Lettere al Direttore

Quello che il lettore pone è un problema drammatico e più che mai attuale, anzi nuovo, in qualche misura.
02 Aprile 2003 | di

Lettera del mese

Che ci fanno i cappellani militari in un esercito di professionisti?

«Una volta l`€™esercito, non solo quello italiano, aveva una duplice finalità : difendere i cittadini e il `€œsacro`€ suolo della patria da eventuali attacchi provenienti dall`€™esterno; era un esercito di difesa. Ora la sua finalità  è profondamente mutata: è quella `€œdi intervenire dovunque gli interessi del paese lo richiedono`€œ (vedi la guerra di  Bush contro l`€™Iraq). Così, infatti, recita lo statuto del Nuovo Modello di Difesa. È formato da soldati, non più `€œdi leva`€, ma da `€œvolontari`€ che liberamente scelgono questo `€œmestiere`€. Non sarebbe giunto il momento in cui la Chiesa riveda la presenza di questi ultimi nei nuovi modelli di eserciti?».
Don Gennaro Somma - Castellammare di Stabia

Come Lei nota, l`€™esercito di un tempo era un esercito di leva, cioè costituito da giovani obbligati al servizio militare e, se lo Stato lo decideva, alla guerra. Non potevano rifiutarsene, a meno di subire gravissime sanzioni; a loro si aggiungevano, in caso di conflitto, adulti (talvolta padri di famiglia) «richiamati alle armi». Dalla grandissima maggioranza di queste persone la vita di caserma e (molto di peggio) quella al fronte era considerata una dolorosa esperienza, tanto più dolorosa se si doveva rischiare di essere uccisi o di uccidere per non essere uccisi.
Accanto a questi uomini «obbligati» a usare le armi, stavano i cappellani militari, sacerdoti autorizzati dalle Forze Armate a vivere con la truppa. Molti di questi preti e frati, per non lasciare il loro gregge (gli uomini che consideravano la guerra come una sanguinosa fatica imposta dai potenti o, tutt`€™al più, una tragica necessità ), condividevano i rischi delle trincee e delle battaglie, rischiando la vita e, non raramente, perdendola. La loro presenza dava ai soldati un po`€™ di calore. Era come se il Cristo stesso li aiutasse a portare una croce pesante, li assicurasse che, nonostante il sangue versato o che essi stessi facevano versare, c`€™era pur sempre in loro una scintilla di umanità , che li portava almeno a non incrudelire sui prigionieri e sulle popolazioni coinvolte nei conflitti; e quando morivano sui campi di battaglia o negli ospedali, il cappellano garantiva loro la speranza di una vita nuova dopo tanto soffrire, donava loro il conforto dei sacramenti.
La guerra è cambiata. La sua tecnologia e la sua strategia compongono ormai una tragedia diabolica: non sono più i combattenti a morire, sono, in grande maggioranza, i civili, cioè le donne, i vecchi e i bambini. Le distruzioni sono immani. Le guerre non finiscono più con gli armistizi. In Vietnam nascono ancora bambini mostruosi a causa delle irrorazioni di defolianti. In Iraq, dopo la guerra del Golfo, i bambini hanno cominciato a morire anche perché erano stati distrutti i depuratori idrici. Le testate a uranio impoverito continuano a uccidere non solo nel Kosovo e nell`€™Iraq, ma anche nelle case dei reduci. Si teorizza la «guerra preventiva», cioè lo scatenamento della violenza contro Paesi nemici che potrebbero usare le armi. Dal Papa e da molti episcopati sono venute solenni dichiarazioni: una guerra del genere è una guerra di aggressione, ma poi tutte le guerre sono moralmente illecite. Come ha insegnato papa Giovanni, quarant`€™anni fa, le guerre sono assurde, irrazionali.
Anche l`€™esercito è cambiato. Non è più di leva, è fatto di «professionisti» che scelgono liberamente il mestiere delle armi. Svolgono abitualmente un servizio pubblico in difesa del territorio nazionale, o sono impegnati in interventi internazionali di pace. Vanno dunque considerati con rispetto.
Qui si impone, ci sembra, una doverosa distinzione tra esercito impegnato in una guerra, di offesa e quindi inaccettabile, ed esercito impegnato in difesa del territorio e in altre missioni che hanno fini pacifici. Nel primo caso, la presenza di un cappellano è quanto meno problematica. Nel secondo, ci sembra di no. Essi possono svolgere, in divisa o meno, il tradizionale compito di assistenza spirituale e di vicinanza a persone che forse non hanno scelto l`€™esercito per diventare macchine di distruzione e di morte.

