Lettere al direttore

È possibile trasformare il computer da passatempo un po’ istupidente a strumento di comunicazione e di amicizia.
02 Febbraio 2003 | di

Lettera del mese

E se provassimo invece a giocare assieme ai nostri figli?

«Mi capita di litigare qualche volta con i figli per il troppo `€“ secondo me `€“ tempo che trascorrono davanti al computer, impegnati in quegli interminabili giochi quasi sempre intrisi di violenza e di stupidità . Faccio appello a tutti gli aggettivi che conosco per ribadire l`€™inutilità , se non la nocività , di quanto fanno. Ma ne esco sempre sconfitto».
Franco Bessarione - Latina

«Ho sentito in filovia dei ragazzini che si raccontavano le avventure di Sherlock Holmes e del dottor Watson sulle tracce di Jack lo Squartatore, costruite in un videogioco. Raccontavano cose orripilanti (ventri squartati, corpi tagliati, viscere frugate...) accompagnandole con grasse risate di compiacimento. Poi, il discorso è passato sul killer che a New York faceva stragi e sul ragazzino investito a Napoli da un`€™auto guidata da un minorenne scavezzacollo senza patente. E, come prima, accompagnavano il racconto con risate. Ascoltavo e inorridivo. Nessuna distinzione tra realtà  e finzione. Ma che gioventù, che mondo ci stiamo creando?».
Tania Ronsisvalle - Teramo

La cosiddetta legge del mercato spinge a usare tutto ciò che può attrarre non soltanto le parti migliori della nostra personalità  (la creatività , la fantasia, la capacità  di divertirsi insieme, di portare avanti progetti comuni) ma anche quelle peggiori: il fascino della violenza, per esempio. E la produzione di oggetti e programmi che fanno leva su certe tendenze negative ha ormai raggiunto tali livelli di abilità  e di suggestione da rendere inevitabile che una gran parte della popolazione (magari, qualche volta, anche noi!) se ne faccia consumatrice. I bambini e i ragazzi sono i più indifesi di fronte a quella che spesso è una vera e propria aggressione psicologica.
Ma, oltre che indifesi, assai spesso appaiono soli. Ormai sono tante le famiglie in cui i figli, anche piccoli, se ne stanno chiusi per ore nella loro stanza trasformata in caverna elettronica: un ambiente non riscaldato né illuminato da presenze affettuose, che vengono sostituite da teleschermi e computer. Sono tante, tantissime le lettere che arrivano al «Messaggero» sul disagio giovanile e le difficoltà  dei genitori e certamente le situazioni di cui parlano sono diverse fra loro. Tuttavia, una domanda che i genitori dovrebbero porsi più spesso è: quanto tempo dedico a mio figlio? A un figlio non basta dare vitto, alloggio, scuola, cure mediche, vestiario eccetera, occorre dare educazione e, perciò, capacità  di sviluppare i propri interessi, di ascoltarlo, di divertirsi con lui. Su questo i genitori, soprattutto i padri, troppo spesso sono assenti. Tornano a casa stanchi e finiscono per essere brontoloni che tacciono soltanto in pantofole davanti alla televisione. Così, come i bambini sono costretti a fare i «grandi» nella loro solitudine, i genitori fanno i bambini.
Prenda il caso dei computer, che è uno strumento di meravigliose possibilità  (ha entusiasmato persino Giovanni Paolo II). Troppo spesso entra nelle nostre case nella sua versione meno intelligente, quella, più rudimentale, che consente soltanto qualche gioco: e abbiamo visto che spesso i giochi sono stupidi o, addirittura, orribili. Varrebbe forse la pena di mettere da parte una somma un po`€™ maggiore, ritardando l`€™acquisto e comprando una macchina che non sia un giocattolo diseducativo. Allora il padre potrebbe diventare, probabilmente anche con suo divertimento, un maestro o un ricercatore e, alla fine, un «navigatore» con il figlio o la figlia: scoprire le possibilità  grafiche (sì, anche divertenti) e gli immensi depositi di notizie, da mettere, magari, a disposizione di qualche gruppo culturale o religioso. Insomma, il computer che diventa strumento di comunicazione, di amicizia, di espressione e non passatempo un po`€™ istupidente.

