Lettere al direttore

22 Settembre 2005 | di

Si può essere atei in buona fede?
«Poiché sono uno che non ha paura di professare pubblicamente la sua fede, parlando con gli amici spesso il discorso cade su Dio, specialmente con un gruppetto di compagni (moralmente assai disinibiti) che dichiarano di essere atei.
E portano come argomenti, decisivi secondo loro, il dolore umano, gli errori della Chiesa, Dio visto come giudice spietato, ecc.
Io rispondo con altri argomenti che mi paiono del tutto convincenti; ne ottengo solo qualche risolino sardonico e di commiserazione. Mi chiedo se sia possibile che il rifiuto di Dio  possa avvenire in buona fede».
Mariolina - Macerata

In un documento importante del concilio Vaticano II è scritto che alcuni uomini «si immaginano Dio in un modo tale, che quella rappresentazione che essi rifiutano in nessun modo è il Dio del vangelo» (Gaudium et spes 19).
Come vede, ci possono essere persone che rifiutano Dio in buona fede, perché di fatto non rifiutano Lui ma una sua immagine deformata.
Pensi, perciò, a quanta responsabilità  abbiamo nel testimoniare la vera immagine di Dio, che non è quella di un giudice implacabile ma dell`€™amore che si dona, del bene, della vita, della bellezza e della vera gioia.
Però, occorre dirlo, si può anche di proposito alterare l`€™immagine di Dio per poi prenderla come alibi, più o meno conscio, quando non si abbia la voglia di intraprendere la via di quella rettitudine morale che Egli ci chiede.
Ma alla fine solo Dio, che legge nel profondo del cuore dell`€™uomo, può sapere dove finisce la buona fede e inizia l`€™accecamento. Rimane comunque certo il fatto che esiste un rapporto stretto tra volontà  di bene e apertura al divino.
Quei risolini di commiserazione dei suoi amici, poi, ci pare che nascondano il disagio di mettersi in discussione e la volontà  di interrompere la comunicazione.

Il portafortuna: qual è il vero problema?
«Da buon napoletano sono abituato a girare con addosso un portafortuna, e un braccialetto di rame, nella speranza che questi oggetti, come molti ritengono, attirino le energie positive e respingano quelle negative. Ma da cristiano ho spesso il dubbio che possa essere un peccato. Che ne dice?».
C. R. - Napoli

È proprio vero: quello che non si conosce a volte ha più seguaci di quel che si conosce.
Nel caso nostro, lo «sconosciuto» è dato dalle energie positive e negative che portafortuna, braccialetti di rame e quant`€™altro dovrebbero attirare su di noi o allontanare da noi.
Ma chi ne sa qualcosa? Chi può portare prove certe dei miracolosi effetti che i venditori di tali aggeggi promettono? Per me, francamente, nessuno. Eppure, è molto grande il numero di chi si affida ad essi.
È peccato, mi chiede, credere che un oggetto abbia qualità  magiche? Io considererei la cosa da un punto di vista diverso, quello dell`€™insicurezza, dell`€™ignoranza ma anche del bisogno di credere in qualcosa o in qualcuno che può aiutare.
Ed è curioso che questo avvenga in un momento in cui molti stanno girando le spalle a quel «qualcosa», a quel «qualcuno» che l`€™aiuto richiesto lo può dare davvero, cioè la religione e Dio... Il fatto desta interrogativi, suscita esami di coscienza importanti che non è qui il caso di affrontare.
Allora, se il problema è quel che si diceva, perché non affrontarlo di petto, magari intraprendendo una catechesi, un cammino di fede che porti a conoscere meglio Gesù Cristo?
Nella fede in lui potremo trovare quella sicurezza, quella forza interiore, quel ristoro che si va cercando nelle cose, anche banali, senza alcun risultato.
Tenga conto, infine, che  in ogni caso l`€™amuleto rende schiavi e deresponsabilizza mentre la vera fede libera e impegna.

