Lettere al direttore

Benedetto XVI, nella Giornata mondiale del malato, invita la pubblica opinione a riflettere sui problemi connessi col disagio mentale, che colpisce ormai un quinto dell'umanità.
20 Gennaio 2006 | di

LETTERA DEL MESE

In crescita il disagio mentale

«Sono un abbonato alla vostra rivista , che stimo molto. In particolare, ho apprezzato l'attenzione che in più occasioni avete prestato ai malati di mente. So per esperienza diretta quanti sono i problemi che devono affrontare i loro familiari, lasciati spesso soli a vivere situazioni difficili e complesse, sopratutto da quando la legge 180 ha chiuso i manicomi. Ma non è di questo che voglio parlarvi, perché so che lo spazio di una risposta non è sufficiente neppure per un primo elenco dei problemi. Voglio solo dire il mio grazie al Papa che quest'anno ha voluto dedicare la tradizionale Giornata mondiale del malato proprio ai malati di mente. Speriamo che l'evento non passi inosservato» .
Cornelio Massagrande - RI

La Giornata mondiale del malato, che da quattordici anni si celebra l'11 febbraio, giorno in cui la liturgia fa memoria della Madonna di Lourdes, questa volta punta i fari, per richiamare l'attenzione della pubblica opinione, «sui problemi connessi col disagio mentale, che colpisce ormai un quinto dell'umanità  e costituisce una vera e propria emergenza socio-sanitaria», come rileva Benedetto XVI nel Messaggio scritto per l'occasione. Lo scopo, ovviamente, è di «sollecitare l'impegno delle Comunità  ecclesiali a testimoniare la tenera misericordia del Signore» per chi in tale disagio è coinvolto e spesso intrappolato.
Il Messaggio fa luce su un problema vivo e sentito anche nel nostro Paese, tant'è vero che da più parti (e lo ha fatto di recente anche il ministro della Salute Francesco Storace) si chiede che venga rivista la legge Basaglia o, quanto meno, valutato il modo con cui è stata applicata. È risaputo che non sempre alla chiusura dei manicomi (come allora si diceva) è seguita l'attivazione di quei servizi che avrebbero dovuto accompagnare le persone in situazione di sofferenza psichica in un percorso di recupero e di inserimento all'interno di strutture adeguate, e sostenere le famiglie delle stesse nel non facile compito di garantire le cure appropriate. Si tratta di una discussione riaccesasi da poco, ma che speriamo abbia significativi sviluppi entro l'alveo di un'attenzione e di un impegno in forte crescita.
Ma se in Italia la situazione è difficile, in tanti Paesi è addirittura drammatica, per non dire insostenibile. In essi «non esiste ancora una legislazione in materia - scrive ancora il Papa -, manca una politica definita per la salute mentale», mentre i servizi «risultano carenti, insufficienti o in stato di disfacimento».
Il problema coinvolge un numero crescente di persone. A spingerle nel disagio mentale, come evidenzia il Papa, sono sia il prolungarsi di conflitti armati, sia il succedersi di immani catastrofi naturali, sia il dilagare del terrorismo, realtà  che «oltre a causare un numero impressionante di morti, hanno generato in non pochi superstiti traumi psichici, talora difficilmente recuperabili». Nei Paesi più ricchi, invece, le nuove forme di malessere mentale sono da attribuire anche all'«incidenza negativa della crisi dei valori morali», che «accresce il senso di solitudine, minando e persino sfaldando le tradizionali forme di coesione sociale, ad iniziare dall'istituto della famiglia, ed emarginando i malati, particolarmente quelli mentali, considerati sovente come un peso per la famiglia e per la comunità ».
Ma è lo stesso contesto sociale, a volte, a non accettare le persone in situazione di sofferenza psichica con le loro limitazioni, e a rendere, quindi, più difficile il reperimento delle necessarie risorse umane e finanziarie a loro favore. Da qui la «necessità  di meglio integrare il binomio terapia appropriata e sensibilità  nuova di fronte al disagio ».
Infine, il Papa raccomanda agli operatori pastorali, alle associazioni e organizzazioni del volontariato «di sostenere, con forme ed iniziative concrete, le famiglie che hanno a carico persone malate di mente», e per queste auspica «che cresca e si diffonda la cultura dell'accoglienza e della condivisione, grazie pure a leggi adeguate e a piani sanitari che prevedano sufficienti risorse per la loro concreta applicazione».

