Lettere al direttore

27 Agosto 2012 | di

Scambiarsi la pace: molto più di un gesto
«L’altro giorno mi trovavo a messa, come ogni domenica mattina. Liturgia della Parola, omelia, presentazione dei doni e preghiera eucaristica: tutto è filato liscio, in modo forse un po’ ripetitivo. Comunque ho ascoltato le letture con attenzione, pregato Dio e cantato a Lui inni di gloria. Ancora una volta, la convinzione di aver fatto il mio dovere di cristiana, di aver condiviso qualcosa di buono con i miei fratelli.
Almeno fino a quando il sacerdote non ha pronunciato l’invito: “Scambiatevi un gesto di pace”. Mi sono voltata automaticamente verso il vicino di banco: nei 40 minuti di celebrazione già trascorsi non avevo trovato neppure un istante per guardarlo in faccia, fargli un cenno, augurargli una buona giornata. Poi, di punto in bianco, questa stretta di mano fredda e meccanica. Ma come può un gesto tanto carico di significato ridursi a mera procedura formale? Che senso ha scambiarsi il segno di pace?».
Lettera firmata

Anche i gesti più significativi, se non sono supportati da consapevolezza e buona volontà, possono trasformarsi in vuoti automatismi. Neppure un momento intenso come lo scambio della pace nella liturgia eucaristica è esente da questo rischio. Condividere una celebrazione e viverne ogni tappa con coscienza e pienezza è un impegno che richiede costanza e sacrificio. Stringersi la mano non è dunque il rituale conclusivo di un qualche galateo religioso, ma rappresenta piuttosto un richiamo continuo a quella pace che noi cristiani cerchiamo e fatichiamo a realizzare. Una pace che, sempre più spesso, ci rendiamo conto di tradire e immolare sull’altare dell’egoismo e della superficialità. Tornando alla sua domanda, dunque, è sufficiente consultare l’Ordinamento generale del messale romano per cogliere il senso di quella che possiamo considerare una «stretta di mano benedetta da Dio». «Con il rito della pace la Chiesa implora la pace e l’unità per se stessa e per l’intera famiglia umana – commenta il documento –, e i fedeli esprimono la comunione ecclesiale e l’amore vicendevole, prima di comunicare al Sacramento».
In un tempo carico di conflitti come il nostro, lo stesso Benedetto XVI, nell’esortazione apostolica postsinodale Sacramentum caritatis, ha definito il gesto della pace un segno di grande valore, anche dal punto di vista della sensibilità comune. Se da un lato, infatti, «la pace è un anelito insopprimibile, presente nel cuore di ciascuno», dall’altro, sottolinea il Pontefice, «la Chiesa si fa voce della domanda di pace e di riconciliazione che sale dall’animo di ogni persona di buona volontà, rivolgendola a Colui che “è la nostra pace” (Ef 2,14) e che può rappacificare popoli e persone, anche dove falliscono i tentativi umani».

Ci si può fidare delle banche etiche?
«Sono un piccolissimo imprenditore che, per il momento, appartiene alla fortunata schiera delle persone non in difficoltà.
Leggo sempre con interesse i vostri articoli sui temi relativi alla crisi, e in linea di massima li ho sempre condivisi. C’è però un punto fondamentale che spesso viene trascurato: gli istituti bancari, tra i principali colpevoli di questa crisi, non stanno pagando come sarebbe giusto e anzi sembrano protetti e sostenuti in ogni modo – basti vedere le “iniezioni” di liquidità da parte della BCE –. Combattere questo sistema è difficile, ma spesso ho pensato di fare nel mio piccolo qualcosa, perlomeno togliendo il mio denaro dalle banche convenzionali per rivolgermi alla finanza “etica”. Tuttavia, anche in questo caso è difficile orientarsi e capire se la scelta è giusta. Quanto ci si può fidare delle cosiddette banche etiche? Non si rischia semplicemente di pagare di più (prezzi e commissioni spesso sono più alti rispetto alle banche convenzionali) per arricchire “eticamente” i soliti noti? Che suggerimenti potete darmi? O viceversa: che alternative ci sono per chi vuole un approccio più etico alla finanza microaziendale?».
G.S. – e-mail