Giusto espellere coloro che seminano odio
«Ho letto con soddisfazione che hanno cacciato dal nostro territorio alcuni imam che nelle moschee aizzavano i loro fedeli musulmani all`€™odio contro gli occidentali e reclutavano volontari per le bande che seminano terrore in tutto il mondo. Pensa che abbiano fatto bene a cacciarli? Non sarebbe meglio allontanare tutti i musulmani la cui presenza rischia di soffocare la nostra identità  cristiana?».
Antonio C. - Cremona

Sono stati gli stessi musulmani a dire che le autorità  italiane hanno fatto bene ad espellerli, almeno quelli moderati che non tollerano campagne di odio, di violenza e di morte ingaggiate nel nome di Dio.
Lo ha affermato, ad esempio, l`€™ayatollah Mohammad Mousavi Boujnourdi, esponente del Centro studi islamici Imam Khomeini di Teheran, in un`€™intervista a Marco Tosatti de «La stampa».
Egli ha anche auspicato che queste misure vengano applicate a livello internazionale. «Un vero uomo di religione `€“ ha aggiunto `€“ predica sempre l`€™unione fra i popoli, si sforza di predicare l`€™amore, incita la gente a volersi bene, gli uni con gli altri. Se invece uno comincia a predicare cose negative, comincia ad aizzare la gente, a risvegliare sentimenti di odio, e comunque incita al disordine e al disturbo, non può essere considerato un uomo di religione. Quindi la legge che è stata approvata in Italia da questo punto di vista è più che giusta».
Quanto agli altri musulmani che sono in Italia, se essi lavorano e non creano problemi di ordine pubblico, non vedo quali motivi possano giustificare la loro espulsione.
E poiché la loro presenza tra noi è destinata a protrarsi nel tempo, credo che la sola via precorribile sia quella del dialogo per raggiungere una convivenza che risulterà  alla fine arricchente per tutti.
Ovviamente senza ingenuità  e deroghe al rispetto della legge.
C`€™è anche da dire che, dal punto di vista della fede, è nel dialogo che si matura la propria identità  cristiana, non con l`€™ignorarsi o con le contrapposizioni che generano solo rancore e odio.

Scorretto trasmettere la fede ai figli?
«Una vicina di casa non ha voluto battezzare i propri figli e quasi quasi ci rimprovera perché noi lo abbiamo fatto perché crediamo sia un nostro dovere trasmettere loro la fede.
«Per lei, invece, dovrebbero essere i figli a scegliere, più tardi, in modo autonomo e consapevole».
Caterina C. - Ragusa

Per noi cristiani la fede è un modo di leggere e vivere la realtà  e non si capisce perché i genitori impegnati a far conoscere ai figli tutto quello che c`€™è e succede intorno a loro, su una cosa così importante dovrebbero tenere la bocca cucita.
Se un genitore pensa che la fede sia un bene per i figli perché non dovrebbe trasmettergliela? Seguendo la logica di una rigida neutralità , non potremmo scegliere per loro nulla, neppure i vaccini o la scuola da frequentare. Ciò naturalmente non toglie al figlio la possibilità  di scelte diverse quando sarà  più maturo.
Oltre a questa considerazione fondamentale, vi sono altri motivi profondi di carattere psicopedagogico. Nell`€™uomo, ad esempio, è vivo il bisogno di avere un «quadro di riferimento» totale, che coinvolga nella spiegazione della realtà  anche l`€™eterno e il trascendente.
Che senso ha, allora, rimandare nel tempo l`€™appagamento di tale bisogno?
I genitori hanno poi il dovere di aiutare il bambino a crescere nella coscienza del bene e del male, che germoglia spontaneamente in lui, ma è (come tutti i bisogni più elevati) molto fragile e facilmente soffocabile da cattive tendenze. Se quindi non viene facilitato `€“ e nessuno può farlo meglio dei genitori `€“ l`€™esplicito ancoraggio della coscienza del bambino all`€™Assoluto, egli crescerà  con uno scarso riferimento al mondo dei valori trascendenti.