 

LETTERE AL DIRETTORE

Mia figlia e l'oratorio che non c'è più

«Ho assistito alla prima serata del gruppo adolescenti e sono un po' scombussolata, perché ho visto mia figlia quattordicenne in una realtà  molto grande, diversa rispetto all'anno scorso. Gli animatori, poi, non avevano tanti anni più di lei e io pensavo necessario l'intervento di un sacerdote. Ho molta fiducia in mia figlia, ma, dopo aver sentito certi discorsi, non so se fidarmi degli altri. Sto sbagliando?
Non vedo più l'oratorio di una volta. Non so se lì affrontino certi argomenti oppure se siano solo un gruppo di amici che si ritrovano in quel luogo invece che al bar. Forse sono esagerata, ma questa volta mi trovo dalla parte della mamma e non della figlia
...» .
Maria Rita

I figli crescono e spesso non hanno la fortuna di avere genitori attenti e sensibili come lei (e immagino suo marito), che si accorgono dei passaggi della vita e cercano di cambiare i propri atteggiamenti. Non perché prima abbiano sbagliato, ma perché il figlio che da bambino diventa adolescente richiede attenzioni paterne e materne le quali, per poter continuare a essere corrette, devono cambiare.
Cambiano però anche i tempi storici in cui i figli vivono. Sono d'accordo con lei che l'oratorio non è più quello di una volta e, in ogni caso, non è più quello che noi adulti abbiamo conosciuto per il solo fatto di averlo frequentato negli anni della giovinezza.
Ecco allora che le sue domande possono trovare una risposta corretta solo nel confronto tra le valutazioni sue e, poniamo, quelle di suo marito e, più in generale, nel confronto tra un gruppo di genitori che conoscano la realtà  specifica e che, uniti dalle stesse preoccupazioni, si scambino quanto apprendono dai figli aiutandosi a darne una valutazione serena e non allarmistica.
Del resto, lei non spiega come mai ha potuto assistere alla prima serata del gruppo adolescenti: era forse un incontro programmatico con i genitori? Ha potuto chiedere se dietro a questi generosi giovanissimi animatori ci sia la presenza del prete e di formatori adulti, come mi sembra di poter arguire? Mi auguro che genitori attivi come lei trovino anche il tempo per «contribuire» alla vita dell'oratorio. Una madre che, non invadendo il campo della figlia adolescente, ritiene di po-ter dare una mano o nell'insegnamento del catechismo o, con qualche collaborazione, nelle attività  dell'oratorio, avrà  molte più opportunità  di venire a contatto con il mondo giovanile e di poterne trarre interessanti motivi di confronto.


Combattere il razzismo già  in famiglia

«Mi ha colpito molto, alcune domeniche fa, quel giocatore del Messina che, impossessatosi del pallone, voleva far sospendere la partita, stanco dei cori razzisti e degli insulti che i tifosi della squadra avversaria continuavano a lanciargli contro. La stupidità  di certa gente sembra non avere limiti.
«Che cosa bisognerebbe fare, secondo lei, perché cresca una società  nuova, che accetti le differenze, la convivenza pacifica con gente diversa ma ricca di una propria cultura, in grado di darci qualcosa di buono? Non si potrebbe cominciare già  in famiglia, finché i figli sono piccoli, e nella scuola? È difficile, capisco, ma bisogna pur fare qualcosa che non sia occasionale, come sospendere una partita. Che ne dice?».

