Lettere al direttore

27 Maggio 2013 | di

Quel 13 giugno del 1946
«Cesare è un ragazzotto magro e alto, spensierato e gioviale, dedito al lavoro nei campi con i fratelli e il padre. Cerca spesso l’occasione di far visita a una famiglia in paese dove si trova Maria, una ragazza alla quale sa di piacere. Nonostante abbia appena smesso i pantaloncini corti, viene strappato da casa per trovarsi, di lì a poco, in una trincea di prima linea sul fronte d’Africa. Ogni giorno, per procurarsi il rancio che si trova a 50 metri dalla trincea, si lancia all’aperto sperando di non venire colpito dai proiettili dei mitragliatori nemici. Un giorno una bomba cade nella sua trincea: nessuno dei sei compagni si alza vivo. Racconterà poi: “Quando qualcuno veniva dilaniato da un’esplosione, se c’era abbastanza corpo da poter urlare, le urla di dolore erano miste alla gioia di poter tornare a casa”. Cesare teme di non rivedere più il paese, la famiglia e la ragazza. Altro non può fare che pregare il suo Santo di Padova. Non passa molto tempo che la parte nemica ha il sopravvento. Insieme ai compagni viene rinchiuso in recinti con una libbra (458 grammi) di pane al giorno da dividersi tra venti prigionieri. Cesare probabilmente è già malato di Tbc polmonare. Deportato in un campo di lavoro, non smette di scrivere alla ragazza del paese.
È il 13 giugno 1946, la guerra è finita da mesi, Maria è all’inaugurazione del capitello di sant’Antonio che il paese ha eretto in devozione al Santo, da dove sente alcune voci gridare: “Cesare, Cesare è tornato!”. Il ragazzotto è malato, non sa se gli resta molto da vivere, ma è contento di rivedere, dopo tanto tempo, il paese, la sua famiglia, la ragazza. Dopo cinque anni di cure e sanatorio, ormai invalido, sposa Maria. Nel giro di qualche anno, alla loro tavola siederanno quattro figli. La primogenita, manco a dirlo, porta il nome del suo amico sant’Antonio. Io sono l’ultimogenito. Cesare e Maria trascorreranno assieme molti giorni, anche di fatiche e povertà, ma sempre in serenità di fede.

È il 9 giugno 1996, domenica, festa del Corpus Domini. Cesare si è confessato il giorno prima e alla mattina è andato, come di consuetudine, alla Messa e alla comunione. Il pomeriggio si reca dalla figlia, quella con il nome del Santo. Nei campi il grano è maturo perché, come dicono i contadini come lui, «dal Santo», cioè di lì a pochi giorni, si trebbia. Con la moglie si accinge a piantare dei fiori in giardino. Sotto il sole, accanto ai suoi cari, con dei fiori in mano, si accascia per non rialzarsi più. Quando arrivo io, papà è già su una tavola in ospedale. Porta i pantaloncini corti e la canottiera. Vedo il ragazzotto che era prima degli inferni delle bombe, della fame, della prigionia e della malattia. D’istinto gli bacio la fronte e gli faccio il segno di croce. Mi accorgerò poi di aver ripetuto il gesto che lui era solito fare a noi figli prima di addormentarci.

È il 13 giugno 1996. Le esequie di papà sono state il giorno prima. Io, la mamma e i fratelli andiamo a pregare, con i paesani, per il papà, ma questa sera il paese si trova al capitello del Santo, perché ricorrono i cinquant’anni dalla sua inaugurazione, proprio il giorno in cui mamma rivide papà di ritorno dalla guerra. Cinquant’anni di vita, di marito, di padre, una presenza il cui pensiero è ancora un abbraccio caloroso per noi figli. Una pagina scritta nel libro della Vita, che Dio ha voluto incorniciare con l’amicizia del Santo».
Graziano
 
Caro Graziano, ho voluto riportare interamente la tua lettera che mi ha commosso nel profondo. Grazie per aver voluto condividere le benedizioni che il Signore, per intercessione del nostro amato sant’Antonio, ha compiuto nella vita di papà Cesare e nella tua famiglia.
 