Betlemme muore: fate qualcosa
«Betlemme muore, tra l`€™indifferenza di tutto il mondo cristiano! È tempo che gli `€œuomini di buona volontà `€ (se ce ne sono ancora) aprano gli occhi. Noi non siamo una città  di terroristi, da meritare una così continua, brutale repressione. Noi siamo una città  umiliata, stremata, ormai ridotta a una gabbia mortale, travolta da una vendetta senza fine (*). A pochi giorni dal Natale, qui in Betlemme non sappiamo più cosa sia il far festa. Forse siamo tornati al tempo del primo Natale... Poveri e sofferenti, celebreremo un Gesù Bambino povero che prende parte alla nostra sofferenza, Lui almeno! Lontani dal mondo che annega nei consumi natalizi, avremo un Natale privo di luci; solo il cielo ci regalerà  le sue stelle, e ci dovranno bastare. Non c`€™è posto per la gioia quest`€™anno, in questa città  sotto assedio, che muore in silenzio. Lo squallore regna sulle nostre strade desolate, invase dalla sporcizia. Dai carri blindati, anche oggi, come ieri, come l`€™altro ieri, i soldati urlano gli ordini dell`€™esercito israeliano: coprifuoco, proibito uscire! Anche oggi siamo prigionieri.
«Come possiamo rimanere indifferenti? Come si può mantenere il silenzio? Come possono tenerci schiavi, rinchiuderci nelle nostre case come una tomba, impedirci di camminare liberi nella nostra città , privare della scuola i nostri bambini, per così lungo tempo?
«L`€™ombra sinistra di Erode sembra aleggiare nuovamente su di noi, Erode che uccide la vita e il futuro, Erode che semina la paura, che distrugge ogni briciolo di umanità . Il destino di questa città  è quello di pagare, e pagare sempre, per chi semina la morte: condannati tutti a una punizione di massa, viviamo da prigionieri, come animali in gabbia, sfamati dalle organizzazioni umanitarie. Come si può mantenere il silenzio su Betlemme, a pochi giorni dal Natale?».
Sorelle del Baby Hospital Betlemme

Le suore elisabettine che a Betlemme gestiscono il Baby Hospital, un ospedale dove curano indifferentemente bambini ebrei e palestinesi, ci avevano inviato questa lettera la vigilia dello scorso Natale, quando anche il numero di gennaio era già  in stampa. Ci è sembrato giusto farvela conoscere, perché, al di là  degli accenni alla festa ormai passata, in essa c`€™è tutto il dramma di Betlemme, della Terra di Gesù, dei palestinesi come degli ebrei perché in quel conflitto infinito ci sono vittime innocenti dall`€™una e dall`€™altra parte. Quel dramma continua, non se ne intravede la fine né affiora ancora la decisa volontà  di concluderlo. Alle suore, e a quanti soffrono laggiù, la nostra amicizia e la nostra preghiera per la pace.

Gli uxoricidi: incomprensione esasperata
«Il caso, più frequente di quel che sembra, di mariti separati che si vendicano della moglie che li ha lasciati compiendo gesti inconsulti che sfociano, a volte, in vere stragi, mi ha indotto a pormi delle domande. A sollecitare quei gesti è solo la disperazione di chi da solo non sa come cavarsela? o è l`€™orgoglio ferito del maschio che ha dovuto subire una scelta non sua (dati recenti del Veneto dicono che nel 70 per cento dei casi di separazione è la donna a fare il primo passo)? o è la vendetta del destino su una legge che ha reso legalmente lecito ciò che in sé non lo è: l`€™uomo non separi ciò che Dio ha unito?».
Carlo S. - Campobasso

