Lettere al direttore

Per evitare fraintendimenti, le parole del Padre Nostro: non ci indurre in tentazione, vanno ben comprese.
16 Marzo 2006 | di

LETTERA DEL MESE

Padre, nella tentazione non lasciarci soccombere

«Dopo tantissimi anni, mi sono trovato, qualche mese fa, a riflettere sul significato di alcune parole che compongono la preghiera più bella che noi cristiani recitiamo: il Padre Nostro. Le confesso che, arrivato alle parole e non ci indurre in tentazione, mi è venuto spontaneo chiedermi: com'è possibile che noi domandiamo a Dio di non indurci in tentazione, quando sappiamo che Lui è misericordioso e desideroso del nostro bene? È come se considerassimo Dio un sadico, che gode nell'indurci nelle miserie della vita umana... Poiché è chiaro il significato di indurre..., penso che invece andrebbe detto non farci cadere in tentazione. Di fatto noi preghiamo Dio perché ci aiuti e ci sostenga (come in effetti fa) nella lotta che quotidianamente combattiamo contro il male».
R. L.
 
Vedo con piacere che si è già  incamminato da solo per la strada giusta intuendo che, a partire dal volto del Dio cristiano a noi rivelato nella vicenda storica di Gesù di Nazaret, che offre salvezza e apre cammini di libertà , non è per nulla conseguente dedurre l'immagine di un diosadico che gode nel farci cadere nella trappola di irresistibili tentazioni. Se questo fosse l'obiettivo di Dio, poveri noi! L'espressione «non ci indurre in tentazione», come lei ha ben evidenziato, può anche infastidire e dare adito a legittime obiezioni.
Bisogna sapere, però, che nel linguaggio semitico - povero di parole e quindi di sfumature - entrare in tentazione non significa semplicemente essere esposti ad essa, ma anche e soprattutto soccombervi. Il discepolo prega non tanto perché gli sia risparmiata la tentazione, quanto perché gli sia data la forza di superarla. Di per sé, comunque, Dio non tenta al male, come afferma chiaramente la lettera di Giacomo: «Nessuno, quando è tentato, dica: sono tentato da Dio; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male» (1,13); può invece mettere e di fatto mette alla prova l'uomo, per sondare il suo cuore. In Genesi 22,1 si legge: «Dio mise alla prova Abramo», che è nostro padre nella fede.
Se dopo il battesimo al fiume Giordano è il demonio a tentare Gesù (cfr. Matteo 4,1), per misurare la qualità  e lo spessore del suo messianismo, è anche vero che paradossalmente è lo Spirito Santo che conduce Gesù nel luogo della tentazione, che lo espone - se così si può dire - all'assalto del diavolo. Il Padre e lo Spirito, come attestano le Scritture, non sottraggono il credente dalla tentazione, ma offrono il loro aiuto perché egli la superi.
Spingendoci oltre, potremmo anche chiederci: di che tentazione si tratta? Semplificando un discorso complesso, anche perché legato alla diversità  dei tempi e dei luoghi, indichiamo tre ambiti nei quali in modo costante e pressante essa si fa presente. Al primo posto non può che essere collocata la «tentazione messianica», il fatto cioè di vivere la testimonianza e l'annuncio di Dio e del suo Regno appoggiandosi più a criteri mondani che sulla Parola di Dio; concretamente si tratta della pretesa di annunciare il Vangelo con criteri non evangelici, aggirando la croce e, conseguentemente, rifiutandosi di imboccare la via maestra del servizio. C'è poi la «tentazione della persecuzione» che colpisce e piega non solo i discepoli più fragili, ma anche e soprattutto i discepoli che presumono di sé, come accade a Pietro nella vicenda della Passione. C'è infine la «tentazione della quotidianità » ripetitiva e logorante, che spegne l'entusiasmo della prima ora, ostacolando l'ascolto in profondità  e verità  della Parola, distogliendo lo sguardo da ciò che è importante ed essenziale.
Per non cadere ed essere sostenuti nella tentazione, ecco allora la necessità  della preghiera fiduciosa al Padre. Chi è cristiano, ha a che fare con un Padre, e questo fa la differenza, anche nella preghiera.