Mauro C. - Orvieto

Ha ragione. Episodi come quello di Messina sono inaccettabili, tanto più perché provengono da un mondo, lo sport, che dovrebbe essere portatore di ben altri valori. Saprà  certamente che gli autori di quei cori razzisti sono stati individuati e puniti con cinque anni di esclusione dai campi di calcio. Giustissimo, ma forse bisogna andare oltre e più a fondo nella questione.
Dobbiamo innanzitutto riconoscere che imparare a convivere con altre culture è difficile. Essere «buonisti», cioè non vedere o sottovalutare effettive situazioni di difficoltà  e di disagio, non serve. Comporta anzi qualche rischio, come quello di «piallare» le differenze e di alimentare, da un lato, i nostri sensi di colpa quando non è facile accettare il diverso e, dall'altro, il nostro orgoglio quando ci consideriamo «buoni» mentre abbiamo fatto solo quello che è giusto.
Cerchiamo, poi, di leggere in profondità  la lezione della storia: le culture che hanno saputo confrontarsi con altre sono progredite e, anzi, si sono rafforzate; le culture che, al contrario, si sono chiuse in se stesse, si sono impoverite e, a volte, sono anche scomparse. Vale a dire: aprirci «all'altro» conviene prima di tutto a noi, perché ci arricchisce e ci fa crescere, provoca e stimola la nostra identità .
Oggi i nostri bambini studiano, giocano, si rapportano quotidianamente con altri bambini, figli di migranti. Il loro atteggiamento è strettamente dipendente da quanto hanno appreso in famiglia o a scuola. «La famiglia - scrive Agostino Portera nel bel libro Educazione interculturale in famiglia (Editrice La Scuola) - è l'ambito privilegiato in cui provare che ci si può percepire come diversi ma uniti all'interno di un gruppo. (...) La riscoperta del valore del dono, in ambiente domestico, permette a tutti i componenti di aprirsi all'altro, anche se estraneo, diverso o, all'apparenza, minaccioso, aggiungendo alla dimensione egocentrica e infantile dell'io quella del tu, svelando il vero volto dell'altro, e quella del noi.
La famiglia è anche il luogo privilegiato in cui combattere i pregiudizi che si acquisiscono nei primissimi anni di vita. È soprattutto in famiglia che, attraverso i processi di identificazione con le figure di riferimento, i bambini possono sviluppare un pensiero chiuso, rigido e prevenuto, o, al con-trario, aperto e tollerante. Ed è sempre in famiglia che si comincia ad apprendere una sana educazione religiosa, che trasmetta valori importanti quali l'accoglienza, l'attenzione all'altro, la riscoperta del volto di Dio proprio in chi ci vive accanto, al di là  del colore della pelle o di altre connotazioni etniche.


Ci dispiace dover ricoverare la nonna malata

«Quando ci siamo sposati, ho accettato di buon grado la presenza in famiglia della suocera, rimasta vedova da poco. Posso dire che, nonostante inevitabili difficoltà , l'esperienza è stata positiva, soprattutto per i nostri figli, che sono cresciuti accanto alla nonna, alla quale sono attaccatissimi, facendo spesso tesoro della sua esperienza.
«Ora la nonna si è ammalata seriamente, e io stessa non sto troppo bene, per cui non sono più in grado, nonostante qualche aiuto esterno, di provvedere a lei. Si prospetta quindi la necessità  di ricoverarla in una casa di riposo, ma abbiamo mille scrupoli. Ci pare di tradirla, di abbandonarla proprio nel momento in cui ha maggiore bisogno di noi».
Antonietta C. - Caserta