Visto il tema, mi sono permesso di inoltrare la lettera al professor Leonardo Becchetti, nostro collaboratore, economista e profondo conoscitore delle «banche etiche» (è presidente del comitato etico di Banca Etica). A lui la parola.
«Gentile lettore, con il suo intervento lei ha colto il punto più importante. Per poter ricostruire un’economia al servizio della persona è necessario che i cittadini comprendano che è loro interesse “votare con il proprio portafoglio”, ovvero premiare con i loro consumi e risparmi quelle aziende che più delle altre contribuiscono al bene comune creando valore economico in modo socialmente e ambientalmente sostenibile. In un mondo dominato dai meccanismi dell’economia, il voto col portafoglio è l’urna elettorale più importante che abbiamo a disposizione ogni giorno per costruire condizioni migliori. Per paradosso, non è necessario che il voto col portafoglio sia perfetto, perché, man mano che una quota maggiore di cittadini si avvia su questa strada, l’incentivo alla modifica dei comportamenti delle imprese diverrà sempre più stringente. Aiutando a cambiare quelle stesse banche di cui oggi lei si lamenta. Votare col portafoglio nel settore della finanza è ancora più importante. Proprio i fatti cui lei fa riferimento indicano che la propensione del sistema bancario a utilizzare le risorse che ricevono dalle “istituzioni salvatrici” per finanziare i cittadini e le imprese è molto diversa tra banca e banca. Senza voler entrare nello specifico, le cito un fatto di cronaca. Dopo lo scandalo Barkclays nel Regno Unito, una quota molto significativa di correntisti si è spostata verso le banche etiche e cooperative del Paese. Se farà la fatica di informarsi attraverso le guide al risparmio critico e alle classifiche di rating etico, verificherà che esistono differenze significative. E che scegliere partner ritenuti più etici (oltre alla soddisfazione di dare un contributo nella direzione che ho indicato) non vuol dire affatto necessariamente perderci come lei teme possa accadere. Chiudo con una metafora. Preferirebbe un passaggio da un autista ubriaco senza cinture di sicurezza che guida a 300 all’ora o invece da un autista sobrio con cinture di sicurezza che rispetta i limiti di velocità? La differenza tra finanza etica e meno etica sta anche qui». (L.B.)

I miei figli non credono: che faccio?
«Sono una mamma-insegnante-catechista di 48 anni con due figli, una ragazza di 21 anni e un ragazzo di 14. Sono cresciuta in parrocchia, sono stata negli scout, ho fatto tanti campi di volontariato e servizio, la mia adolescenza è stata dura ma la fede mi ha fortificata e fatta crescere con valori importanti. Vorrei che i miei figli rivivessero lo stesso cammino di fede che ho fatto io ma, nonostante i miei sforzi, non riesco a convincerli. Mia figlia è una bravissima ragazza, studia e lavora, ma è lontana dalla parrocchia. Mio figlio è ancora in un gruppo post cresima e, forzatamente, l’ho inserito come animatore all’oratorio. A messa viene con me a fatica e non vuole sentire tanti discorsi troppo “cattolici”, come dice lui. Devo continuare così, devo insistere che vada sempre alla messa... è forse esagerato tutto ciò?».
I.G. – e-mail

