangelo mediante il volontariato, l’associazionismo di tipo culturale (quanto prezioso, di questi tempi, è il contributo critico della cultura!), il servizio educativo; e tutto questo, mi verrebbe da aggiungere, non da soli, ma insieme, credenti e non credenti, stimolati dalla coscienza a non ritirarsi negli spazi angusti e invisibili del proprio privato.
Senza dimenticare mai che anche nelle società più giuste l’amore è sempre necessario, poiché ci sarà sempre bisogno dell’amorevole dedizione personale a soccorso dell’umana sofferenza. E questo perché anche il più avanzato degli stati sociali non potrà mai surrogare quel di più di giustizia che è rappresentato dall’amore.
 
 
Il «Messaggero» torna a casa. Complimenti!
 
«Il “Messaggero”, dopo lunghi anni, è tornato a casa. Sono commossa. Ringrazio la persona che ha voluto fare l’abbonamento-dono a me e alla mia famiglia. D’un tratto ho rivisto intorno a me i nonni, il papà, la mamma e gli zii. Scopro un nuovo “Messaggero”, coraggioso in questi tempi difficili, che esaudisce le domande che mi faccio giorno per giorno. Ho un amico prezioso».
L. B.A.
 
Condivido la sua gioia, con un po’ di commozione.
 
Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017