Ci sono albanesi buoni e albanesi cattivi`€¦

«Sono uno studente universitario albanese, da tre anni in Italia. Ho letto anche il libro di Gian Antonio Stella, e non è stato il massimo dell`€™orgoglio che uno può provare, ma ho notato che la sua inchiesta sull`€™immigrazione non è stata del tutto casuale. Vorrei rispondere al signor Nino Canalis da Ozieri (`€œMessaggero`€, febbraio 2003) che, con una logica non molto coerente, ferisce tante persone, dopo essersi lui stesso offeso per suo padre. Non ho dubbi sull`€™onestà  di suo padre.
Ora i tempi sono cambiati e gli italiani con il loro lavoro hanno reso l`€™Italia una terra desiderata. Come lo era l`€™America per gli italiani del secolo scorso. Che cosa fa pensare al signor Canalis che gli albanesi siano tutti come lui li descrive`€¦? `€œ`€¦Allora è più vero dire non `€˜quando gli albanesi eravamo noi`€™, ma `€˜quando gli albanesi erano alcuni di noi`€™.
«Gli albanesi sono un grande popolo, nonostante le difficoltà  subite nel tempo. Anche qui, si trovano bravi albanesi che lavorano per migliorare la loro vita e quella dei loro figli, come ha fatto suo padre.
Alket - Treviso

Concordo. Non è giusto fare di ogni erbe un fascio. Zizzania e frumento convivono spesso insieme. Estirpare tutto indistintamente? Mi pare che anche la parabola evangelica considerasse prudente un pò di pazienza.

La Esso rifornisce le truppe Usa

«Ho ricevuto per posta telematica un documento firmato da molte persone, intellettuali e gente semplice, a quanto mi è dato capire, e in esso si afferma che la compagnia petrolifera Esso, che ha anche nel nostro Paese un bel po`€™ di pompe di benzina, ha vinto l`€™appalto di fornitura di carburante ai mezzi militari Usa impegnati in guerra, fino al 2005. `€œFacciamoli pentire di questa scelta commerciale`€ diceva perentorio chi mi ha inviato l`€™e-mail. Un chiaro invito al boicottaggio. Che ne dite?».    
Mario Alessandrini - Roma

Il boicottaggio è un mezzo che proprio negli Usa funziona benissimo. E quando le associazioni dei consumatori Oltreoceano lo mette in atto, le industrie prese di mira tremano. Certamente può essere un`€™«arma», per alcuni forse discutibile, ma sicuramente temibile, per far sentire la propria voce in modo pacifico. Ce l`€™ha insegnato, praticandolo, anche quell`€™uomo mite che è stato Gandhi.

Quando la morte mi ossessiona

«Ho bisogno di una parola di conforto. La vita finora mi ha dato solo tristezza e solitudine. Il problema che più mi assilla è la paura della morte: un`€™angoscia continua che mi toglie la voglia di vivere e mi sprofonda in una cupa depressione. Perché si nasce se si deve poi morire? Se avessi la fede, forse sarebbe diverso, invece non faccio altro che allontanarmi sempre più da Dio. Io non credo nella vita eterna, sono convinta che con la morte tutto finisca».
Lettera firmata - Catania