Non è mai esagerato preoccuparsi per un figlio e cercare di trasmettergli ciò che secondo noi è buono, ciò che nella vita abbiamo sperimentato essere una proposta valida. In discussione, quindi, non è il se, ma il come, vale a dire quale sia il modo migliore per appassionare i ragazzi alla fede. Un linguaggio che con i giovani funziona sempre è quello della testimonianza e la prima testimonianza da dare è quella di una vita umana pienamente riuscita. Per chi crede, comunicare ai ragazzi la serenità che viene da un’esistenza felice è, quindi, la prima forma di trasmissione della fede. In secondo luogo, è importante che non venga mai meno la disponibilità all’ascolto: trovi sempre tempo per porgere l’orecchio e la mente alle parole dei suoi figli, quando loro lo richiedono. Infine, pur continuando ad avanzare la sua proposta di vita buona poggiata sul Vangelo (e senza pretendere che i suoi figli incontrino Dio seguendo pari passo il percorso da lei fatto in gioventù), non si stanchi mai di accogliere i suoi ragazzi incondizionatamente. Perché educare, come scrive Pierre Durrande ne L’arte di educare alla vita (Qiqajon) «significa desiderare la piena libertà di un essere umano, cioè renderlo capace di amare la vita e di servirne le dinamiche, per sé e per gli altri». Fare questo è già immettere sui sentieri della fede.

Generosità e gratitudine: c’è un limite?
«Durante l’anno scolastico, le insegnanti della primaria frequentata da mio figlio hanno assegnato ai bambini dei compiti da eseguire al computer. Alcuni di questi alunni, provenendo da famiglie pressoché digiune di una conoscenza base del mezzo informatico, si sono avvalsi del mio aiuto, che io non ho mancato di dispensare. Tuttavia, un po’ come accadde a Gesù quando risanò i dieci lebbrosi – uno solo dei quali tornò indietro per ringraziare –, anche nel mio caso solo due famiglie mi hanno espresso gratitudine. L’amarezza che è derivata dall’indifferenza delle altre mi ha indotto a chiudere per un po’ i “rubinetti” della generosità. Non voglio indurire il mio cuore; lo stesso Gesù ci ha detto che al cospetto del Padre acquisiamo molti più meriti se amiamo e preghiamo per i nemici, tuttavia sono convinta che vi siano adulti da “educare”, con un atteggiamento di carità ma anche di fermezza. È l’atteggiamento corretto?».
Lettera firmata

Gentile signora, per rispondere alla sua lettera – che ho dovuto sintetizzare – vorrei entrare più in profondità nel racconto. Lei dice di aver aiutato alcuni compagni di suo figlio a fare i compiti al computer, e di aver ricevuto gratitudine solo da due famiglie. E dai bambini? Dubito non abbiano ringraziato, magari a modo loro, con un sorriso o una parola. Altro protagonista in ombra: suo figlio. Il fatto che la mamma sia stata capace di aiutare gli amichetti e che abbia trovato il tempo per farlo è stato sicuramente motivo di sano orgoglio, anche se forse il piccolo non ha espresso verbalmente la sua soddisfazione. E veniamo all’esempio di Gesù, il generoso per antonomasia. Egli, come leggiamo nella lettera ai Filippesi, non ritenne un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo, diventando simile agli uomini, facendosi obbediente fino alla croce pur di offrirci la salvezza. Il suo amore è gratuito, è dono che chiede sì di essere corrisposto, ma come succede tra due innamorati, non per debito o rivendicazione. È un amore offerto a tutti, anche prima che una creatura ne abbia consapevolezza. Di certo, il rammarico di Gesù di fronte all’unico lebbroso tornato a ringraziare non è per aver «sprecato» nove miracoli. Ciascuno di noi sa bene che, per una volta in cui rende lode a Dio, ce ne sono ben più di nove per le quali rimane afono.
In conclusione: la generosità non è un modo elegante per acquisire crediti. Riscopra in sé questa dote e la coltivi alla luce della fede, senza sottoporla al severo tribunale del ringraziamento da parte degli altri. Anzi, non si aspetti nemmeno uno di quei grazie: se arriveranno, giungeranno ancora più graditi e, anch’essi, gratuiti.


Lettera del mese. MassMedia nella deregulation

Troppe informazioni, poche notizie, verità latitante

 
In un tempo di infobesità, non si tratta di informarsi meno, ma meglio, puntando sulla qualità e favorendo i media che rispettano la verità.
 