Mio figlio non meritava una croce così
«Mio figlio ha ventiquattro anni e da dodici è costretto sulla sedia a rotelle, perché affetto da distrofia muscolare. Le forze sono venute meno e ora sfoglia le pagine dei libri, scrive e mangia solo col nostro aiuto. Gli manca poco per laurearsi in giurisprudenza...
Io continuo a chiedere facendo novene a questo o a quel santo, ma ho perso la speranza di ricevere la grazia e mi domando se sia il sintomo della rassegnazione.
«Quando prego chiedo al Signore di non farlo peggiorare, perché Daniele non merita tutto questo. E subito dopo ricordo che non sono i meriti il lasciapassare per i miracoli.
Tuttavia, per una qualche ragione avvengono. Io e mio marito siamo insieme da venticinque anni e questo è già  un piccolo miracolo, come pure il fatto che Daniele non sia un disperato».
Elena - Forlì

Ventiquattro anni e da dodici sulla sedia a rotelle. Daniele non meritava una croce così, ha mille buone qualità , perché proprio a lui? Se lo chiede lei stessa quasi indignata. Ma poi corregge il tiro e afferma che nessuno è abbastanza malvagio da meritare per «castigo» una malattia grave come la distrofia muscolare? Tanto meno suo figlio.
Così, per uscire da questo che può sembrare un capriccio del destino si è affidata ai santi: preghiere e sacrifici che hanno avuto l`€™unico risultato di deprimerla ancor di più.
Eppure, i miracoli avvengono. Lo afferma lei stessa verso la fine della lettera, facendo affiorare tra le righe tracce di salvezza. Il miracolo è che dopo venticinque anni di matrimonio lei e suo marito siete ancora insieme e, soprattutto, che suo figlio Daniele, nonostante i gravi limiti fisici, «non è un disperato».
Forse è questo il vero miracolo, frutto delle preghiere.
Rassegnata? Direi che lei sta compiendo il passo più importante, che la porta a fidarsi di Dio, nonostante tutto. È il salto della fede. La rinuncia a spiegare tutto. Il coraggio di riconoscere un senso a ciò che sembra non averne, a ciò che non è in linea con le proprie speranze.
I misteri della vita sono più grandi di noi ed è veramente «sapiente» colui che, sia pur col groppo in gola, accetta il nuovo giorno come un dono.

Conciliare lavoro e vita familiare
«Mia moglie si lamenta di continuo perché, secondo lei, sono poco presente in casa e poco disponibile a parlare con lei e con i figli, per educarli. Quando si ha un lavoro in proprio (sono un piccolo artigiano) l`€™impegno quotidiano è continuo e le preoccupazioni tante, soprattutto oggi con la crisi che c`€™è, anche se devo dire che non manca la fede nella Provvidenza».
Antonio - Mantova

Il momento certamente non è facile. Portare avanti un piccolo laboratorio tra le secche di una crisi richiede un impegno che non lascia spazio ad altro. È dal lavoro che si traggono le risorse per vivere.
Ma anche la famiglia ha le sue esigenze, che non sono secondarie.
Sarebbe cosa saggia, smesso il lavoro, lasciare per quanto possibile le preoccupazioni fuori dalla porta di casa e dedicarsi ai propri cari in un clima di serenità , di dialogo e di condivisione.
Più facile a dirsi che a farsi. Però ne vale la pena, affidandosi un pò di più alla Provvidenza.
Scoprire ad un certo punto della vita che i figli sono cresciuti, magari anche male, senza di noi, perché noi avevamo altro da fare, è un grande smacco per ogni genitore.
E riteniamo che sia un`€™esperienza da evitare per sé e per i propri figli.

LETTERA DEL MESE

La speranza cristiana una virtù in contropiede

Il cristiano è impegnato, e più di altri, a trasformare il mondo, ma lo fa da una prospettiva diversa: guarda (e vive) la storia più dalla fine che dall`€™inizio, più dal futuro che dal presente...