 
Gioco d’azzardo, cosa fanno politica e Chiesa?
«Gentile direttore, vorrei sapere se secondo lei è giusto che in tempi di crisi, quando ogni giorno arrivano angosciose notizie di povertà, si facciano lotterie e giochi miliardari distribuiti a caso. Non dovrebbero la politica e la Chiesa far sentire la loro voce?».
Juri
 
Certo che dovrebbero. Delle due istituzioni (politica e Chiesa), però, è solo la seconda a essere cristallina nella sua denuncia e nella sua azione. Non altrettanto, purtroppo, si può dire dello Stato, che in quanto detentore dei monopoli è in un certo senso complice nello scomodo ma remunerativo ruolo di biscazziere, tanto che secondo le ultime stime dovrebbe incassare per il solo anno 2012 oltre 7 miliardi di euro. Tanti, ma fino a un certo punto, visto che in media ogni italiano nello stesso anno ha speso nel gioco la cifra record di 1.410 euro, circa 84 miliardi di euro in totale. Qualche voce fuori dal coro si è alzata anche dal mondo della politica, ma per ora senza successo. E così si continua a «giocare» sulla disperazione, mandando sul lastrico migliaia di famiglie.

Nessuna ambiguità, invece, nella denuncia dell’azzardo da parte della Chiesa. Ad esempio, il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, non perde occasione per stigmatizzare il fenomeno, come ha fatto anche il 20 maggio di fronte ai vescovi italiani riuniti in assemblea: «Il nostro pensiero ritorna sul gioco d’azzardo che divora giovani, anziani e famiglie». Intervenendo nella sua Genova a un convegno sul legame tra gioco e usura, il porporato è stato anche più esplicito, definendo l’azzardo «una piovra che allunga i suoi mortali tentacoli promettendo molto e sradicando moltissimo, non di rado tutto».
Anche i media cattolici – in primis «Avvenire», ma pure noi del «Messaggero di sant’Antonio» – non da oggi dedicano alla questione e ai suoi risvolti sociali un’attenzione costante e poco accondiscendente.

In conclusione, infine, le voglio portare un piccolo (perché rivolto solo alla popolazione della bassa padovana) ma significativo esempio. Mi riferisco all’impegno di noi frati conventuali nella prevenzione, sensibilizzazione, formazione, ascolto e presa in carico di persone con problematiche correlate al gioco d’azzardo. Si tratta del progetto «Scommetti su te stesso» avviato dalla Comunità San Francesco di Monselice (PD), in collaborazione con il Servizio per le dipendenze dell’Ulss 17 del Veneto. Questo impegno, che si declina in incontri con i ragazzi delle scuole secondarie del territorio e con la popolazione locale, e nell’accompagnamento di alcuni giocatori e delle loro famiglie, mira a costruire con tutti la rete del benessere comunitario. L’obiettivo è far crescere la possibilità di scegliere secondo un più informato esercizio della libertà e far sorgere la consapevolezza che non esistono usi di sostanze o tentativi ludici «responsabili», perché ogni azione in questo senso è semplicemente un «rischio» (grave) per sé e per le persone a cui si vuole bene.
 
 

GIUGNO ANTONIANO A BRESCIA

 
In occasione del Giugno antoniano, ecco gli appuntamenti più significativi con cui la chiesa San Francesco d’Assisi a Brescia celebra l’anniversario della morte del Santo.
 
Venerdì 7 giugno
Ore 21.15 Concerto per la Festa di sant’Antonio.
Sinfonia n. 1 in Do Maggiore op. 21 e Sinfonia n. 7 in La Maggiore op. 92 di Ludwig van Beethoven.
Orchestra da camera Arteviva. Direttore: Matteo Baxiu.
 
Domenica 9 giugno
Ore 11.30 Accoglienza della reliquia di sant’Antonio e Santa Messa animata dalla Comunità dello Sri Lanka.
 
Giovedì 13 giugno
Festa di sant’Antonio. Ore 8, 9.30, 10.30, 11.30 Sante Messe.
Ore 10.30 Santa Messa per gli associati alle riviste antoniane.
Ore 17.00 Santa Messa per gli ammalati.
Ore 18.00 Vespri cantati.
Ore 18.30 Santa Messa solenne presieduta da monsignor Carlo Ghidelli, arcivescovo emerito di Lanciano-Ortona.
Anima la Corale San Francesco.
Dopo ogni Messa è prevista la possibilità di un gesto di devozione personale alla reliquia e la consegna del Pane di sant’Antonio.
 
Da sabato 1 a giovedì 13 giugno
Mostra pro missioni francescane nel salone del convento.
 