 

Vedere Gesù in un barbone? Non ce la faccio

«Anche nella vostra rivista leggo spesso che dobbiamo vedere e accogliere Cristo negli altri. Io aggiungerei: purché non siano barboni o pezzenti maleodoranti. Non riesco, infatti, a vederlo in quelle persone, anche se Lui stesso ci ha insegnato a farlo. Gesù è fonte dell'amore, ma anche oggetto del nostro amore. Tuttavia, non mi riesce di immaginarLo sotto i cenci sgradevoli di un barbone. Una persona che amo sono pronto ad abbracciarla, ma non ce la farei ad abbracciare un pezzente. So che sbaglio, ma è più forte di me. Che debbo fare?» .
A. S.

Caro A., diciamolo francamente: non è facile per nessuno vedere Gesù in un barbone sporco, maleodorante, e tanto meno abbracciarlo con trasporto. Penso che istintivamente non ce la farei nemmeno io; forse, dico forse, mi lascerei andare ad un gesto così personale e coinvolgente se mi trovassi in un momento di particolare disponibilità . La storia ci racconta che san Francesco ha abbracciato un lebbroso, ma è anche vero che il suo gesto è da intendere anche, e soprattutto, per l'intenzionalità  che esprime, vale a dire il riconoscimento, sempre e comunque, della dignità  dell'essere umano, qualunque sia la sua condizione. Va inoltre ricordato che Dio non comanda a tutti le stesse cose, e soprattutto non comanda cose impossibili, cioè che superano le nostre forze.
Una riflessione va fatta anche in riferimento ai segni con i quali manifestiamo solitamente il nostro amore alle persone, l'abbraccio ad esempio. Forse che dovremmo abbracciare tutte le persone che amiamo? Penso di no. Amare significa anzitutto portare rispetto a una persona per quello che è, per la storia che ha vissuto, per i dolori e i fallimenti che hanno segnato questa storia unica e personalissima. Il linguaggio dell'amore, con le sue mille sfumature, è per fortuna così ricco da suggerire per ogni situazione l'atteggiamento più adeguato.
Ma veniamo al punto, a quello che lei chiama vedere e accogliere Cristo negli altri. A parte l'abbraccio, dunque, che può essere anche un gesto plateale senza poi un coinvolgimento corrispondente, la questione conduce alla domanda: chi o che cosa rende possibile il fatto che io possa vedere Cristo nel mio prossimo, soprattutto nei più poveri? Come si configura tale amore? Nella sua prima enciclica dal titolo Dio è amore, Benedetto XVI risponde che l'amore del prossimo enunciato dalla Bibbia e da Gesù consiste nel fatto che io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco o neanche conosco. Questo può realizzarsi solo a partire dall'intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà , arrivando fino a toccare il sentimento. Allora imparo a guardare quest'altra persona non più soltanto con i miei occhi e con i miei sentimenti, ma secondo la prospettiva di Gesù Cristo. Il suo amico è mio amico. Al di là  dell'apparenza esteriore dell'altro, scorgo la sua interiore attesa di un gesto di amore, di attenzione, che io non faccio arrivare a lui soltanto attraverso le organizzazioni a ciò deputate, accettandolo magari come necessità  politica. Io vedo con gli occhi di Cristo e posso dare all'altro ben più che le cose esternamente necessarie: posso donargli lo sguardo di amore di cui egli ha bisogno. Qui si mostra l'interazione necessaria tra amore di Dio e amore del prossimo, di cui la Prima Lettera di Giovanni parla con tanta insistenza. Se il contatto con Dio manca del tutto nella mia vita, posso vedere nell'altro sempre soltanto l'altro e non riesco a riconoscere in lui l'immagine divina. Se però nella mia vita tralascio completamente l'attenzione per l'altro, volendo essere solamente pio e compiere i miei doveri religiosi, allora s'inaridisce anche il rapporto con Dio (n. 18).
L'importante è rimanere collegati alla sorgente dell'amore, che è Dio, poiché tutto il resto viene come conseguenza, e questo vale sia per i piccoli che per i grandi gesti d'amore (che lo Spirito provvederà  a suggerire) nei confronti del prossimo.