«Ci dicono che quello cristiano è un messaggio di speranza, che la speranza cristiana ci induce a sperare al di là  di ogni più tetra realtà  perché alla fine sarà  il bene a vincere.
«Ma io in giro non colgo motivi per cui sperare, o meglio sono sempre più frequenti e micidiali i colpi bassi inferti alla mia speranza. Non occorre che passi ad enumerarli, perché penso che ognuno capisca di che cosa parlo. Ma allora che cos`€™è e su che cosa si fonda questa speranza cristiana?».
Lettera firmata

Sì, effettivamente ogni elencazione è superflua: guerre in corso, calamità  ricorrenti, miseria e ingiustizie endemiche unite all`€™eterna invincibile stupidità  dell`€™uomo fanno del nostro un tempo poco felice. Ammesso che ve ne siano di tempi felici.
Comunque altri elementi più diretti, come la crisi che sta togliendo fiato alla nostra economia e risorse alle famiglie, le paralizzanti contrapposizioni politiche e un terrorismo gravido di minacce aumentano il clima di insicurezza e di delusione. In questo contesto, la speranza cristiana diventa un bene prezioso da vivere e da proporre.
Sia chiaro: la speranza cristiana non è il frutto di un ottimismo ingenuo, svagato o sconsiderato, è invece una virtù «forte», che ha profonde radici nella realtà , si nutre della realtà  senza lasciarsi paralizzare da essa.
Nei catechismi è detta virtù «teologale» perché, assieme alle omologhe fede e carità , ha per oggetto e fondamento direttamente Dio.

Charles Péguy da fantasioso scrittore, e credente, la chiamava invece «la virtù in contropiede».
Scriveva: «La giovane e piccola speranza. Essa è essenzialmente la contro-abitudine. E così essa è diametralmente e assialmente, e centralmente la contro-morte. Essa è la fonte e il germe. Essa è lo sgorgare e la grazia. Essa è il cuore della libertà . Essa è la virtù del nuovo e la virtù del giovane.
E non invano essa è teologale ed è la principessa stessa delle teologali e non invano essa è al centro delle teologali, perché senza di essa la Fede scivolerebbe sul rivestimento dell`€™abitudine; e senza di essa la Carità  scivolerebbe sul rivestimento dell`€™abitudine. È soprattutto essa che garantisce alla Chiesa che non soccomberà  sotto il proprio meccanismo».

Le suggestive riflessioni dello scrittore francese pongono la speranza nella sua giusta dimensione, cioè nel dinamismo di una vita spirituale tesa verso il futuro di Dio, verso la beatitudine eterna, che è, per san Tommaso d`€™Aquino, la cosa più alta che l`€™uomo possa desiderare.
La sostanza della speranza cristiana è allora in questo avere sempre davanti agli occhi il futuro di Dio.
Il che non fa del cristiano uno che «guarda oltre», estraneo al difficile presente in cui vive e all`€™imperativo categorico dell`€™amore fraterno che gli impone di coltivare il più possibile a beneficio di tutti i beni di quaggiù. Egli va oltre ogni realizzazione solo terrena e tiene la rotta su quanto è eterno, sui beni dell`€™adilà .
Insomma, il cristiano è impegnato, e più di altri, ma da una prospettiva diversa: guarda (e vive) la storia più dalla fine che dall`€™inizio, più dal futuro che dal presente.
Questo fa diventare il cristianesimo stesso speranza, movimento in avanti, forza di trasformazione del presente.

La speranza cristiana diviene allora la scelta fondamentale: in essa il cristiano interpreta il senso ultimo della sua esistenza, che lo porta a non considerare qualsiasi idolatria presente.
La speranza, insomma, fa tenere lo sguardo diretto sempre verso l`€™alto ove intravedere il futuro di Dio.
Scriveva ancora Péguy che la speranza sta in mezzo, tra fede e carità , più per trascinare che per essere trascinata: «È essa, la speranza, che tutto con sé trascina. La fede, infatti, vede solo ciò che è. Essa invece vede ciò che sarà . L`€™amore ama solo ciò che è, essa invece ciò che sarà  nel tempo e per l`€™eternità ».

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017