A spingere a quei gesti terribili è un miscuglio di motivazioni, fra le quali anche quelle che lei elenca. Tuttavia, a parte la quota di follia che spesso, in questi casi, è assai elevata, la causa scatenante sembra essere sempre, sostanzialmente, una: il maschilismo, cioè la brutale pretesa di essere marito-padrone e padre-padrone. È una patologia che nasconde una forte immaturità  e un senso di debolezza da celare dietro una faccia «feroce» e un comportamento violento. Che una separazione legale, tanto più se chiesta dalla moglie, possa essere una delle cause scatenanti di fatti di sangue può anche darsi, ma `€“ ahimé `€“ altrettanti, e anche più numerosi, casi di uxoricidio avvengono anche in famiglie rimaste formalmente unite.
Una riflessione a parte merita, comunque, il problema, grave, delle separazioni coniugali e del loro aumento numerico: il fatto che esse, almeno in certe zone, siano chieste per la maggior parte dalle mogli è l`€™ennesima conferma del maggiore senso di indipendenza (e anche di dignità ) raggiunto dalle donne moderne, della loro volontà  di non essere più subalterne al marito, come tante loro madri; ma, purtroppo, deriva anche da due cause certamente deprecabili: la prima, è l`€™impreparazione al matrimonio (sulla quale almeno certi parroci dovrebbero essere ben più attenti); la seconda, è la caduta di una delle più importanti leggi non scritte della vita coniugale: la pazienza con la quale si dovrebbero discutere gli inevitabili problemi della coppia e con la quale si dovrebbero superare certi momenti bui che sono propri della vita «normale».

 Il Terzo Mondo interessa ancora a qualcuno?
«Non sono giovanissimo, quindi ricordo gli anni in cui i problemi del Terzo Mondo povero e affamato agitavano le coscienze e suscitavano iniziative di ogni genere. Oggi mi pare che il problema interessi assai meno. A tenere banco ci sono la crisi economica, le borse che tracollano, il terrorismo, la guerra a Saddam Hussein, la paura di perdere un benessere che ci ha riempiti di cose, ma svuotato il cuore, le liti tra i partiti sempre più scialbi e indecorosi. E i poveri? Non è che non se ne parli, ma con sempre minore passione. E se poi quei poveri, veri, si presentano alle porte di casa nelle vesti dell`€™immigrato che fugge la fame, li si vorrebbe cacciare. Sono troppo pessimista?».
Giulia C. - Modena

Cara Giulia, lei ha tutte le ragioni per chiedere che non si disperda il patrimonio di iniziative e di meditazioni del periodo seguente al Concilio. Nell`€™assemblea dei vescovi era risuonata una frase terribile dei Padri della Chiesa (i grandi evangelizzatori dei primi secoli): «Nutri colui che è moribondo per fame, perché se non lo nutri sei tu che lo uccidi». Questo richiamo alle responsabilità  personali e collettive è più che mai necessario oggi che la Terra, grazie ai mass media, è diventata più piccola e tutti sappiamo bene che una piccola minoranza di privilegiati (di cui facciamo parte noi, popoli dell`€™emisfero Nord) si appropria dell`€™enorme maggioranza delle ricchezze del pianeta, a scapito, naturalmente, di immensi popoli.
L`€™elemosina non basta più. Occorre che ciascuno di noi, come cristiano, dia generosamente a chi ha fame (papa Giovanni diceva che il nostro superfluo si misura sui bisogni dei poveri); ma anche, come cittadino, si interessi di un assetto del mondo che appare ingiusto e rivela un egoismo di massa; che si domandi, se `€“ per esempio, consumando o votando in un certo modo `€“ sta cercando di sradicare il male o soltanto di difendere la propria agiatezza. Credo che nelle chiese si dovrebbe leggere più spesso quel brano del vangelo di Matteo (capo xxv, vv. 31-46) in cui il Signore ci spiega che saremo salvati, o no, se avremo saputo vederlo, o no, nei poveri ai quali egli si è identificato.