Accogliere nella propria famiglia, quando le condizioni lo permettono, i nonni bisognosi di cure e di affetto, è un segno di coraggio e di maturità .
Le difficoltà  di certo non mancano, perché ogni giorno si è chiamati a fare i conti con diversità  di esigenze, di mentalità , di risorse, di diritti e doveri... che bisogna cercare di conciliare al meglio.
Fare questo, però, non è solo fatica, ma aiuta a maturare un maggiore equilibrio, a far crescere la capacità  di confrontarsi con gli altri.
A trarne i maggiori vantaggi sono proprio i figli, non solo per la quantità  e lo spessore delle attenzioni e dell'affetto che i nonni sono soliti riversare sui nipoti, ma, soprattutto, per l'opportunità  di attingere alle risorse di esperienze, di umanità , di saggezza, di semplicità , di tenerezza che i nonni hanno accumulato nel tempo. Direi che anche la loro debolezza e fragilità  finiscono con il trasmettere importanti messaggi.
Quando i nonni, poi, se ne vanno, o per sempre o perché le circostanze impongono un più adeguato contesto (per l'aggravarsi del quadro clinico o altro), è cocente il senso di vuoto e di sgomento provocato dalla loro assenza.
Capisco allora tutti i suoi scrupoli, la sua riluttanza a staccarsi dalla mamma di suo marito - che è sempre stata in casa una presenza discreta e preziosa - per trasferirla in un ambiente più adeguato alle sue attuali esigenze, ma inevitabilmente lontano e a lei  estraneo.
Non conoscendo a fondo la vostra situazione, non sono in grado di suggerirvi che indirizzo dare alle vostre scelte. In questi casi, i sentimenti e l'affetto devono fare un passo indietro rispetto ad altre valutazioni di tipo medico, assistenziale e logistico.
Comunque, l'importante (e sono convinto che farete del vostro meglio) è non far mancare alla nonna affetto e attenzioni, assicurandovi sempre che nulla le manchi, soprattutto in termini di qualità  della vita.
È questa per voi una nuova sfida: siete chiamati a rilanciare con rinnovata consapevolezza la vostra disponibilità , per altro sempre manifestata, e a rimettervi in gioco in una tappa ulteriore del vostro camminare insieme come famiglia di persone che si vogliono bene.


Io lo amavo ma lui s'è preso gioco di me

«Da qualche giorno mi sveglio sempre con il pensiero fisso su quella persona che mi ha lasciato. Mi viene da piangere, perché ho buttato via otto mesi della mia vita a illudermi di aver incontrato un tipo adorabile, che ora invece detesto.
«Mi domando il senso di questo incontro, che cosa il Signore abbia voluto trasmettermi con questa esperienza. Penso e ripenso, senza giungere a una conclusione soddisfacente. Ho provato dei sentimenti di amore, amicizia e tenerezza verso una persona che forse si è solo presa gioco di me...
«Ho sbagliato a volergli bene? Sono da tutti considerata una brava e bella ragazza, seria, onesta, forse troppo ingenua. Lui è pieno di problemi, diverso da me per cultura e altro, e non è il classico bravo ragazzo. Sono delusa e vedo il futuro difficile».
Paola

Cara Paola, sei comprensibilmente delusa per una relazione fallita. Pensi di aver sprecato tempo e non capisci come possa essere finita male, visto che «sulla carta» c'erano parecchi ingredienti «giusti». Mi chiedi che cosa il Signore vuole comunicarti con questa esperienza. Non è facile risponderti!
Molto probabilmente non esiste «la risposta», e da parte mia posso dirti solo quello che mi sembra di cogliere tra le righe della tua lettera.
Le cose del cuore, come quelle della vita in genere, spesso non corrispondono alle nostre aspettative.
La spaccatura tra realtà  e desiderio crea dolore, sofferenza intensa, ma può anche aiutarci a riflettere, a capire qualcosa in più di noi stessi e degli altri.
Dal tuo scritto emergono molti aspetti positivi: tu sei pronta a vivere una relazione profonda e capace di andare oltre il senso comune, amando una persona che altri giudicano non adatta a te, perché troppo problematica e distante dal tuo mondo per cultura e stile di vita.
Pensavi, e forse lo pensi ancora, che la tua capacità  di andare oltre il senso comune avrebbe dovuto premiarti con un successo, e forse ti aspettavi dal tuo «lui» riconoscimento e amore anche per questo.
Ma la vita non è una scienza esatta, non funziona, cioè, secondo precisi e prevedibili schematismi.
Conoscere, non solo a parole, questa semplice e difficilissima verità , ci aiuta a guardare alla vita con occhi diversi, ci sprona a non subire passivamente ciò che ci accade, ci abitua a cadere e a rialzarci, a scoprirci capaci di dare sempre e comunque senso a ogni evento.
Sono convinto che anche in questo dolore c'è il Signo-re che ti chiama. Poiché ti vuole bene, ti chiede di non far-ti bloccare dalla sofferenza che ora ti amareggia e ti inquie-ta, di cercare la cono-scenza di te stessa, la tua voca-zione più autentica e profon-da che in questo momento passa certa-mente per cam-mini di libertà .

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017