 

Lettera del mese. Misericordia
 
Da un Dio antipatico a un Dio «simpatico» perché misericordioso
 
La misericordia di Dio è cosa molto seria. L’amore evangelico, infatti, è talmente esigente che non permette all’uomo di avere il cuore diviso.
 
«Caro padre Ugo, nell’editoriale di maggio ha parlato di un incremento di confessioni dopo che papa Francesco ha più volte insistito sulla misericordia divina. La notizia mi conforta, ma fa anche pensare con rammarico al fatto che spesso la Chiesa non è capace di annunciare il vangelo della misericordia. Preferisce giudicare e moralizzare, piuttosto che annunciare la buona notizia di Dio che ama e amando guarisce e salva l’uomo».
Adriana – Forlì
 
Il 17 marzo, presentandosi ai fedeli riuniti in piazza San Pietro per il suo primo Angelus, in riferimento al brano dell’adultera (cf. Gv 8,1-11) che si conclude con le parole di Gesù «neanche io ti condanno: va’ e d’ora in poi non peccare più!», il neopontefice commenta: «Colpisce l’atteggiamento del Signore: non sentiamo parole di disprezzo, non sentiamo parole di condanna, ma soltanto parole di amore, di misericordia, che invitano alla conversione. Eh!, fratelli e sorelle, il volto di Dio è quello di un padre misericordioso, che sempre ha pazienza. Avete pensato voi alla pazienza di Dio, la pazienza che lui ha con ciascuno di noi?

Quella è la sua misericordia. Sempre ha pazienza, pazienza con noi, ci comprende, ci attende, non si stanca di perdonarci se sappiamo tornare a lui con il cuore contrito». E più avanti aggiunge: «Non dimentichiamo questa parola: Dio mai si stanca di perdonarci, mai! “Eh, padre, qual è il problema?”. Eh, il problema è che noi ci stanchiamo, noi non vogliamo, ci stanchiamo di chiedere perdono. Lui mai si stanca di perdonare, ma noi, a volte, ci stanchiamo di chiedere perdono. Non ci stanchiamo mai, non ci stanchiamo mai!». Chi ha ascoltato in diretta queste parole pronunciate con una tonalità dolce e scandita, non ha potuto non farle scendere in profondità, rendendole motivo di consolazione ma anche di confronto, spunto decisivo per guardare in modo diverso – forse dopo molti anni – al volto stesso di Dio. La sua misericordia si misura sulla pazienza, termine insistito, che fa la differenza tra l’atteggiamento dell’uomo (che si stanca di chiedere) e quello del Padre celeste (che non si stanca mai di offrire perdono). Un vero e proprio sovvertimento dei luoghi comuni del pensare di molti, che mettono Dio dalla parte di colui che pretende, esige, si spazientisce fino a punire, mentre l’uomo non sarebbe che una vittima di questo controllante e dispotico paternalismo divino. Se al centro del rapporto tra l’uomo e Dio non sta la misericordia, ci troviamo impossibilitati da una parte a scoprire l’identità profonda del Dio cristiano e dall’altra a riconoscere come determinante per l’uomo la relazione sempre nuova che questo Dio vuole avere con lui.

Nell’Angelus del 17 marzo papa Francesco cita anche il libro di un cardinale teologo, Walter Kasper, sulla misericordia: Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita cristiana. Si tratta di un bel libro, anche molto impegnativo, che cerca di liberare il concetto di misericordia dal fatto di essere cenerentola della riflessione cristiana, naturalmente «senza cadere nell’immagine banale e minimizzante del “buon Dio”, immagine che fa di lui il compagnone bonario e che non prende sul serio la sua giustizia». Sì, perché la misericordia di Dio è cosa molto seria, con la quale non si può giocare: se la Chiesa – come lei fa notare – sembra a volte avanzare richieste senza amore, nel senso che si fatica a intravedere dietro alcune norme morali il senso della misericordia divina, è anche vero che l’amore evangelico è talmente esigente, come ogni amore, d’altronde, da non permettere di avere il cuore diviso. Passare da un Dio antipatico a un Dio simpatico (letteralmente che soffre con, che con-divide) non significa – dice ancora Kasper – prendere Dio sottogamba, ma assumere per sé e per gli altri le conseguenze radicali della sua immensa misericordia.


Lettere al direttore, scrivere a: redazione@santantonio.org

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017