La sua paura della morte, credo di capire, è motivata dal fatto che con essa, la morte, tutto finisce. E allora si chiede: perché nascere se poi si muore? E questo le provoca una profonda tristezza che genera cupa depressione. Non è certo un bel vivere, il suo.
Per i cristiani, che sono stati educati alla speranza attraverso l`€™accoglienza della parola di Gesù, la risposta a quel «perché nascere?» è chiara: «per poi vivere per sempre, una volta risuscitati da Dio!». Per lei la faccenda è più complessa. Provo a suggerirle un percorso diverso, nella speranza che possa aiutarla a uscire da questa specie di incubo.
Provi a chiedersi da dove abbia origine il suo pessimismo, la sua titubanza in tutto che la porta a guastare con le sue stesse mani ogni affetto. Se ci pensa un po`€™, potrà  scoprire che più della morte, lei ha paura della vita: non sa buttarsi nel rischio di vivere. Forse non riesce a buttarsi nella vita, perché non si sente sicura neppure di farsi aiutare da qualcuno a rendersi indipendente, dentro di lei.
In un passaggio della lettera non riportato, racconta di aver chiesto aiuto a uno psicologo con il quale sta portando avanti un certo lavoro di chiarimento di se stessa: la via è buona. Vedrà  che man mano che riuscirà  a ricuperare fiducia in se stessa, ogni comportamento della sua esistenza acquisterà  una consistenza e un significato diversi: nel lavoro, nei rapporti con gli altri, che vedrà  come persone da amare. E anche nei suoi rapporti con Dio. Riacquisterà  anche la fiducia in Dio, non solo con le sue forze, ma anche con l`€™energia dello Spirito Santo. Quindi, anche senza volerlo, lo psicologo diventerà  collaboratore dello sviluppo della fede, che lei desidera e che lei può alimentare. Certo, la morte continuerà  a far paura, perché è sempre un evento drammatico, ma non sarà  come una cappa di piombo che le blocca la vita, bensì un momento di passaggio, segnato dalla speranza, dalla certezza del nostro ritorno alla casa del Padre, che è il motivo primo e ultimo per cui Dio ci ha dato la vita.

A C.K. di Pistoia: coraggio, la vita è bella

«Sono un`€™affezionata lettrice di 28 anni. Ho letto, nel numero di novembre 2002, la lettera di C.K. di Pistoia, e mi sono tornati alla mente alcuni ricordi dolorosi di un periodo buio della mia vita, nel quale ho pensato anch`€™io al suicidio. Anch`€™io sono nata e cresciuta in un paesino della campagna padovana. Fino alla terza media non ho mai avuto amici al di fuori dei ragazzi che frequentavano la mia scuola. Avevo un carattere estroverso e non ho mai avuto problemi di relazione con loro fino, appunto, alla fine della terza media.
«Poi, con la spensieratezza di quell`€™età , ho scelto di proseguire gli studi frequentando un Istituto tecnico, attirata dall`€™elettronica, in una scuola dove non conoscevo nessuno, e, soprattutto, dove erano quasi tutti maschi. Non ti ho detto una cosa: io sono decisamente brutta! Non lo dico per poca autostima, ma madre natura non è stata generosa con me. Lascio immaginare una come me in una scuola di ragazzi... È stato terribile. Fino ad allora non mi ero mai posta il problema del mio aspetto perché ero stata accettata senza problemi. I nuovi compagni di classe non hanno avuto mezze misure nel farmi notare quanto fossi diversa dalle due compagne decisamente carine... Mi sono sentita `€œtagliata fuori`€ da tutto.
«Non avevo il coraggio di parlare con nessuno di questo. L`€™unica mia valvola di sfogo era piangere come una disperata tornando a casa da scuola in bicicletta. Per me non aveva più senso niente, ero arrivata a convincermi che mi meritavo tutto perché una con questa brutta faccia è destinata a restare sola tutta la vita; credevo che non sarei riuscita a combinare nulla di buono e che mai nessuno mi sarebbe stato a sentire. Ho pensato seriamente al suicidio. Ma avevo qualcosa che mi impediva di farlo (e di questo ringrazio i miei genitori): la mia educazione cristiana, che mi aveva insegnato che era peccato rifiutare il dono della vita. Così mi sono rifugiata nella fede! Cercavo un po`€™ di conforto da chi mi aveva fatta così. Ho frequentato l`€™oratorio, ho iniziato a leggere la Bibbia assetata di parole che mi rasserenassero...
«Poi cominciai a pensare che attorno a me non c`€™erano solo i ragazzi che mi schernivano, c`€™erano anche le due compagne di classe che mi aiutavano e difendevano. C`€™erano gli amici delle medie che rivedevo nei week-end all`€™oratorio e mi facevano sentire accettata. Poi notai che Dio mi parlava attraverso tanti piccoli gesti; così mi misi ad ascoltare. Più aprivo il mio cuore all`€™ascolto più lui parlava, in tutto ciò che mi circondava e che mi capitava. Mi resi conto che lui mi ama così come sono e che se lui mi ama non posso non volermi bene io! Lui mi considerava speciale, così anch`€™io mi sono considerata speciale. Gli altri non se ne accorgevano? Beh! Peggio per loro!».
Raffaella - Brescia