A proposito dell`€™«Orda» di G.A. Stella
«Non scrivo per polemizzare, ma per amor di verità . Da anni ho studiato e scritto sull`€™emigrazione settentrionale italiana e mi stupisce come Gian Antonio Stella e lo stesso Igor Man, che lo riprende nel `€œMessaggero`€ di gennaio, incorrano a proposito in stupefacenti omissioni.
«È vero che anche i nostri emigranti trovarono vita dura, a volte insopportabile; è vero che pure loro spesso furono umiliati, disprezzati e ritenuti una sotto-razza; è vero che, non di rado, dovettero sopportare innumerevoli ingiustizie`€¦ ma questo non giustifica il sottotitolo dell`€™opera di Stella (`€œQuando gli albanesi eravamo noi`€), né un buonismo di facciata, suffragato da episodici racconti giornalistici, che tutto potrebbero giustificare.
«Per quanto io sappia, i nostri emigranti settentrionali mai si distinsero per delitti contro le persone o il patrimonio, mai si fecero corrieri di armi o droga, mai spinsero le loro donne alla prostituzione. Inoltre, andarono sempre in Paesi di fede cristiana e mai ruppero con alterigia la loro identità  religiosa; anzi quasi ovunque la vivificarono e arricchirono con nuove tradizioni e nuovi ministeri. Per contro, gli emigranti italiani spediti a suo tempo da Mussolini nei Paesi arabi, dovettero scappare ben presto!
«Queste sono le diversità  tra i nostri emigranti e tanti immigrati d`€™oggi, e credo non siano di poco conto. Troppo spesso (sempre!) sono sottaciute. Senza parlare di un`€™altra realtà : gli stati moderni non sono più riconducibili alle scassate amministrazioni di metà  Ottocento. È quindi una vergogna che non vogliano regolare l`€™immigrazione diligentemente, con dignità  e rispetto sia delle persone che immigrano e sia di quelle che le accolgono».
Gianni Bortoli - Susegana

«Non posso permettere al signor Stella o a chicchesia di offendere la memoria di mio padre `€“ e di tanti altri come lui `€“ andato all`€™estero a fare lo zappaterra, che non si è comportato come i `€œvu cumprà `€ di oggi, spacciatori di merce contrafatte, che mettono a disagio i commercianti onesti...».
Nino Canalis - Ozieri

Ho letto anch`€™io `€“ con curiosità  e interesse `€“ il libro di Gian Antonio Stella. Il noto giornalista del «Corriere» sostiene che l`€™emigrazione dei nostri connazionali, dal Nord come dal Sud, soprattutto agli inizi, tra la fine dell`€™Ottocento e i primi decenni del secolo successivo, ha molti punti in comune con quella degli extracomunitari, che cercano da noi quello che loro cercavano altrove. E porta al mulino della sua tesi una quantità  impressionante di documenti e testimonianze dai quali si ricava, appunto, che i nostri emigrati non furono accolti a braccia aperte nei Paesi dove andavano a cercare fortuna. Non se la passarono affatto bene: malvisti, umiliati, ghettizzati, accusati di vivere nella sporcizia e nella promiscuità , di essere rotti a ogni vizio `€“ alcol, coltello facile `€“, di minacciare, con la loro presenza e i loro comportamenti, l`€™integrità  culturale, etnica dei nativi. Anche tra i nostri ci furono clandestini e poco di buono`€¦ E così via, in un crescendo da brividi.
Vero o falso? Non conosciamo abbastanza la materia per decidere. Una cosa ci pare di dover dire e cioè che, nella foga di dimostrare la sua tesi, l`€™autore non ha sottolineato a sufficienza che, per certi aspetti, si trattava di una sola faccia della medaglia, quella più oscura e drammatica, che c`€™è stata anche un`€™emigrazione più tranquilla, di gente onesta che ha sì patito, ma ha saputo costruire per sé e per la famiglia un futuro di dignità  e di speranza. Allora è più vero dire non «quando gli albanesi eravamo noi», ma «quando gli albanesi erano alcuni di noi».
Resta il fatto, però, che documenti e testimonianze raccolte da Stella stanno lì con tutto il loro peso di denuncia e di sofferenza, almeno fino a che qualcuno, con un altro libro, non ne dimostri l`€™infondatezza o la falsità . Lo leggeremo con altrettanta curiosità  e interesse.
D`€™accordo con lei, infine, con la necessità  di regolare l`€™immigrazione per poter dare dignità  e rispetto a tutti: a chi immigra e a chi accoglie. E anche su quell`€™aspetto nuovo, la differenza di religione e il fanatismo di taluni, che di problemi certo ne crea. Bisognerà  affrontarli con chiarezza e nervi saldi. Ma questo è un altro discorso.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017