«Caro direttore, il mondo dei media mi sembra sempre più caotico e autoreferenziale. Mi pare che la verità interessi poco e a pochi, e che le informazioni siano troppo gridate e comunque omologate. Cosa ne pensa?».
Alberto – Rimini

Il rapporto media-verità, che lei considera come punto nevralgico di una comunicazione oggi difficoltosa, non va visto, da subito, nella sua drammaticità. Se secondo il sentire comune i media sarebbero cattivi servitori della verità, con rare e lodevoli eccezioni, bisogna anche dire che il concetto di verità è analogico e plurale e quindi non sempre è in causa la verità assoluta e ancor meno la verità religiosa. L’importante è non accontentarsi mai del verosimile, che della verità è forse il nemico più agguerrito, perché non si presenta sotto le vesti dell’errore ma della mezza verità, della verità solo parziale, che rischia di legittimare la parte in ombra, quella marcia.
Passando dai princìpi alle dinamiche sul campo, ritengo che siano soprattutto tre gli aspetti problematici che oggi più influiscono sul fare o meno comunicazione nella verità: la grave crisi dell’editoria; la crisi del giornalismo, meglio, dei giornalisti; il fatto che siamo alluvionati da informazioni, poche delle quali diventano notizie.
A ben guardare, la crisi dell’editoria ha contribuito di molto a cambiare l’informazione: se i numeri di vendita sono in caduta libera, ci si può illudere che una comunicazione spinta o gridata risvegli l’attenzione. Ma quando si grida si ragiona meno, si sceglie di essere meno lucidi, si rispetta meno l’oggettività dei fatti. In una parola: la verità.

Vi è poi la crisi del giornalismo e dei giornalisti. Un’inchiesta commissionata dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia ad Astra Ricerche, dal titolo Il futuro del giornalismo in Italia, rileva che gli italiani non ritengono i giornalisti molto credibili. Impietosamente, e ingiustamente – aggiungo io –, li giudicano «poco informati, esagerati, non indipendenti, corrotti, narcisisti e poco comprensibili». A salvare la situazione contribuirebbe un manipolo di professionisti «amati e stimati dai lettori». Ci sono, poi, anche in relazione alle fonti informative, livelli diversi di credibilità: i radiogiornali sono considerati più affidabili dei telegiornali, l’informazione scientifica è ritenuta più attendibile di quella economica o politica. La preferenza, con apprezzamento in netta crescita, è data alle notizie locali, che sono anche le più verificabili in presa diretta.

La terza situazione che indebolisce la prospettiva del «dire la verità» è relativa al flusso perenne e rigurgitante delle informazioni che diventano (o non riescono a diventare) notizie. Un esempio? Le agenzie di stampa trasmettono ogni giorno 800 notizie dall’Italia e circa 1000 dall’estero; di queste, un telegiornale ne riprende al massimo 35 e un quotidiano tra le 100 e le 140. Dove sta la verità? Chi decide, oggi, cos’è notizia? Se il giornalista è sempre più un giornalista da desk (da tavolo di lavoro), quindi uno che fa il suo mestiere restando in ufficio davanti ai cristalli liquidi del pc e non recandosi invece sul campo, come dovrebbe essere, la sua scelta dipenderà da verità già confezionate da altri, che egli dovrà solo filtrare e «cucinare», come si dice nel gergo giornalistico. Proprio per questo l’informazione globalizzata è forse la più omologata di ogni tempo.
Di fronte a una situazione di deregulation dell’informazione e di una sua precaria credibilità, vale la pena di accogliere l’invito della sociologa Chiara Giaccardi: innanzitutto evitare le junk news (le notizie spazzatura), poiché quanto vale per il cibo vale anche per le altre forme di consumo. Poi, visto che viviamo in un tempo di infobesità, metterci a dieta, con intelligenza. Non si tratta di informarsi meno, ma meglio, puntando sulla qualità, la qual cosa significa anche favorire chi rispetta la verità.

Lettere al direttore, scrivere a: redazione@santantonio.org 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017