Se Dio è misericordioso con tutti...

«Dopo aver letto alcuni libri che trattavano dei dieci comandamenti e della confessione, sto riscoprendo il valore e l'importanza del sacramento della riconciliazione. Ma mi è capitato anche di pormi alcune domande. Ad esempio: che differenza c'è tra peccato mortale e peccato veniale? Dio usa misericordia sia verso chi macchia la propria coscienza anche di colpe gravi e poi si pente, sia verso chi cerca di seguire sempre la retta via. Alla fine tutti e due si salvano, ma allora non le sembra che sia un po' comodo darsi ai vizi e alle trasgressioni, tanto poi ci si pente ed è comunque fatta! Un ultimo interrogativo: la salvezza coinvolge anche coloro che hanno vissuto prima che Dio mandasse suo Figlio per salvarci ?».
M. T.

Lei mi pone tre domande. Alla prima: che differenza c'è tra peccato mortale e peccato veniale?, rispondo dicendo che vi è la stessa differenza che passa tra il voler bene in maniera troppo o solo interessata e il voler male, tra il poco amore e l'odio, tra la poca attenzione all'altro e l'inimicizia, ecc. Il che significa che solo il peccato mortale toglie la grazia, rompe, cioè, la nostra relazione con Dio.
Perché allora parliamo di peccato anche in riferimento a ciò che non toglie la grazia e non rompe la nostra relazione con Dio? Per ricordarci che il peccato veniale non è una bagattella, ma è una realtà  da prendere molto sul serio, in quanto ha a che fare col peccato mortale e può portare ad esso. È come se una persona guidasse un'automobile spostandosi lentamente, ma progressivamente, verso la linea di mezzeria; proseguendo così finirà  con l'invadere la corsia opposta. È una persona ancora viva, ma è come se avesse deciso di morire. Comunque, si tratta di una manovra non mortale, ma tuttavia molto pericolosa.
Alla seconda domanda: non è un po' comodo darsi ai vizi e alle trasgressioni e poi verso la fine della vita pentirsi?, rispondo osservando che non solo è un po' comodo, come lei afferma, ma anche stupido e soprattutto rischioso. Chi si comporta male, infatti, danneggia anzitutto se stesso. Come quando uno si droga: non mette soprattutto in pericolo la vita degli altri, ma la propria. Aggiungerei, inoltre, avendo presenti i meccanismi innescati da un vita dissoluta, che non si è mai sicuri di poterne venire fuori, di trovare la forza per invertire la rotta, perché di questo si tratta quando si parla di pentimento morale e religioso. C'è da dire, poi, che la parola evangelica dei cosiddetti operai dell'ultima ora (cfr. Matteo 20,1-16), ci mostra il cuore stesso di Cristo, ed è incoraggiante per tutti noi. È una consolazione pensare che è possibile essere ripescati dalla grazia anche l'ultimo istante della vita.
Infine, per dare risposta alla terza domanda: la salvezza coinvolge anche coloro che hanno vissuto prima che Dio mandasse il suo Figlio per salvarci?, si potrebbero vedere molti testi biblici nei quali  si afferma che Dio non fa  preferenze di persona, di luogo o di tempo. Il che significa che la salvezza dipende dalla ricerca sincera di Dio, da come si vive, non dal luogo o dal tempo in cui si vive.


Disturbi alimentari e pensieri tristi

«Soffro di alcuni disturbi con il cibo che vorrei tanto superare, accettandomi finalmente per quella che sono. Desidero ritrovare equilibrio, colmare la frattura che mi pone in conflitto con la mia immagine, non essere più preda di pensieri tristi quando penso alla mia figura e credere di nuovo nel Signore e nella vita».
M. A.