Grazie per averci comunicato questa bella esperienza. Speriamo che C.K. e tante altre ragazze e ragazzi che si sentono, per diversi motivi, a disagio, trovino come lei la forza di reagire.

Il Dio del Vecchio e del Nuovo Testamento

«`€¦Ma come è mai possibile e credibile, l`€™evidente contrasto tra il Dio del Vecchio Testamento e quello del Nuovo? Non è che Gesù era anch`€™egli un grande profeta, un grande iniziato?`€¦ L`€™idea di un Dio che, con potenza, governa il mondo, punendo i malvagi e premiando i giusti, non è un`€™idea della cultura cristiana, è una realtà  testimoniata nel Vecchio Testamento. Lei conosce molto meglio e più di me i ricorrenti, numerosissimi episodi in cui Dio, dopo una ragionevole tolleranza, è intervenuto con ferree, ferme e terribili punizioni sul male terreno e sui suoi artefici dando riconoscimento ai buoni e ai giusti`€¦».
Lettera firmata

Leggendo la Bibbia lei registra un`€™incongruenza tra il Dio dell`€™Antico e quello del Nuovo Testamento. Le modalità  con cui Dio entra in comunicazione con gli uomini sono talmente distanti tra loro da renderle quasi incompatibili o, quantomeno, contraddittorie.
Il primo Testamento traccia un profilo di Dio che assomiglia molto a noi, la sua «psicologia» contempla irascibilità , sdegno, ira, tutti atteggiamenti tipici della personalità  umana.
Lo stesso senso di «giustizia» del quale lei parla, fa sentire Dio molto prossimo a noi, poiché gli viene riconosciuta l`€™equità  propria delle persone sagge. Il nuovo Testamento, invece, perfeziona la prima immagine di Dio, facendola apparire con una certa discontinuità  rispetto alla precedente. Stavolta non sono i profeti o altre persone speciali a parlarci di Lui, ma Gesù. Gesù si presenta come il Figlio di Dio, di quel Dio che, fino ad allora, si era rivelato in modo tale da non sconvolgere la sensibilità  del popolo ebraico.
Con Gesù la rivelazione fa uno scatto di qualità : non ha nessun tentennamento, non ha paura di scandalizzare, esprime chiaramente che Dio è amore e che il credente deve convertire se stesso e l`€™immagine stessa che s`€™è fatto di Dio. Dio si è manifestato agli uomini per gradi, rispettando, soprattutto all`€™inizio, la sua capacità  di comprensione, le categorie culturali di cui disponeva.
Con Gesù quella progressione si è compiuta: Egli ne ha svelato il vero volto, ne ha lasciato percepire l`€™essenza, ha dato un contenuto a ciò che ancora era avvolto nel mistero. Da un paio di millenni sappiamo che il Signore è buono, e, soprattutto, che il «riconoscimento dei buoni» avviene secondo criteri non umani. Inoltre, il premio o la pena sono posticipati alla fine dei tempi.
Nel tempo che ci separa dall`€™escaton, Dio ha rinunciato a intervenire direttamente, rispettando, nel bene e nel male, la libertà  e le scelte degli uomini.
Sono consapevole di quanto sia imperfetta la mia sintesi sulla storia della rivelazione, tuttavia, spero di aver trasmesso l`€™idea centrale, ovvero che Dio si fa conoscere agli uomini secondo quanto sono in grado di comprendere culturalmente.
È vero, tuttavia, che la pedagogia della rivelazione chiede sempre qualcosa in più, presenta sempre nuovi aspetti che inducono tutti noi a compiere un passo in avanti, sia nella conoscenza delle cose di Dio, sia nella conversione della vita.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017