La tua voglia di comprenderti meglio è lodevole. Infatti, comprendersi meglio è sempre un modo per poter rispondere alla chiamata di Dio con gioia ed essere nel mondo come Lui ci ha pensati. Purtroppo, però, i nostri desideri o le nostre domande sono a volte formulati in modo che non facilitano affatto una risposta. Mi spiego: il termine disturbi alimentari o il termine depressione sono oggi così abusati che finiscono col dire troppo poco. Infatti, li si usa spesso come primo risultato di una specie di autodiagnosi. Ad esempio: Io non mangio, o mangio tanto e disordinatamente. Ma queste affermazioni, purtroppo, non bastano a definire il quadro della situazione. Mancano di indicazioni fondamentali come: quanto mangi? in quali occasioni? con che risultati? quanto pesi e quanto sei alta? Ma anche qualora questi dati venissero forniti, la risposta facile e sicura su come e che cosa si debba fare non c'è. Va cercata con l'aiuto di uno specialista che, se è persona competente, potrebbe anche concludere che il vero disagio non consiste nel rapporto con il cibo! Molto spesso, ed è quanto voglio dire, le cause risiedono altrove, ed è lì che occorre intervenire più che sul sintomo.
Non avendo a disposizione le informazioni necessarie, quindi, mi è difficile offrirti qualcosa di più di alcune indicazioni generiche, e forse scarsamente utili. Posso suggerire due cose: anzitutto di ricorrere, se lo ritieni opportuno, a uno specialista con il quale cercare di dipanare la matassa e poi, per saperne di più, di leggere, ma solo come primo orientamento, un paio di libri: un agile volumetto di F. Do, I disturbi alimentari. Quando mangiare è un problema (Edizioni San Paolo), e per i tuoi pensieri tristi, indipendentemente da qualsiasi disturbo alimentare serio, di A. Grà¼n, Terapia dei pensieri (Queriniana, Brescia). Nelle indicazioni che la tradizione della Chiesa ci tramanda per la nostra guarigione spirituale, c'è veramente molta sapienza che può essere messa utilmente in pratica da chiunque.


Diritti umani sistematicamente violati

«Il governo della Cina, il Paese più popoloso del mondo con 1,3 miliardi di persone, ha imposto la sua politica di restrizione della natalità  nel 1979: il limite di un solo figlio nelle città  e due nelle zone rurali, con aborto obbligatorio per chi non rispetta le regole. Essendo di gran lunga preferito il figlio maschio, le bambine rappresentano le principali vittime della limitazione delle nascite. Non è possibile continuare a ignorare una simile tragedia».
M. S.

La politica coercitiva di limitazione delle nascite è stata più volte criticata. Durante la quarta conferenza dell'Onu sulle donne, che tra l'altro si è svolta, a Pechino nel settembre 1995, più voci si sono levate contro tale pratica, sia nelle sessioni ufficiali che in quelle delle Ong, addirittura da parte di organizzazioni femministe. Si è tenuta anche una manifestazione pubblica di donne tibetane che ritengono questa pratica dannosa per lo sviluppo delle minoranze etniche. Ma è tutto il sistema dei diritti umani e civili che, nella Cina Popolare, manca o è fortemente limitato.
A questo tema la nostra rivista ha dedicato, fra l'altro, un ampio articolo (cfr. I diritti umani, il lato oscuro della Cina, Messaggero di sant'Antonio marzo 2005).
Purtroppo, da allora, non ci sono stati passi in avanti. Il Paese rimane in testa alle classifiche dei governi, che  negano i diritti umani. Per quanto riguarda l'argomento sollevato dalla sua lettera, all'interno della stessa Cina si sono levate voci critiche. Il vicepresidente dell'Associazione della pianificazione familiare, Li Hongui, ha chiesto di rivedere l'attuale programma di limitazione delle nascite visto che, dal 2040 in poi, si prevede il raggiungimento di una natalità  zero e poi il declino. Ma il primo ministro, Wen Jabao, ha ribadito che il governo non intende cambiare linea. Ben vengano, quindi, le iniziative che testimoniano l'opposizione dell'opinione pubblica internazionale alle forme di pianificazione coercitiva delle nascite.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017